sabato 24 ottobre 2015

Una legge di stabilità senza crescita di Alfonso Gianni

Un impatto pari allo 0,3%. Que­sta sarebbe la forza espan­siva che il Cen­tro Studi di Con­fin­du­stria rico­no­sce alla legge di sta­bi­lità pre­sen­tata con ritardo dal governo Renzi. Dato e non con­cesso che la stima sia atten­di­bile, non è dav­vero un granché.
Tanto più che in Europa vi è grande ecci­ta­zione dopo l’annuncio di Dra­ghi che dichiara la Bce pronta a un nuovo Quan­ti­ta­tive Easing e addi­rit­tura ad una ridu­zione del tasso già nega­tivo dei depo­siti delle ban­che presso la Banca cen­trale euro­pea. Il tutto dovrebbe essere deciso nella riu­nione di dicem­bre, ma l’euforia è già scat­tata. Le Borse volano, spread sotto i 100, l’euro sci­vola in pochi minuti a 1,12 nei con­fronti del dollaro.
Illu­sioni, poi­ché gli effetti di una poli­tica mone­ta­ria espan­siva di per sé rica­dono essen­zial­mente sui mer­cati finan­ziari, men­tre l’economia reale resta debo­lis­sima. Anche negli Usa dove pure il Pil cre­sce con ben altri ritmi. Nello stesso tempo il Qe spinge i capi­tali verso i mer­cati azio­nari, con con­se­guente dila­ta­zione ulte­riore delle dise­gua­glianze sociali in ter­mini di red­dito. Ma tutto que­sto alle élite euro­pee poco importa. Conta per loro aggrap­parsi a Dra­ghi, novello Wolfe come nel cele­bre film di Taran­tino, che non aspetta, ma lavora e risolve i problemi.
La legge di sta­bi­lità di Renzi si con­ferma così stru­mento di con­senso elet­to­rale e insieme di for­ma­zione di un blocco di potere. Ma tra i post alti­so­nanti e il testo finale qual­cosa si è per­duto per strada.
I punti gioco ven­gono ridotti a 15mila rispetto ai 22mila ini­ziali. La Tasi viene rein­tro­dotta su ville e castelli, non­ché sulle abi­ta­zioni signo­rili se si tratta di prima casa. Ma i pos­ses­sori dei 74mila immo­bili citati godranno comun­que di uno sconto non da poco: quasi mille euro in media, in virtù della ridu­zione della ali­quota mas­sima. Non si sa ancora in quante tran­che verrà pagato il canone Rai, ma resta la misura di accor­parlo alle bol­lette elettriche.
Curiosa misura anti­e­va­siva per un governo che invece ha ele­vato il con­tante da mille a tre­mila euro e che minac­cia di difen­dere la misura pro-evasione a colpi di voti di fiducia.
Ma il piatto forte delle ultime ore è stato lo scon­tro sulla sanità. Il fondo per il Ser­vi­zio sani­ta­rio nazio­nale (Ssn) verrà incre­men­tato di un miliardo di euro invece che di tre. Ma non si sa se quell’aumento com­pren­derà i nuovi Lea (livelli essen­ziali di assi­stenza) o no; se è già com­preso l’aumento con­trat­tuale per il per­so­nale medico o meno; che ne sarà dei far­maci inno­va­tivi. Incer­tezze non da poco, per­ché quel miliardo potrebbe risul­tare del tutto insuf­fi­ciente. In que­sto caso le Regioni dovreb­bero aumen­tare i tic­ket, già robu­sti e salati.
Prov­ve­di­mento quanto mai impo­po­lare, che aumen­te­rebbe la rinun­cia alla cura e alle pre­sta­zioni del ser­vi­zio sani­ta­rio pub­blico da parte di ampi strati della popo­la­zione dotati di minore red­dito, come già met­tono in rilievo diverse inda­gini e ricerche.
Ne è nato uno scon­tro tra il Governo e le Regioni, che si è mate­ria­liz­zato nelle dimis­sioni, irre­vo­ca­bili, ma per ora con­ge­late, di Ser­gio Chiam­pa­rino, il “gover­na­tore dei gover­na­tori”, ovvero il pre­si­dente della Con­fe­renza Stato-Regioni. I rap­porti si erano già ina­ci­diti a seguito delle dichia­ra­zioni della mini­stra della sanità Loren­zin, sulle pre­va­lenti respon­sa­bi­lità delle Regioni nella mala­sa­nità e quindi sul fal­li­mento del federalismo.
Ipo­cri­sia a palate, come si vede. Da un lato il governo si fa vanto della revi­sione della Costi­tu­zione che dote­rebbe il paese di un Senato delle auto­no­mie. Dall’altro, alla prima occa­sione, svela la vera natura accen­tra­trice e neo­cen­tra­li­stica di quella scia­gu­rata con­tro­ri­forma – che ci augu­riamo di can­cel­lare nel refe­ren­dum dell’anno pros­simo – riba­dendo la subor­di­na­zione delle Regioni. Il tutto men­tre la spesa sani­ta­ria ita­liana rimane a un livello infe­riore rispetto a molti paesi della Ue, mal­grado que­sta mano­vra finan­zia­ria. La stessa Corte dei Conti ha rico­no­sciuto al Ssn di avere con­tri­buito non poco al risa­na­mento dei conti pubblici.
Non è una novità. Suc­cede così da anni con il sistema pen­sio­ni­stico dei lavo­ra­tori dipen­denti. Ovvero i prin­ci­pali isti­tuti del wel­fare state sono finan­zia­tori dello Stato, più che essere finan­ziati dal mede­simo o quanto meno pro­ta­go­ni­sti di una ridu­zione del suo defi­cit. Poi­ché il ricamo della spen­ding review si è rive­lata un fal­li­mento e anche Perotti, il terzo della serie, è pro­cinto di get­tare la spu­gna, Renzi usa la scure.
Dimi­nu­zione di spesa sociale e dimi­nu­zione delle tasse per i ceti più abbienti sono dun­que le reali colonne della cosid­detta mano­vra espan­siva di Renzi. La rac­co­man­da­zione della Com­mis­sione euro­pea a pro­po­sito della neces­sità di dimi­nuire la pres­sione fiscale sulle imprese e sul lavoro può creare qual­che fri­zione, ma può essere aggi­rata dal fatto che comun­que agli impren­di­tori il governo ha già dato non poco con gli incen­tivi del Jobs Act. Renzi ha par­lato di un’opposizione a pre­scin­dere, rife­ren­dosi alla mino­ranza dem. Al con­tra­rio qui c’è un over­dose di mate­riale su cui opporsi e con­tro cui costruire un’alternativa. La stessa sini­stra dem dovrebbe trarne le debite con­se­guenze, anzi­ché acco­darsi al voto.

Nessun commento: