Caro Slavoj,
La
tua introduzione ai testi filosofi co-politici di Mao pubblicata da Verso
è, come sempre, di grande interesse. Per cominciare direi, come è mia
abitudine e di contro alla tua reputazione – frutto di una falsificazione
del tutto francese – di uomo di spettacolo e di buffone del concetto
(hanno detto altrettanto del nostro maestro Lacan, sentiamoci
rassicurati!) che questa tua introduzione è leale, profonda e
coraggiosa. È leale perché, lungi da ogni finzione e da ogni traballante
retorica, esprime con esattezza il tuo rapporto ambivalente con la fi
gura di Mao. Riconosci la novità e l’ampiezza della sua visione, ma la
giudichi falsa e pericolosa da numerosi punti di vista. È profonda
perché tagli corto, vai dritto a una questione cruciale e difficile,
quella del pensiero dialettico contemporaneo nei suoi legami con la
politica. Le tue considerazioni sulla negazione della negazione sono
notevoli. Senza alcun dubbio, tu fai luce per la prima volta sulla
ragione profonda del rifiuto di questa “legge” dialettica, avanzato da
Stalin e da Mao, sapendo che attraverso tale rifiuto essi hanno frainteso
il vero senso hegeliano: ogni negazione immanente è, nella sua essenza,
negazione della negazione che essa è. Infine, il tuo è un testo
coraggioso perché, come spesso fai, qui ti esponi alle critiche
provenienti da ambo le parti. I discendenti controrivoluzionari dei
nostri “nuovi filosofi ” grideranno, come già fanno, che tu e Badiou siete
una coppia di partigiani attempati, e comunque pericolosi, di un
comunismo sepolcrale.
Che altro senso potrebbe mai avere, per
questi cani da guardia della nuova generazione, anche solamente parlare
di Mao? Ma i seguaci di ciò che, a seguito del maggio ’68, in Europa fu
chiamato “il maoismo”, e di cui senza ombra di dubbio io sono, oggi, uno
dei rari rappresentanti noti, avranno comunque qualche rimprovero da
farti. Tu sei avvezzo, così, a “lottare su due fronti”, il che del resto
fu una parola d’ordine fondamentale della Rivoluzione Culturale:
lottare contro la borghesia classica, il cui epicentro è l’imperialismo
americano, ma anche contro la nuova borghesia burocratica, il cui
epicentro allora era l’Unione Sovietica. A proposito dell’esistenza di
questa nuova borghesia in Cina, Mao diceva: “La gente si chiede dov’è da
noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista”. Di questa
frase si può davvero dire che è profetica, visto che cosa hanno fatto
della Cina le riforme di Deng Xiaoping. Si può anche dire che illustra fi
no a che punto Mao sia il creatore di una politica della negazione
della negazione, a discapito delle sue stesse osservazioni e dei
commenti giusti che tu proponi di esse. Infatti, è al cuore stesso del
Partito, direzione riconosciuta del processo di distruzione del vecchio
mondo, che si annida la nuova negazione di questo stesso processo.
Negazione che oggi è condivisa: “borghesia”, e molto di più ancora
“nuova borghesia”, sono vocaboli banditi da tutti i discorsi politici
ufficiali, della maggioranza o dell’opposizione. Qui siamo giunti a un
punto di metodo essenziale e su cui, credo, non c’è tra di noi alcun
contrasto sui principi. Trattandosi di fi gure come Robespierre,
Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij,
Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha,
Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide) è di
estrema importanza non lasciare nulla al contesto di criminalizzazione e
di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di
chiuderli e annullarli. Possiamo e dobbiamo discutere tra noi (il “noi”
di coloro per cui il capitalismo e le sue forme politiche sono un
orrore, e per cui l’emancipazione egalitaria è la sola massima che abbia
un valore universale) sull’uso che facciamo, o che non facciamo, di
queste fi gure. La discussione può essere vivace, anche vederci
antagonisti, ma avviene “tra noi” e la sua regola si oppone
assolutamente a ogni collusione con le grida degli avversari. Dobbiamo
tener conto anche della verifica dei fatti e del rigore storico. Oggi,
qualunque libro su Mao di provenienza ufficiale o presunta “neutra”,
qualunque “biografia” sensazionale sono un chiaro atto di propaganda,
uniformemente menzognero, perfido e privo di ogni interesse. Tu citi il
libro di Jung Chang e Jon Halliday, tipico prodotto di quel genere. Lo
stesso Bush, famoso per non leggere nulla, dice di aver letto avidamente
una biografia di Mao e di aver appreso, con grande e patetica sorpresa,
che Mao aveva ucciso personalmente settanta milioni di persone, il che
indubbiamente fa di lui il più grande serial killer della storia… Mi
sembra che, andando a vedere nel dettaglio, tu non sia sempre del tutto
slegato dall’immagine insieme folcloristica e ripugnante che il nostro
caro Occidente, effettivamente appoggiato, se non addirittura manipolato
dallo Stato cinese (in mano, ricordiamolo, ai revanscisti della
Rivoluzione Culturale, diventati signori corrotti dell’accumulazione
capitalista), intende fornire dell’ultimo grande rivoluzionario marxista
della storia mondiale. Da una parte, ti allontani troppo dal contesto,
estremamente delicato e teso, della politica mondiale dell’epoca. Per
esempio, non si può parlare del famoso scambio “cibo per armamenti”, che
avrebbe affamato la Cina degli anni cinquanta a vantaggio dell’URSS,
senza ricordare che, dagli anni cinquanta in poi, l’esercito cinese è in
guerra frontale contro gli Americani, in Corea, e che, in seguito,
servirà da retroguardia ai Vietnamiti durante vent’anni di guerra per la
liberazione del Paese. Non si può non ricordare le esperienze di
produzione di massa e di industrializzazione delle campagne, compreso il
“Grande Balzo in avanti”, senza evocare la rottura, latente e poi
esplicita, con il “padrino” sovietico, rottura che era una necessità
politica, un obbligo rivoluzionario incontestabile, ma che esponeva la
Cina a pericoli enormi. Le ritorsioni economiche del padrino furono
infatti di una brutalità inaudita e costrinsero i comunisti cinesi a
prendere in considerazione un’autarchia prolungata, nello stesso
frangente in cui dovevano prepararsi alla guerra. Tentare a ogni costo
di sviluppare la produzione “contando sulle proprie forze” (principio
cruciale del maoismo) era, per un paese isolato e provocato
simultaneamente da due superpotenze, una questione di sopravvivenza.
D’altro canto, credo che alcuni aspetti “culturali” dello stile di Mao
ti divertano, che ti affascinino anche (come è il caso della sua visione
“cosmologica”, a mio avviso un semplice catalogo di metafore), mentre
altre ti rimangono estranee. Per esempio, tu non sempre percepisci lo
humor cinese “alla contadina”, caratteristico di numerosi interventi di
Mao (compreso quando gioca con il numero di morti, ricorda che “le teste
della gente non ricrescono come cipolle”, etc.). C’è poi il fatto che
il tuo stesso senso dell’humor si vuole uno humor nero venuto dall’Est e
che, conoscendo a fondo gli arcani del regime stalinista, tu ne
proietti troppo in fretta i macabri parametri sull’universo della Cina
comunista, in realtà molto diverso. Debbo forse ricordarti che, ad
eccezione, certo, di Liu Shaochi e probabilmente anche di Lin Piao,
nessuno dei nemici giurati di Mao ai vertici del Partito ha mai perso la
vita, anche nel pieno delle violenze della Rivoluzione Culturale? E che
addirittura quasi tutti, a partire dalla metà degli anni settanta,
hanno riacquistato i loro posti e i loro poteri? Den Xiaoping,
stigmatizzato, denunciato e ovunque oggetto di caricatura sotto il
vocabolo infamante – e del tutto esatto, come ha dimostrato il futuro –
di “secondo dei più alti responsabili che, benché del Partito, sono
impegnati nella causa capitalista”, al termine dell’impresa è diventato
il nuovo signore del Paese. Che differenza rispetto a Stalin,
ossessionato dalla volontà di sterminare la “vecchia guardia”
bolscevica! Già solo questo distingue radicalmente la Rivoluzione
Culturale dalle purghe sovietiche degli anni trenta, contrariamente alle
tue affermazioni. Ma l’essenziale non è questo. In primo luogo, vorrei
farti capire che tu non definisci con sufficiente rigore i punti sui quali
si può fondare l’ipotesi di un’universalità di Mao. Universalità senza
cui né la pubblicazione di testi, né i nostri commenti, i miei come i
tuoi, avrebbero il minimo interesse. In verità, un corollario del
radicale principio di precauzione che dobbiamo avanzare riguardo al fl
usso incessante della propaganda controrivoluzionaria è quello di non
abbandonare mai il campo problematico della politica di emancipazione,
detta anche politica comunista: campo all’interno del quale noi
leggiamo, apprezziamo o critichiamo l’opera di Mao. Dunque, come sempre
quando si tratta di quel che io chiamo le “procedure di verità”, questo
campo si costruisce a partire da problemi. Occuparsi di problemi,
proporre soluzioni teoriche e pratiche, commettere errori, rettificarli,
trasmettere alcuni principi, alcuni problemi risolti e altri nuovi
problemi senza una soluzione conosciuta a coloro che Mao, angosciato da
tale questione, chiamava “gli eredi della causa del proletariato”: ecco
dove sta l’interesse, per noi, dell’opera dei dirigenti rivoluzionari
del passato. Non c’è altro argomento di cui dobbiamo parlare. La prima
domanda, dunque, è necessariamente questa: che problemi abbiamo oggi in
comune con Mao? In che cosa la lettura dei suoi testi è altro rispetto a
un esercizio nostalgico o puramente critico? Per quale motivo – come,
diciamo, certe memorie di Poincaré concernenti la teoria dei sistemi
dinamici sono ancora fonte d’ispirazione per i matematici – i testi di
Mao possono fungere da riferimento nella ricerca di un nuovo corso della
politica di emancipazione? Per entrare efficacemente in merito, bisogna
fissare tra il 1925 e il 1955 il punto di partenza della visione
staliniana – anzi, la sua egemonia – nell’intero movimento comunista
internazionale. Si tenga presente che quest’egemonia si fonda su di un
evento senza precedenti: la prima rivoluzione popolare che riporti una
vittoria, nell’ottobre del 1917 in Russia. Inoltre, ci si ricordi
costantemente che tale vittoria, rivincita delle insurrezioni operaie
schiacciate, durante tutto il XIX secolo e specie in Francia, è
universalmente attribuita alla nuova disciplina politica incarnata da un
Partito di tipo leninista. In maniera tale che l’intera sequenza, anche
tra i trotzkisti antistalinisti, si definisce e si modula sulla base
della questione del Partito di classe, del Partito proletario, o
dell’organizzazione operaia, che dir si voglia. Più in breve, possiamo
affermare: l’universalità di Mao, se esiste, si regge su soluzioni nuove
e/o sull’individuazione di problemi nuovi relativi al leninismo, dunque
relativi al legame tra processo politico e Partito. Certamente, gli
evidenti aspetti innovatori del pensiero di Mao sono numerosi, e tu li
citi quasi tutti: l’importanza della classe contadina, di contro alla
sua svalutazione in nome del feticismo operaista; la guerra popolare
prolungata, mezzo cui necessariamente si ricorre laddove la puntuale
insurrezione urbana è impraticabile; l’eccezionale importanza accordata
all’ideologia e alla soggettività politica; la teoria della “nuova
borghesia”, interna al Partito comunista; il ricorso al movimento di
massa, anche spontaneo, piuttosto che alla polizia politica e alle
purghe statali per lottare contro di essa; la distinzione tra i diversi
tipi di contraddizione e la loro mobilità immanente, ecc. Ma nulla di
tutto ciò potrebbe costituire una verità politica isolatamente, se cioè
tutti questi motivi non si connettessero al problema centrale del
Partito, concepito da Stalin come l’unica fonte e l’unico attore del
processo chiamato “edificazione del socialismo”. Non collegare i tratti
particolari del maoismo a questo problema, che in un certo senso è il
problema rivoluzionario del periodo, conduce a un empirismo difensivo,
che concede troppo agli avversari di ogni rivoluzione egualitaria.
Effettivamente, in Mao, all’interno di uno stalinismo apparente del
tutto classico (“senza il suo Partito comunista il popolo non ha
niente”) molto presto vengono a distinguersi alcune singolari reticenze,
verso tutto ciò che accorderebbe al Partito il monopolio della
direzione del processo politico popolare. In Logiques des Mondes
ho analizzato molto da vicino questo punto, come appare nel giovane
Mao, il Mao degli inizi della guerra popolare del 1927 sui monti
Xinjiang. Agli occhi di Mao il “Potere rosso” si compone di diversi
elementi, e nel suo contesto le assemblee popolari sono importanti tanto
quanto il Partito. D’altronde, la questione dell’esercito è centrale, a
quell’epoca. Dunque, se è vero che “il Partito comanda i fucili”, è
vero anche che – e la formula equilibra quella di Stalin – “senza
l’esercito popolare, il popolo non ha niente”. Anzi: questa forza viene
definita come “l’organizzazione armata incaricata di realizzare gli
obiettivi politici della rivoluzione”, il che intacca già fortemente il
monopolio del Partito riguardo i suddetti obiettivi. Nel corso della
Rivoluzione Culturale, quarant’anni più tardi, si vedranno ancora i
“comitati rivoluzionari” e l’Armata rossa attentare all’onnipotenza del
Partito nei rapporti tra movimenti di massa e Stato. Anche il pensiero
dialettico di Mao è al servizio di una relativizzazione dei poteri del
Partito. Il suo motto, infatti, non è “non ci può essere comunismo senza
Partito comunista”, bensì “per avere il comunismo, serve un movimento
comunista”. In tal modo il Partito, organo della direzione dello Stato e
dell’edificazione del socialismo, può ricavare la propria legittimità
unicamente da un’esposizione totale e possibile alla negazione che su di
esso esercita l’azione di rivolta delle masse insorte. La celebre
formula “ribellarsi contro i reazionari è giusto” significa apertamente:
“abbiamo ragione di insorgere contro la forma ossificata della negazione
che costituisce la burocrazia dello Stato-partito”. È in questo contesto
che giustizia va resa alla carica di universalità insita nel terribile
fallimento della Rivoluzione Culturale. Ricordiamo in proposito che il
fallimento sanguinoso di un’impresa non rappresenta il suo giudizio
ultimo. Anche qui, tu ricorri troppo facilmente al fallimento della
Rivoluzione Culturale per cancellarne l’importanza e l’attualità
(ricordiamoci che Mao sosteneva che sarebbero servite altre dieci o
venti rivoluzioni culturali per spingere la società verso il comunismo).
Tutti sanno che il pensiero di Lenin si radica nella valutazione che
egli fa della Comune di Parigi, seppure liquidata da un massacro senza
precedenti degli operai rivoltati. Marx prima di lui aveva formulato il
problema politico che la Comune poneva: dato che la capacità politica
operaia può arrivare a impossessarsi del potere politico dello Stato (a
Parigi, i comunardi hanno esercitato questo potere per più di due mesi);
come far sì che la presa del potere sia estesa nello spazio, in prima
istanza, e continua nel tempo, in seconda istanza? La sua risposta,
provvisoria, ancora troppo generica, era che non ci si poteva
accontentare di impadronirsi del potere di Stato tale e quale: si doveva
distruggere la macchina dello Stato borghese. Lenin, sotto forma di un
Partito centralizzato dotato di una “disciplina ferrea”, ha forgiato la
vera soluzione storica al problema lasciato in eredità dalla Comune. Ha
creato lo strumento, politico ma calcato sul modello militare, della
“distruzione” come la voleva Marx, e della sua sostituzione con uno
Stato di tipo nuovo, che eserciti un dispotismo popolare senza
precedenti nella storia: lo Stato di dittatura del proletariato, in
effetti, uno Stato fuso al Partito insurrezionale, che militarizza
profondamente l’intera società. Il terrorismo di Stalin è una modalità
degli utilizzi post-insurrezionali di uno strumento legato all’esito
vittorioso dell’insurrezione. La sua radice sta nel fatto che ogni
problema politico interno viene trattato come fosse un problema di tipo
militare, il quale implica quindi la distruzione fi sica degli avversari,
o dei presunti tali. Ora possiamo descrivere il problema che tentano di
risolvere Mao e quei militanti che, a milioni, fanno valere il suo nome
in Cina e nel resto del mondo tra il 1966 e il 1976. La Rivoluzione
Culturale è stata descritta da Mao come “la forma finalmente trovata
della dittatura del proletariato”. Che cosa vuol dire? Per Mao, anche se
la posizione ufficiale dei comunisti cinesi, contro Kruscëv e i suoi
successori, sembra voler dire il contrario, il bilancio di Stalin è in
realtà ampiamente negativo. Perché? Perché, ci dice Mao, Stalin si
concentra sui quadri, mai sulle masse. Per Stalin, si sa, “quando la
linea è fissata, i quadri decidono di tutto”. Per Mao, “le masse,
soltanto le masse sono gli eroi della storia universale e noi spesso
siamo ridicolmente ingenui”. Dunque, occorre imperativamente trovare il
modo in cui il processo politico che conduce al comunismo – e dunque la
“dittatura del proletariato” che lo denomina nella forma dello Stato –
ritrovi le proprie fonti e gli attori fondamentali, come già avvenuto
nel 1927, nelle masse popolari insorte, e non nei funzionari del
Partito. Le forze disponibili per sostenere questa prova di forza sono
in primis la gioventù scolarizzata (mobilitata negli anni sessanta, e in
tutto il mondo); la frazione più giovane e più politicizzata degli
operai; certi distaccamenti dell’Armata rossa. A partire dal 1966, Mao e
i suoi più stretti collaboratori si rivolgeranno a queste forze,
gettando sì la Cina in un caos di dieci anni, ma mettendo in
circolazione idee, parole d’ordine, forme di organizzazione, schemi
teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza. Il
fallimento di questo arruolamento straordinario, la cui libertà –
riflessa nelle centinaia di organizzazioni nuove, nei giornali comparsi a
migliaia, nei manifesti giganti, nei meetings costanti, negli
innumerevoli scontri – desta ancora sorpresa, non è in nessun modo
dovuto alla natura del problema che cercava di risolvere. Almeno, non
più di quanto il fallimento della Comune di Parigi sia dovuto al fatto
che gli operai siano insorti, cosa naturale e necessaria, nelle
circostanze loro imposte. Il fallimento è dovuto al fatto che il
movimento non seppe dialetticizzarsi su scala nazionale, in forme di
organizzazione che avrebbero potuto realmente modificare lo schema dello
Stato-Partito, esattamente come durante la Comune l’assenza di
un’efficace direzione centralizzata (di un vero partito) generò la
divisione anarchica e l’impotenza. In Cina, una miriade di frazionamenti
ha smembrato l’azione collettiva. La forma più avanzata di
organizzazione locale, quella che, all’inizio del 1967, ha preso il nome
significativo di “Comune di Shangai”, non ha potuto diventare un
paradigma nazionale e ha finito per ripiegarsi su se stessa, dando via
libera ai revanscisti del Partito. Insomma, il problema era del tutto
reale (come animare il processo politico del comunisimo al di là
dell’azione dello Stato, nella via popolare stessa?). Il tentativo
comportava lezioni universali (serve la diretta alleanza della gioventù
intellettuale e degli operai; serve sperimentare nuove forme di
organizzazione, non partitiche; serve una metamorfosi dell’insegnamento;
serve rompere la divisione del lavoro; serve riorganizzare il potere in
fabbrica, secondo norme democratiche; serve legare in altra maniera le
città e le campagne; serve creare una nuova intellettualità popolare
etc.). Il fallimento impone la rinuncia defi nitiva al paradigma
militarizzato del Partito, l’apertura di una via a ciò che
l’Organizzazione politica chiama in Francia una “politica senza
partito”. Siamo tuttora a questo punto, e se ci siamo è perché la
Rivoluzione Culturale ci ha condotti qui.
Possiamo dire, allora,
senza timore: il bilancio della Rivoluzione Culturale, nella sequenza
della politica rivoluzionaria in corso, gioca il ruolo del bilancio
della Comune di Parigi nella sequenza leninista. La Rivoluzione
Culturale è la Comune dell’epoca dei Partiti comunisti e degli Stati
socialisti: fallimento terribile e lezioni essenziali. Terminerò
dicendoti che il legame diretto che tu credi di poter stabilire tra la
Rivoluzione Culturale e il furioso accumulo capitalista che oggi devasta
la Cina esiste solo come illusione. Si potrebbe anche dire che il
fallimento della Comune di Parigi generò direttamente un lungo periodo
di espansione imperiale in Francia, alla fine del XIX secolo: un
affarismo forsennato, nel contesto di un capitalismo aggressivo che,
infine, condurrà alla carneficina del ’14-ʼ18. Necessariamente! Quando un
tentativo grandioso, attuato dai rivoluzionari, di trattare un problema
politico attuale, fallisce, l’avversario si ritrova a tenere le redini
per un pezzo! Ma Mao e i suoi compagni non sono più responsabili della
Cina dei miliardari di Shangai e della corruzione mondializzata di
quanto Delescluze, Vallès, Louise Michel, Varlin o Blanqui siano
responsabili del colonialismo e della corruzione della “belle époque”.
La vera discendenza dei primi si incarna in Lenin, Rosa Luxemburg, e in
tutti gli altri rivoluzionari che hanno superato le aporie della Comune,
sempre però facendone un punto di partenza. La vera discendenza degli
altri si cerca, cammina, sperimenta, per trattare il problema ricevuto
in eredità dalla Rivoluzione Culturale, quello del processo politico
“senza partito”, formulando pensieri che partono dai punti universali
del tentativo che essa rappresenta. Credo che tu ed io facciamo parte di
questa discendenza. Ecco perché uno Zarka, fi rma del Figaro, non ha
torto quando ci accosta sotto il titolo esageratamente elogiativo di
“filosofi del Terrore”.
Con tutta la mia amicizia più viva, mio caro Slavoj.
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