sabato 10 ottobre 2015

Pietro Ingrao, un bilancio non facile di Italo Nobile




 
La morte di Pietro Ingrao ha suscitato, nei giorni scorsi, un ampio ed articolato dibattito tra i comunisti e nel variegato universo degli attivisti politici e sociali.

Sia il sito della Rete dei Comunisti e sia Contropiano.org non hanno fatto mancare elementi di discussione e punti di vista. Pubblichiamo ora un contributo del compagno Italo Nobile che inizia ad entrare nel merito di alcuni commenti registrati a caldo e traccia alcune considerazioni non esclusivamente di ordine storiografico ma utili, soprattutto, per il nostro agire collettivo organizzato.
La redazione del sito della Rete dei Comunisti
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Pietro Ingrao, un bilancio non facile
di Italo Nobile
La riflessione susseguente alla morte di Pietro Ingrao ha oscillato tra l’elogio interessato al poetico e inoffensivo oppositore interno alla maggioranza del Pci e lo sdegno nei confronti di chi non ha mai avuto il coraggio di rompere con una linea politica che alla fine si è rivelata storicamente perdente (non parliamo dei pettegolezzi relativi alle sue frequentazioni giovanili né del ruolo che ha avuto come Presidente della Camera nell’assistere alla legislazione penale di emergenza in quanto nella misura in cui queste cose abbiano rilevanza politica vanno spiegate all’interno dell’oscillazione di cui sopra). “L’eterno sconfitto”, “Voglio la luna” (si pensi all’articolo di Barenghi sulla Stampa quando ha compiuto cent’anni) sono espressioni che hanno circolato spesso sui mezzi di comunicazione per consolare le anime belle del continuo e mai finito congedo che la sinistra istituzionale italiana sta compiendo nei confronti di una tradizione politica che bene o male ha rappresentato un tentativo dignitoso di realizzare un progetto di trasformazione sociale. Noi dal canto nostro di questi poetici congedi non sappiamo che farcene. Anzi, abbiamo bisogno di essere netti ed impietosi, proprio per trarre da ogni esperienza e da ogni riflessione passata quello che può essere utile nella fase storica presente.
Ugualmente distanti dobbiamo essere dalle critiche sommarie che a prima vista sembrano giuste (si veda il breve articolo di Marino Badiale dove uno dei commenti incoraggiato dallo scritto recitava “Un Civati ante litteram” finendo per evidenziare non volendo la banalità dell’articolo stesso da cui prendeva spunto), ma che pure esse ci consolano solo della povertà schematica con cui analizziamo la realtà. Dobbiamo cioè essere netti ed impietosi, ma al tempo stesso dobbiamo avere il senso delle proporzioni, la capacità di comprensione storica e dunque l’intelligenza di trarre dalle esperienze passate tutto il possibile materiale di riflessione, tutti gli spunti che ci aiutino ad affinare le nostre categorie e ad applicarle alla realtà.
Bene ha fatto dunque Sergio Cararo quando dice “Il giudizio negativo su Ingrao lo abbiamo maturato proprio mentre nel Pci degli anni ottanta si manifestava quella mutazione genetica rispetto alla quale Ingrao non seppe andare oltre il ruolo di una figura consolatoria”.
Bene ha fatto Michele Franco a dire che “Per Ingrao, come per molti suoi allievi, il comunismo - la lotta per il comunismo - è sempre stata non “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti” (con tutto il complesso delle complicate transizioni vissute ad Est dopo l’Ottobre, nella Cina maoista o nei paesi che si liberavano in armi dal colonialismo), ma una sorta di “orizzonte e di allusione” a cui bisognava occhieggiare, o magari simboleggiare, nelle dinamiche del conflitto”.
Pure condivisibile l’analisi di Marco Zerbino (su “Popoff”) quando dice che “La storia di Pietro Ingrao non può essere separata da quella di un’opzione e di una cultura politiche precise, quelle del “togliattismo di sinistra”, ovvero del tentativo di individuare una “terza via” (nessuna connessione con Lord Giddens) fra lo stalinismo e la completa e definitiva torsione in senso socialdemocratico e “parlamentare” del Pci (caldeggiata all’interno di quest’ultimo dalla destra di Giorgio Amendola). Fu questo, grosso modo, l’orizzonte non solo di Ingrao e della sinistra comunista che a lui faceva riferimento, ma anche del gruppo politico-intellettuale a lui più strettamente legato, quello creatosi attorno alla rivista il manifesto epoi espulso dal Pci (col voto favorevole dello stesso Ingrao) nel 1969”.
Volendo continuare in questa analisi, Ingrao è figlio della rottura coincidente con la Seconda Guerra Mondiale e con gli assetti nazionali ed internazionali a questa conseguenti. All’interno della tradizione marxista si sancisce definitivamente la fine della riflessione sulla crisi del capitalismo e sulla risposta imperialistica a questa crisi (la quale continua, priva di riferimenti strategici, più nel marxismo americano che non nei rituali articoli di rivista dei partiti comunisti occidentali). Ad Est lo stalinismo e la sua crisi pongono il problema di una distanza progressivamente crescente dall’esperienza sovietica. Ad Ovest le politiche keynesiane (più di guerra che di pace), il Welfare che le precede e che ne consegue, la guerra fredda (con lo spettro sovietico a dare forza al riformismo socialdemocratico) creano una sorta di bolla all’interno della quale si sviluppa in maniera forse inedita un capitalismo maturo, frutto di un compromesso tra classi in conflitto il cui intreccio ha bisogno, per essere analizzato e affrontato, di un paradigma della complessità. Il comunismo italiano ha la riflessione gramsciana (ben gestita dal togliattismo) che lo aiuta in questa operazione.
Al Marx maturo critico dell’economia politica si sostituisce il Marx giovane, critico della filosofia (si pensi alle operazioni culturali di Antonio Banfi, di Enzo Paci o in Europa di Ernst Bloch, di Roger Garaudy e della scuola di Francoforte). Ingrao trova la sua nicchia ecologica in questa sospensione storica e di qui opera facendo da tramite tra il Partito e il fermento culturale di quegli anni: la cultura pacifista, l’operaismo, la questione ecologica, quella femminile sono continuamente metabolizzati e tradotti nella sua riflessione decennale e portati nel Partito come elementi di critica e di interlocuzione. Il problema però è che la tradizione marxista precedente viene considerata un fondamento indiscutibile ma proprio per questo non discusso, non rielaborato. Si comincia a consumare una rottura culturale che adesso si è dispiegata come vero e proprio oblio e che ha lasciato i partiti che si richiamano al comunismo quasi del tutto privi di strumenti analitici.
Nel frattempo i momenti di rottura, che pur si consumano in quella fase di equilibrio storico, mettono in difficoltà la cultura ingraiana che, scontando un problema nel rapporto tra teoria e prassi, ha bisogno dell’ovatta del grande partito per fermentare. Qui si spiega il suo distacco dallo strappo del Gruppo del Manifesto, strappo che renderebbe necessario ricostituire le basi materiali di una nuova formazione politica e dunque distoglierebbe dalla paziente coltivazione in serra dei cento fiori di un nuovo socialismo,
Ovviamente la storia solo apparentemente si congela: la fine di Bretton Woods, la stagflazione successiva alla crisi energetica, la stagnazione e il crollo dell’Urss finiscono per sgonfiare la bolla e per semplificare (con segno di classe avverso) quella complessità a cui Ingrao pazientemente si voleva dedicare. A fine anni Settanta Ingrao analizza con il suo bisturi l’intreccio tra Stato e società, ne mostra i punti di tensione e di caduta. Comincia a pensare ad una riforma dello Stato che permetta di gestire questo rapporto in forme progressive e che trasformi l’anomalia e il ritardo italiano in un esempio di Terza Via.
Su questo però ha ragione Michele Franco quando dice “Ingrao…non ha tenuto conto che – al di là della vivacità delle istanze di lotta che si esprimevano in quegli anni – la forma stato e l’intera impalcatura della società, dentro i processi di crisi strutturale che segnano il modo di produzione capitalistico, andavano e vanno ancora oggi, a passo di carica, verso una feroce verticalizzazione autoritaria che svuota e depotenzia ogni impossibile “processo di riforma dello stato in senso progressista”.
Il gorbaciovismo per un attimo rappresenta forse tutto quello che l’ingraismo aspirava ad essere. Si tratta però di una bolla ancora più effimera che consegna l’Ottobre dalla riforma possibile alla catastrofe senza paracadute. La crisi dell’ingraismo si consuma quando, di fronte al mutare dello scenario, il dubbio ingraiano si trasforma in indecisione e il suo linguaggio assume la forma patologica del gergo. E questa forma patologica è purtroppo quello che dell’ingraismo maggiormente è circolato in questi ultimi anni. Gli epigoni di Ingrao ormai sono assimilabili ai peggiori generatori di frasi in cerca di nicchie più prosaicamente istituzionali (altro discorso è l’esito, anch’esso moderato, della cultura operaista e postoperaista italiana che meriterebbe un’analisi a parte).
I terribili tempi che avanzano ci portano alla consapevolezza che la riappropriazione della cassetta marxista degli strumenti non è più rinviabile: la teoria del valore, della crisi e dell’imperialismo devono essere oggetto di discussione e di attualizzazione. Non potendo dare tutto per ovvio e scontato (si pensi a come le giovani generazioni di compagni spesso si trastullino con il mito di Stalin o di Trotzky invece di dare ad essi quei limiti e al tempo stesso la determinazione storica che meritano), non possiamo nemmeno esimerci dal dovere di studiare e di ripartire da tali analisi.
Tuttavia la semplificazione del quadro che ha smontato il tentativo ingraiano non è così univoca come possiamo pensare.
La complessità rimane a livello mondiale per quanto riveda le sue strutture e le sue dinamiche, il quadro sociale è notevolmente mutato in questi decenni; i desideri, le coscienze, le forme di comunicazione sono continuamente riplasmati dalle innovazioni tecnologiche, l’intreccio tra società ed istituzione si ripropone magari nella forme più perverse. Se i vecchi strumenti vanno rimessi in gioco, i nuovi non vanno abbandonati. Il bisturi del dubbio ingraiano va introiettato, pur senza farci paralizzare. Il suo amore per la complessità va rimodulato nella capacità di ristrutturare la nave in mare aperto. Forse non possiamo più volere la luna. Ma dobbiamo progettare l’allunaggio.

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