Leggiamo che il tavolo della cosiddetta “Cosa rossa” troverebbe
difficoltà a proseguire a causa del nodo delle amministrative e, quindi,
delle alleanze. Ci sarebbe insomma una sorta di partito trasversale
degli amministratori che resiste all’idea di rompere con il PD a livello
locale.
Ora, che la questione delle alleanze e delle elezioni amministrative
alle porte sia l’argomento di discussione di un tavolo che vuol dar vita
a un nuovo partito della sinistra mi pare che dica alcune cose molto
preoccupanti sulla natura dell’iniziativa. Infatti, non è preoccupante che si discuta e che ci si confronti, lo è perché si discute su cose di secondaria importanza.
Quando si decide di costituire un partito, infatti, prima dovrebbe
venire il riferimento a una cultura politica condivisa su alcune
questioni fondamentali: visione della società, forma-partito,
collocazione del proprio paese nel Mediterraneo e quindi politica
estera, come si interviene nel conflitto tra capitale e lavoro, crisi
della democrazia e sue contraddizioni, euro ed Europa, egemonia
dell’immaginario neoliberale e nuova capacità egemonica della sinistra
(e qui si ritorna al primo punto sulla visione di lungo periodo).
Se si discute animatamente su alleanze ed elezioni, ciò significa che
nessuno discute (magari animatamente!) sui punti fondamentali
dell’identità politica. Peraltro, le alleanze si stringono sulla base di patti di programma.
Non mi pare che si discuta nemmeno di programmi, cosa difficile se
prima non si mettono in fila le questioni dirimenti che ho cercato di
elencare prima. E qui il circolo diventa vizioso.
Ho parlato di “partito degli amministratori”. È un’espressione
vecchia che risale ai tempi del PCI e che stava a indicare quell’ala
cosiddetta riformista o moderata che richiamava il partito alla
concretezza del governo contro chi ancora pensava a un’uscita dal
capitalismo (anche se chi pensava a quell’uscita non pensava certo
all’evento rivoluzionario traumatico ma a una strategia molecolare di
avanzamento dei subalterni o di valorizzazione delle eccedenze che
rimanevano fuori dal sistema industriale capitalistico). Sul partito
degli amministratori c’è una pregevole letteratura sociologica che
denunciò anche la sua progressiva autoreferenzialità. Importa qui però
dire che all’interno di un grande partito di massa, radicato e
strutturato, con organismi dirigenti veri a ogni livello, il confronto
fra “amministratori” e “anticapitalisti” (permettetemi le etichette per
semplificare) garantiva una dialettica di altissimo livello che
rappresentò un arricchimento per quel partito, per i suoi dirigenti e
suoi militanti.
Oggi, il “partito degli amministratori” non è uno dei due poli di una
dialettica, ma perlopiù un gruppo di persone che ormai non risponde a
nessun partito, dal momento che i partiti non esistono più se non
formalmente, ed infatti va considerato come trasversale, legato dalla
necessità di mantenere una posizione di governo, sia per ragioni di
sopravvivenza per sé e per i propri clientes (che sono le meno nobili,
anche se fra i clientes vi sono associazioni, cooperative sociali ecc..)
sia per la convinzione che solo da un assessorato si possa difendere
quanto rimane dello stato sociale.
Oggi, senza un’idea di mondo, senza una forza strutturata e radicata
(per la quale ci vorrà molto tempo e pazienza oltre qualsiasi scadenza
elettorale) non è possibile richiamare la dialettica tra riformisti che
vogliono governare e “anticapitalisti” che vogliono uscire dal sistema
(e ancora mi scuso per la semplificazione). All’interno del paradigma
neoliberale e fuori da partiti forti, come ho cercato di spiegare sopra,
non può esistere quella dialettica ed è vano richiamarla, come se
ancora ci fosse il compromesso tra capitale e lavoro operante. Syriza
non è riuscita nell’impresa di condizionare quel paradigma dalla
posizione del governo nazionale, perché dovrebbe riuscirci una forza che
si costituisce senza discussione, senza identità e con la fusione di
gruppi dirigenti litigiosi preoccupati perlopiù della propria sorte e
che pare abbiano come principale preoccupazione il governo locale di
alcune grandi città?
Rimane allora fondamentale, a mio parere, la costruzione di un gruppo
dirigente che accetti di misurarsi con il deserto e la pazienza di una
ricostruzione di lunga lena e non abbia alcuna posizione da difendere.
Non si tratta di rottamare, anzi, si tratta di chiedere ai compagni più
anziani e più esperti di insegnare, chiedendo però loro di fare un passo
indietro perché questo non è più il tempo di sterili categorie ormai
datatissime.
Dardot e Laval hanno posto il problema ne “La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità liberista”
(DeriveApprodi, Roma 2013), spiegando chiaramente come oggi il governo
neoliberale degli altri sia anche il governo di sé, come cioè
l’immaginario occidentale sia pervaso dall’idea che si debba diventare
imprenditori di se stessi per essere felici e sentirsi liberi. Il
neoliberalismo è riuscito a fondere la creazione di un nuovo soggetto
con il governo degli altri. Nel momento in cui il soggetto si
costruisce, allo stesso tempo produce anche il governo degli altri.
Pensiamo, per esempio, al fatto che ormai è assolutamente normale per
lavoratori, manager e dirigenti della pubblica amministrazione, docenti e
studenti partecipare a corsi di formazione in cui si insegnano i
principi fondamentali della concorrenza, della valutazione, della
gestione dei rapporti interpersonali come insieme di tecniche volte a
trarre il massimo in termini economici da quei rapporti. A fronte di ciò
non serve favoleggiare il ritorno al compromesso socialdemocratico
perché la sinistra deve fronteggiare invece una nuova soggettività e una
nuova ragione del mondo che è tale non solo perché le leggi
dell’economia sono considerate naturali, ma anche perché il
neoliberalismo è un’idea di uomo che si fa imprenditore di se stesso (e
anche il lavoratore salariato lo è nel momento in cui passa gran parte
del suo tempo libero a calcolare quale sia la migliore assicurazione
auto, il provider telefonico più conveniente o la scuola che un domani
potrà garantire più reddito per i propri figli, o si sente gratificato
dall’essere inserito in un team di lavoro all’interno dell’azienda in
cui lavora). Non siamo allora in presenza di un capitalismo più puro e
senza regole da limitare di nuovo con controlli più stringenti (magari
con più diritti per tutti come vorrebbe Rodotà). Il problema, infatti,
considerando oltretutto che non è vero che lo Stato sia assente nel
neoliberalismo, ma è anzi uno dei soggetti fondamentali della sua
costruzione (e quando compete, per esempio, tramite la leva fiscale per
attrarre capitali e farsi Stato in concorrenza con altri Stati è un
soggetto assolutamente forte), è quello di come uscire dalla razionalità neoliberale che ha mutato nel profondo tutti noi, anche quelli più di sinistra.
Si tratta allora di proporre forme di soggettività alternative a
quelle dominanti (e quanto ci insegnò su questo a suo tempo Claudio
Napoleoni e quanto avrebbe ancora da insegnarci), grazie anche e
soprattutto a un soggetto politico forte che sia in grado di elaborare
una nuova visione del mondo, dell’uomo e della donna, del rapporto tra
sé e gli altri, fra sé e le cose e quindi anche una critica della
tecnica. Per fare questo, abbiamo bisogno di un nuovo gruppo dirigente
che abbia la passione per lo specifico umano e per il pensiero. Abbiamo
bisogno di cercare ancora e di pensare in grande. Solo un grande
pensiero, peraltro, produce il riformismo, e non viceversa…