venerdì 9 ottobre 2015

La libertà da cani e la città di sotto, http://www.dinamopress.it/



Aldilà della polemica sugli scontrini e dell'immagine del sindaco un po' ingenuo le dimissioni di Marino affondano le radici nella decadenza di Roma e nell'abbandono delle periferie. In una ingovernabilità che viene dal patto di stabilità e dall'austerity
Le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma, seppur condizionate dalla clausola dei venti giorni che ricorda più un tentativo estremo di patteggiamento che un punto di forza, pongono questioni che vanno ben oltre la rappresentazione semplicistica e istantanea che circola maggioritaria sui grandi media in questi giorni. Non si tratta né di indignarsi per 60 euro al giorno di pasti consumati, né di cascare nella rappresentazione del sindaco ingenuo-ma-onesto, fregato da non meglio specificati poteri forti.
Bisogna invece guardare le radici di questa situazione, dell'ingovernabilità di Roma e dello svuotamento delle sue istituzioni rappresentative. Il crollo di Marino, ma anche la sua assunzione quasi casuale a sindaco della Capitale, è l'ennesima dimostrazione che il potere politico è debole, asfittico, incapace di agire. Il governo di una città collassa senza l'appoggio dei poteri forti, in mancanza del sostegno dei media, in assenza del ruolo profondamente biopolitico dell'intermediazione sociale parassitaria svolta da Carminati&Buzzi. Prima che arrivassero il commissariamento di Renzi e quello di Gabrielli, il sindaco di Roma come tutti sindaci che accettino i dogmi del patto di stabilità era già una specie di curatore fallimentare, vana è stata l'illusione di chi pensava di ritagliarsi spazi di azione e influenza dentro le maglie d'acciaio del bilancio blindato.
Chi non ha la memoria del pesce rosso dovrebbe ricordare come Marino stava già in bilico per le bordate della sua maggioranza: ricordiamo un sondaggio commissionato ad arte e diffuso da esponenti del suo partito che lo dava in crisi di consensi, prima di Mafia Capitale, che ha avuto il paradossale effetto di rimetterlo momentaneamente in sella. Uomo solo al comando e circondato da signor sì, Marino ha provato a gestire la città come un manager della sanità privata, ordinando tagli e rifiutandosi di confrontarsi con la sua maggioranza, ma soprattutto con le istanze sociali che provenivano dalla città.
Ma dicevamo che i problemi vengono da lontano. Prima del cupio dissolvi della banda di Alemanno e del divenire sistema di Mafia Capitale, scelte ben precise hanno costruito l'ingovernabilità di Roma, la sua decadenza, l'abbandono delle periferie. Marino è al tempo stesso frutto e vittima del contesto ma paga anche colpe non sue. Fa i conti con le conseguenze nefaste del Piano regolatore di Veltroni che non ha voluto mettere in discussione e il perpetuare della dissennata scelta di accontentare gli appetiti della speculazione finanziario-cementizia. Non solo l’avventura americana dello Stadio, ma anche , un caso tra i tanti, le aree della ex Fiera di Roma. Bisogna andare a Ponte di Nona e alla Bufalotta, e non consultare il menu del Girarrosto Toscano, per capire come è caduta questa amministrazione. Si pensi all'idrovora della linea C della metropolitana, macchina mangia-soldi e scandalo degli scandali della Repubblica che ha portato alla costruzione di un'infrastruttura monca e del tutto al di sotto delle necessità. Per non parlare dell'inchiesta che ha scoperchiato un sistema di stampa di biglietti falsi dentro la stessa Atac, un affare colossale finito nel dimenticatoio. 
Marino ha dovuto gestire le privatizzazioni e la gestione aziendale dei servizi, si è messo nel solco della chiusura graduale di spazi di partecipazione. E poi l'attacco ai diritti e al salario dei lavoratori comunali, gli sgomberi dei migranti e degli spazi sociali, l'ideazione di bandi-monstre per la gestione del sociale funzionali alle multinazionale. Non ha capito, il sindaco uscente, che la sua amministrazione avrebbe potuto uscire dal cul de sac dell'austerità e della crisi politica ed economica soltanto mettendosi al servizio delle energie che la città la animano e la rendono ancora umana. Invece a vincere sono stati il dogma dell'austerità e quello della sicurezza e del cosiddetto “decoro”.
Quello che abbiamo è quello che ci siamo presi, nessuno ci ha regalato niente e proprio per questo, viene da pensare, non abbiamo davvero nulla da perdere. Ma osservando le bandiere in festa a piazza del Campidoglio, non abbiamo nessuna intenzione di affidarci al machiavellismo orientaleggiante e un po' troppo consolatorio del detto “non importa di che colore sia il gatto, l’importante è che mangi il topo”. Piuttosto, sappiamo per esperienza che ha ragione Ismail nel romanzo “Altai” dei Wu Ming: “Se voi desiderate prendere una lepre, che le diate la caccia con i cani o col falco, a piedi o a cavallo, resterà sempre una lepre. La libertà, invece, non rimane mai la stessa, cambia a seconda della caccia. E se addestrate dei cani a catturarla per voi, è facile che vi riportino una libertà da cani”. Come abbiamo visto in questi anni, un cambiamento che si produce dall'alto, e che coinvolge più spettatori e tifosi che forze sociali, rischia di chiudere ulteriori spazi invece di aprirli. Con questa consapevolezza, e con la consapevolezza delle forze e dei limiti della città di sotto, ci apprestiamo a vivere la nuova fase che ci attende.

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