Grazie a un mix di economia, esercito e istituzioni, gli Stati Uniti sono riusciti a far pagare al resto del mondo il conto della ‘loro’ crisi. La strategia keynesiana della Fed. Il gioco delle agenzie di rating. La ‘trappola della sterlina’ condanna Pechino a comprare T-bonds.
1. «QUANDO LA MAREA SI RITRAE CI ACCORGIAMO di chi finora ha nuotato nudo»1. Col senno di poi, la profezia dell’oracolo ugonotto Warren Buffett si applica efficacemente alla resa dei conti finanziaria dei primi anni Duemila. Scontro frontale tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, la crisi del 2008 ha palesato la preminenza dell’imperium sul mercato, smascherato l’inconsistenza dell’architettura europea e ristabilito la distanza tra Washington e Pechino. Eppure, storditi dalla propaganda antistorica elaborata oltreoceano, alla fine del decennio scorso in molti preconizzavano il crepuscolo della superpotenza. Quasi la finanza potesse avere la meglio sulla politica. Quasi la moneta non fosse una capricciosa creazione dei governanti. Secondo le cassandre postmoderne, la polverizzazione dei mutui subprime, unita ai dispendiosi errori commessi da George W. Bush nel Grande Medio Oriente, avrebbe presto sconvolto l’ordine mondiale. Wall Street era destinata al collasso. Il dollaro avrebbe perso il suo privilège exorbitant2.
Il successivo dipanarsi degli eventi ha invece visto prevalere proprio gli Stati Uniti, l’unico soggetto che può disporre simultaneamente di sovranità, potenza militare e certezza istituzionale. Lungi dall’essere l’apocalisse annunciata, la grande recessione s’è rivelata una semplice congiuntura del ciclo economico capitalistico (boom-bust-boom), che ha colpito soprattutto i rivali dell’America e consolidato la posizione del biglietto verde. Nel momento di massima incertezza, Washington ha saputo scaricare sui paesi emergenti i costi della ripresa, dimostrando plasticamente quale smisurato peso hanno sugli abitanti del pianeta le sue iniziative. Un successo inedito e agevole, perché realizzato utilizzando esclusivamente la taglia della sua influenza, senza ricorrere alla guerra. Con conseguenze funeste per l’Unione Europea, la Cina e i paesi emergenti.
2. Valore intrinseco di una moneta è l’autorità politica e militare di chi la batte, nonché la sua percezione imperiale. Cortocircuito concettuale: gli europei sembrano averlo dimenticato, mentre i cinesi mancano di un approccio universalistico utile a comprenderlo. Ex alunni delle università americane in cui si distilla l’ideologia tecnocratica, negli anni Novanta i dirigenti di Bruxelles hanno pensato fosse possibile creare una valuta senza Stato. «Il tentativo europeo di stabilire un ordine di tipo transnazionale, che supera la sovranità e il tradizionale potere della politica, è perfettamente in sintonia con il mondo poststorico»3, scriveva nel 2007 e senza alcuna ironia il celebre politologo statunitense Francis Fukuyama, molto apprezzato nel Vecchio Continente. Allo stesso modo i cinesi, gelosi difensori del surplus commerciale, in attesa di creare un loro consistente mercato interno continuano a collezionare dollari e a svalutare lo yuan, rendendolo solo moderatamente appetibile all’estero.
Al contrario i burocrati americani non hanno mai creduto al primato del mercato sulla sovranità. Abituati a ragionare in termini imperiali, riconoscono che è la solidità delle istituzioni federali a determinare l’appeal del dollaro. Non viceversa. Sono altresì consapevoli che è la loro Marina militare, potenzialmente in grado di escludere qualsiasi soggetto dal commercio internazionale, ad aver creato l’attuale globalizzazione. Non l’afflato ecumenico che anima ogni essere umano. E non hanno mai considerato un pericolo l’esposizione verso l’estero, perché solo un ampio deficit mercantile consente alla moneta di diffondersi per il globo. Ne è nitido esempio la banconota da 100 dollari che, poco usata in patria ma spedita nel mondo dalla Federal Reserve di New York in carichi da 640 mila pezzi ciascuno, è di gran lunga la più stampata dalla zecca Usa (77% del totale)4.
Conscia delle fondamenta su cui si regge la sua supremazia, l’America si affida puntualmente allo Stato o alla guerra per rilanciare l’economia. Fu così durante il secondo conflitto mondiale, quando l’esborso bellico estrasse definitivamente il paese dalla recessione. Accadde lo stesso perfino durante la presidenza Ronald Reagan, seguace dichiarato della supply-side economics, quando la spesa federale passò in tre anni dal 20% al 22% del pil e quella militare aumentò del 35%, raggiungendo la cifra stanziata in passato per affrontare la fase più acuta della guerra in Vietnam. Negli anni Ottanta Washington si trasformò per la prima volta da creditore a principale debitore internazionale, persuadendo i contribuenti stranieri ad accollarsi i costi del riarmo americano in funzione antisovietica. Allo stesso modo, durante la presidenza di George W. Bush furono soprattutto giapponesi e cinesi, attraverso l’imponente sottoscrizione di T-bonds, a sponsorizzare la guerra al terrorismo che manteneva l’egemone globale impantanato in teatri secondari.
Sicché, mentre in Europa i governi continentali adottano draconiane ricette d’austerità, nel 2008 la superpotenza sceglie di rispondere alla crisi aggrappandosi ancora una volta alla geopolitica. In linea con i dettami della scuola keynesiana, la Federal Reserve guidata da Ben Bernanke inaugura nel novembre di quell’anno un programma di acquisto massiccio di titoli di Stato, che in tre fasi e nell’arco di cinque anni avrebbe registrato un esborso di 3.500 miliardi di dollari ed espanso il bilancio della Fed da 850 a circa 4.500 miliardi. Pensato per stimolare la domanda interna e provocare una diminuzione dei tassi di interesse sui buoni del Tesoro, il quantitative easing (Qe) non mira a deprezzare la moneta, benché la svalutazione sia tra le sue conseguenze naturali. «Indebolire la divisa nazionale non è un nostro obiettivo, perché nel breve periodo non saranno le esportazioni a risollevare la nostra economia»5, spiega lo stesso Bernanke nel 2010. Alla base della manovra c’è il dollaro come divisa di riserva e la credibilità del sistema politico statunitense. Secondo i calcoli della Fed, poiché costrette dalle contingenze, negli anni successivi le principali potenze del globo avrebbero finanziato la ripresa americana e ridimensionato le loro ambizioni. La previsione si rivela corretta. Spaventati dal temuto deprezzamento del biglietto verde e dall’implosione dell’euro, tra il 2009 e il 2013 la Cina, il Giappone e le economie del G-20 (dal Brasile alla Turchia, fino al Messico) comprano sul mercato valutario quantità ingenti di dollari.
A provocarne l’azione sono impellenze di natura semi-mercantilistica. Le nazioni acquirenti vogliono frenare il rafforzamento delle proprie monete (causato dall’afflusso di capitali stranieri in cerca di rendite superiori a quelle dei titoli statunitensi), che rischia di danneggiare le esportazioni. Allo stesso tempo, intendono accrescere le loro riserve di dollari (specie ora che gli interventi straordinari richiesti dalla crisi le hanno parzialmente ridotte) e impedire che la debolezza della divisa americana ne eroda il valore. La poderosa acquisizione innesca un circolo vizioso funzionale agli interessi di Washington. Bisognose di asset sicuri in cui parcheggiare i biglietti verdi, le banche centrali si aggiudicano il 65% delle obbligazioni federali presenti sul mercato e gli interessi pagati sugli stessi crollano dal 4 all’1,5% 6.
3. I governi stranieri non hanno alternative. Nonostante abbia materialmente creato la crisi che attanaglia la terra, l’America resta il più affidabile degli investimenti. L’immensa classe media fa del paese la destinazione naturale dell’export internazionale; Wall Street è tuttora la più rilevante piazza finanziaria del pianeta e il mercato del debito pubblico Usa, con i suoi 30 mila miliardi di dollari, è doppio rispetto a quello giapponese – il secondo al mondo per importanza7.
Soprattutto, il magnete americano attrae a sé per ragioni di tipo militare, giuridico e politico. Talassocrazia inarrivabile e nazione dotata di una propaganda altamente sofisticata, l’America appare immune agli sconvolgimenti globali che pure tende a causare. Inoltre la solidità delle istituzioni statunitensi e la rule of law garantiscono il rispetto delle transazioni e l’inviolabilità dei capitali. I governi stranieri sono sicuri che, pure in tempi avversi, Washington non oserebbe confiscare le loro proprietà.
Infine, è la complessità del sistema politico americano a mettere al riparo gli investitori da surrettizie offensive inflazionistiche. Teoricamente la Federal Reserve potrebbe stampare dollari per deprezzare la moneta e ridurre così la quantità di debito da rimborsare, ma finirebbe per indebolire l’amministrazione federale. Circa il 40% del debito statunitense è detenuto da società e contribuenti indigeni, specie i fondi pensionistici, che reagirebbero con rabbia alla scomparsa dei loro risparmi e che alle successive elezioni si scaglierebbero contro il partito del presidente. Anzitutto in Florida, Stato decisivo nella corsa alla Casa Bianca, dove vivono numerosi titolari di pensioni integrative.
Così mentre la crisi finanziaria frantuma l’Unione Europea e mentre il Giappone – nazione dedita all’export – è costretto a spendersi per rafforzare la valuta straniera, tra il 2009 e il 2013 si riversano negli Stati Uniti 2.510 miliardi di dollari8. Pressoché la stessa cifra – 2.600 miliardi – stampata nelle prime due fasi del Qe e nettamente di più dello stimolo alla ripresa approvato nel 2009 dalla Casa Bianca (830 miliardi). Per Obama è un trionfo. A dispetto delle accuse di dissolutezza, Washington non ha speso un soldo per rivitalizzare l’economia. In questo periodo tra i maggiori finanziatori del debito Usa vi sono nemici e alleati, economie avanzate e nazioni emergenti: il Giappone acquista T-bonds per un valore di 556 miliardi di dollari; la Cina per 543 miliardi; il Brasile per 129 miliardi; l’India per 60 miliardi; il Regno Unito per 32 miliardi9. Anche la richiesta di dollari in contanti subisce un’impennata. Dopo una flessione della domanda registrata in concomitanza con la nascita dell’euro, tra il 2008 e il 2012 la quantità di dollari presente fuori dai confini nazionali passa da 301 a 454 miliardi10.
Gli effetti sull’economia statunitense sono notevoli. Oltre a indurre gli investitori privati a comprare titoli azionari, il crollo dei tassi d’interesse rende più accessibili i mutui sulle case, con conseguente apprezzamento delle proprietà immobiliari. Di qui un aumento netto, solo nel 2013, di 10 mila miliardi di dollari nel patrimonio delle famiglie americane, pari al 60% del pil11. Proprio la vivacità della domanda interna, unita alla rivoluzione degli idrocarburi da scisti, stimola la ripresa: negli ultimi 24 mesi il pil cresce mediamente quasi del 3% e la disoccupazione crolla dall’8 al 5,7%.
L’obbligato soccorso all’economia statunitense provoca la feroce reazione delle cancellerie internazionali. «Siamo in piena guerra monetaria»12, stabilisce nel 2010 il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega. «L’iniziativa della Fed non ha alcun senso»13, si lamenta nello stesso anno il suo collega tedesco Wolfgang Schäuble. Ancora più rilevanti le critiche avanzate da Pechino, il più importante creditore di Washington. «Il quantitative easing fa solo gli interessi degli Stati Uniti e ha un effetto deleterio sul resto del pianeta», dichiara nel 2010 il governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan14.
«Siamo obbligati ad acquistare debito americano perché non esiste al mondo un mercato tanto liquido e profondo», aggiunge con rassegnazione nel 2014 un anonimo funzionario dello stesso istituto15.
La condizione degli antagonisti di Washington è particolarmente dolorosa. Nazioni con un reddito pro capite assai basso sono costrette a finanziare, in cambio di interessi quasi nulli, il mantenimento del tenore di vita dei cittadini statunitensi. Se durante la presidenza Bush i cinesi si compiacevano d’aver sovvenzionato l’inutile guerra contro al-Qa‘ida, in questa fase avvertono distintamente il peso dell’influenza altrui.
Intrappolati in un processo a doppia velocità, per i paesi emergenti nel 2013 la situazione peggiora ulteriormente. Il 22 maggio l’annuncio della progressiva riduzione del Qe (in inglese tapering) rende nuovamente attraenti i titoli di Stato americani agli investitori privati. In meno di due mesi le Borse dei principali paesi in via di sviluppo perdono quasi mille miliardi di dollari, mentre crolla il valore delle valute locali. Il rand sudafricano si deprezza del 9%, il peso messicano del 6%, il real brasiliano del 5,8%, la rupia indiana del 5,6%, la lira turca del 4% 16.
Nel corso del 2013 si registrano imponenti manifestazioni di piazza contro il deterioramento delle condizioni economiche in Turchia (Gezi Parkı), in Brasile (Manifestações dos 20 centavos), in Indonesia (scioperi di settembre), in Sudafrica (Gauteng’s protests). Sebbene la fine dell’alleggerimento quantitativo fosse ritenuta inevitabile, i governi colpiti si scagliano nuovamente contro la «colpevole insularità americana». Il governatore della Banca centrale brasiliana, Alexandre Tombini, si rifiuta di incontrare Bernanke, mentre il suo omologo indiano, Raghuram Rajan, accusa l’America di scellerato egoismo. «I paesi industrializzati non possono disinteressarsi degli effetti delle loro azioni e abbandonare gli altri al proprio destino», protesta Delhi17. La Fed però rivendica il ruolo svolto a esclusivo servizio dell’interesse nazionale: «Non possiamo certo occuparci noi della volatilità delle economie emergenti»18, taglia corto il capo del distretto di St. Louis, James Bullard.
4. Il successo americano indispone il governo cinese, che ancorché immune agli effetti del tapering, nei mesi successivi prova a minare le certezze dell’avversario. Le opzioni a disposizione sono però esigue. Tra il 2013 e il 2014 Pechino riduce apparentemente la propria quota di debito statunitense, che passa da 1.316 a 1.252 miliardi. Il momento sembrerebbe propizio: la fine del Qe rende meno necessario un intervento teso a scongiurare il ribasso del dollaro. In realtà, secondo le autorità americane19, la Cina continua a incamerare treasury bonds celandosi dietro il governo belga, che nello stesso periodo arriva a possedere obbligazioni federali per l’irreale cifra di 350 miliardi di dollari, il 70% del pil nazionale.
Lo scoperto espediente palesa il dilemma che affligge l’Impero del Centro. Si tratta della cosiddetta «trappola della sterlina»: il rapporto d’interdipendenza tra due Stati rivali, nel quale il governo che possiede titoli o riserve altrui non può disfarsene se non disintegrando se stesso. Nel primo dopoguerra ne sperimentò i devastanti effetti la Francia della Terza Repubblica: per prevenire l’ulteriore apprezzamento del franco, corroborato dal surplus commerciale e dal rimpatrio di capitali, tra il 1926 e il 1931 la Banca di Francia incassò un’enorme quantità di sterline, valuta che all’epoca costituiva la metà delle riserve internazionali. Preoccupato dalla continua svalutazione della divisa britannica che erodeva il valore delle riserve e contrario a puntellare ulteriormente un avversario storico, nel 1928 il governatore della Banca centrale francese Émile Moreau ordinò la liquidazione del portfolio monetario. In tre anni Parigi convertì i pound in dollari, quindi passò all’oro. La decisione provocò un terremoto finanziario. La repentina vendita delle sterline sbriciolò le restanti riserve nazionali, conducendo la Banca di Francia a un passo dalla bancarotta e costringendo il governo Laval a intervenire per salvare l’istituto20.
Stessa sorte toccherebbe oggi alla Cina se provasse ad affrancarsi dal giogo statunitense con la medesima tecnica. Ne sono convinti gli analisti del Pentagono, che in un dossier del 2012 definiscono impraticabile una dismissione di titoli Usa da parte di Pechino21.
La Repubblica Popolare potrebbe conquistare un margine di manovra solo se riuscisse a tramutare lo yuan nella moneta di riserva globale, ma l’impresa appare perlomeno impervia. Anche se avallasse l’apprezzamento della divisa nazionale e accettasse un deficit dei conti con l’estero, il governo cinese manca di una Marina in grado di insidiare quella statunitense, nonché della stabilità e della trasparenza richieste dagli investitori stranieri. Il deficit istituzionale è tutto nelle recenti parole del presidente Xi Jinping, secondo il quale «in Cina a decidere è solo il Partito comunista»22.
Anche per questo l’Impero del Centro non riesce a competere nel mercato delle agenzie di rating, giudici apparentemente neutri che riflettono la credibilità del paese d’appartenenza e ne perseguono gli interessi geopolitici. Da parte americana, il trucco è consentire agli analisti finanziari di essere formalmente indipendenti, nella consapevolezza che la geografia e la propaganda governativa determineranno per inerzia i loro giudizi. Riservandosi poi il diritto di accusarli di lesa maestà se, come accaduto nel 2011 con la newyorkese Standard & Poor’s, hanno l’audacia di declassare il debito Usa perché giunto a 48 ore dal default tecnico. Al contrario, pagelle smaccatamente politiche impediscono alla Dagong Global, la più rilevante agenzia pechinese, di incidere sulle fortune di nazioni e soggetti privati. Caso significativo è il rating conferito dai cinesi al debito russo (A), che nonostante il crollo del rublo e la fuga di capitali è ritenuto più sicuro di quello americano (A-).
5. Deficienze altrui e prerogative proprie hanno dunque permesso agli Stati Uniti di mantenere il primato monetario e di riemergere dalla recessione in maniera incruenta. Semplicemente brandendo il biglietto verde hanno potuto smascherare gli equivoci degli antagonisti e agganciare la ripresa. Perfino l’esorbitante debito nazionale – negli ultimi anni schizzato oltre i 17 mila miliardi di dollari – ha smesso di essere una questione urgente. Anzi, data l’attrattiva delle obbligazioni federali e considerato il vincolo con la Cina, secondo alcuni calcoli del Tesoro crescendo del 2-3% l’anno l’America potrebbe non ripianare mai il disavanzo. Un assunto condiviso da Obama, che il 2 febbraio ha presentato una proposta di bilancio destinata nei prossimi dieci anni a gonfiare il debito di altri 6 mila miliardi.
Certo, le ataviche disfunzioni della politica statunitense e un incremento del pil più basso del previsto potrebbero incrinare il delicato equilibrio. Proprio la necessità, prevista per legge, che il Congresso autorizzi il governo a vendere titoli di Stato quando il debito raggiunge il tetto prefissato (caso unico al mondo, assieme alla Danimarca) spinge ciclicamente il paese a un passo dall’insolvenza. Così l’esplosione della bolla degli idrocarburi da scisti potrebbe provocare una nuova recessione. Tuttavia, la crisi iniziata nel 2008 ha danneggiato principalmente gli altri. L’Unione Europea, nella forma attuale, appare ormai insostenibile; il Giappone non riesce a rianimare la sua economia; la Cina, schiacciata dal debito statunitense, manca di profondità imperiale. Ne deriva che al momento l’egemonia del dollaro non può essere scalfita. Rivelatore è quanto sta accadendo intorno alla moneta elettronica Bitcoin . Priva come l’euro di uno Stato e tendente a fluttuare vertiginosamente sul mercato, la criptovaluta creata dal fittizio Satoshi Nakamoto è oggi impegnata in un’intensa campagna di lobbying nei confronti del simbolo del potere statunitense, il Congresso, affinché ne regolarizzi l’utilizzo. Ovvero: non riuscendo a imporsi unilateralmente, Bitcoin si rivolge all’autorità americana. Giacché di finanza si vive, ma senza sovranità si muore.
1. L’aforisma originale è: « When the tide goes out, you can see who’s been skinny dipping». Nell’occasione Buffett riprendeva la massima di John F. Kennedy: « A rising tide lifts all boats ».
2. L’espressione fu coniata con insofferenza nel 1964 da Valéry Giscard d’Estaing, allora ministro delle Finanze nel governo Pompidou.
3. Cfr. F. FUKUYAMA, «The History at the End of History», The Guardian, 3/4/2007.
4. Cfr. M. PHILLIPS, «$100 Bills Make up 80% of All U.S. Currency – but Why?», The Atlantic, 21/11/2012.
5. Cfr. Chairman Ben S. Bernanke’s Speech at the Federal Reserve Bank of Kansas City Economic Symposium , Jackson Hole, Wyoming, 27/8/2010.
6. «10-Year Treasury Constant Maturity Rate (2008-13)», U.S. Treasury Bulletin .
7. Cfr. S. PRASAD, The Dollar Trap: How the U.S. Dollar Tightened Its Grip on Global Finance, Princeton 2014, Princeton University Press.
8. Cfr . «Estimated Ownership of U.S. Treasury Securities (2009-13)», U.S. Treasury Bulletin .
9. Elaborazione dell’autore su dati (2008-13) del dipartimento del Tesoro statunitense.
10. Cfr. B. BARTLETT, «America’s Most Profitable Export Is Cash», The New York Times, 9/4/2013.
11. Cfr. M. FELDSTEIN, «The Eurozone Needs More than Qe», Project Syndicate, 28/1/2015.
12. Cfr. T. WEBB , «World Gripped by “International Currency War”», The Guardian , 27/9/2010.
13. Cfr. W. ALDEN, «Fed’s Quantitative Easing Draws International Criticism», The Huffington Post, 5/11/2010.
14. Citato in H. COLLINS, «China, Germany Criticize U.S. Quantitative Easing», Daily Finance, 5/11/2010.
15. Citato in M. ZENG, «China Plays a Big Role as U.S. Treasury Yields Fall», The Wall Street Journal, 16/7/2014.
16. Dati del Fondo monetario internazionale. Cfr. «The Fed and Emerging Markets: The End of the Affair», The Economist, 15/6/2013.
17. Citato in W. ALDEN , art. cit.
18. Cfr S. KENNEDY, J ZUMBRUN, J. KEARNA , «Fed Officials Rebuff Coordination Calls as Qe Taper Looms», Bloomberg. com , 26/8/2013.
19. Cfr. P. HILL , «Baffled by Belgium: Burst of U.S. Bond-Buying Raised Questions, Eyebrows», The Washington Times , 29/6/2014.
20. Cfr. O. ACCOMINOTTI , «The Sterling Trap: Foreign Reserves Management at the Bank of France, 1928-1936», European Review of Economic History , dicembre 2009.
21. Cfr. D. FABBRI, «La partita Usa-Cina si gioca nel Pacifico», Limes,«Usa contro Cina», n. 6/2012, pp. 133-138.
22. Citato in R. LU, «China’s President Raises Eyebrows with Sharp Rhetoric on Rule of Law», Foreign Policy, 3/2/2015.
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