Una Nota diffusa
dal Centro studi di Confindustria (CsC) denuncia che i salari reali
italiani sono cresciuti, dal 2000 fino al 2014, più della produttività
del lavoro (28% contro un misero 10,9%), con l’ovvia conseguenza di
spostare quote di reddito a favore della componente lavoro (che include i
contributi sociali) e a scapito dei profitti, con effetti negativi su
investimenti e competitività internazionale. Il presidente Squinzi chiede che sia dato più spazio alla contrattazione aziendale per legare le retribuzioni alla produttività.
La ricetta che egli propone non è nuova, ed è fondata sul pregiudizio
che lo spaventoso arretramento nella capacità di produrre reddito che il
nostro paese subisce da un ventennio, sia dovuto all’eccessivo costo
del lavoro e alla scarsa flessibilità del mercato del lavoro, ostacolata
dai sindacati.
Questa tesi, se si guarda alla storia economica (recente) del nostro
paese, non è corroborata dai dati. I quali suggeriscono piuttosto che
negli anni in cui la forza lavoro era maggiormente sindacalizzata (anni
’70-’80) e il mercato del lavoro più rigido[1],
la produttività del lavoro (segnatamente nella manifattura, settore in
cui è più facile misurarla) cresceva più che in Francia, Germania, Stati
Uniti [2]. Uno dei più grandi economisti italiani contemporanei, Paolo Sylos Labini (Torniamo ai classici, Laterza, 2004, pp. 47 – 51), spiegava questo fenomeno attraverso il cosiddetto “Effetto Ricardo”:
sindacati forti portano ad un aumento del costo del lavoro ( e una
certa rigidità nei licenziamenti), che incentiva le imprese a sostituire
lavoro con macchinari, che incorporano il progresso tecnologico e
spingono all’insù la produttività del lavoro. Al contrario,
sindacati indeboliti, proliferazione di contratti atipici, rimozione dei
vincoli giuridici al licenziamento e afflussi di manodopera immigrata
sottopagata rallentano l’accumulazione di capitale innovativo e frenano
gli incrementi di produttività, come è accaduto in Italia nel corso
degli anni Duemila.
Non è tutto. Per gli economisti mainstream che informano l’opinione pubblica, Il
declino della produttività del lavoro italiana va addebitata ai
seguenti fattori, tutti riguardanti il lato dell’”offerta”: individui inoccupabili
e scansafatiche, bassa spesa in R&S, burocrazia elefantiaca,
tassazione asfissiante, corruzione, giustizia civile lumaca, scarsa
cultura imprenditoriale, etc). Al contrario, un importante filone della
letteratura economica – la tradizione classico-keynesiana, che va da
Adam Smith a Nicholas Kaldor e Paolo Sylos Labini – ci ha mostrato che è
la crescita del volume della produzione, che a sua volta dipende dalla
domanda aggregata, che stimola gli aumenti dell’output per ora lavorata. In questa visione, la produttività del lavoro italiana è stagnante perché è insufficiente la domanda aggregata.
E qui torniamo ai rilievi mossi da Confindustria: se le imprese non
fanno margini, come fanno ad investire? Senza profitti, non possono
ripartire gli investimenti, dice la saggezza convenzionale. Ma i profitti, in un’ottica macroeconomia, dipendono anch’essi dalla domanda aggregata
(Kalecki,1954): interna (deficit pubblico, consumi e investimenti dei
capitalisti) ed estera (esportazioni nette). In Italia, dagli anni
Novanta, si è deciso di aggredire lo stock di debito pubblico a colpi di avanzi primari
(complessivamente, circa 700 miliardi tra maggiori entrate e minori
spese, al netto degli interessi), che hanno sottratto domanda interna
all’economia, con il risultato di deprimere le spese delle famiglie e
quindi gli investimenti delle imprese. In più, l’adesione acritica e
frettolosa all’Unione monetaria europea ha fatto perdere quote di
mercato alle imprese italiane, spostando il baricentro dell’Europa industriale nelle regioni centro-orientali: ne hanno risentito le esportazioni nette.
Il ragionamento finora condotto ci porta a conclusioni affatto
diverse rispetto a quelle di Confindustria: se si vuole incrementare la
produttività del lavoro (e i profitti delle imprese) deve mutare in modo profondo il quadro macroeconomico.
Una redistribuzione del reddito favorevole alle fasce di reddito
medio-basse, un piano di investimenti pubblici finanziati in deficit
(sfruttando i bassi tassi d’interesse, regalo del Quantitative Easing di
Draghi), la costruzione di un sistema monetario europeo ispirato ai
principi cooperativi e anti laissez-faire del Piano Keynes di Bretton Woods sono passaggi non più rinviabili.
Federico Stoppa
Note:
[1] All’inizio
degli anni Ottanta, gli iscritti al sindacato erano pari, in Italia, al
49,6% del totale degli occupati contro il 34, 9% della Germania (Bohlto, 2011, p.33).
Fino a metà degli anni Novanta, l’indicatore Ocse che misura la
rigidità nella protezione legislativa del posto di lavoro registrava
valori più elevati in Italia rispetto a Francia e Germania; ora le
posizioni si sono invertite (Hassan e Ottaviano, 2011, fig.4)
[2] Hassan e Ottaviano, 2011, fig. 2
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