Governo. Non basta l’appoggio dei «poteri forti» per
capire come può l’attuale premier fare a pezzi la democrazia. Le
dinamiche di potere coinvolgono anche gli alleati nelle amministrative e
pezzi di società civile
Dinanzi all’enormità di quanto sta accadendo occorre essere
esigenti sul terreno analitico. Com’è possibile che tutto questo
avvenga? Chi ne è responsabile?
Certo, Renzi è oggi l’incontrastato protagonista della scena
politica italiana. Chi si è a lungo baloccato col mantra del
politico «senza visione» riconsideri le decisioni assunte in questi
venti mesi di governo.La buona scuola e il Jobs Act; le
privatizzazioni e i tagli alla spesa sociale; il forsennato
attacco al sindacato; il combinato tra Italicum e devastazione
iper-presidenzialista della Costituzione; l’occupazione militare dei
vertici Rai; lo scempio sistematico dei regolamenti
parlamentari; lo sdoganamento di politici pluri-inquisiti.
Tutto questo non sarà «visione», sarà semplice istinto, ma di certo
non è difficile leggervi una traiettoria lineare di stampo
autoritario e thatcheriano.
Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cerchio magico dei Lotti
e dei Delrio non potrebbe imporre al Paese il proprio disegno. Un
discorso serio chiede a questo punto un’analisi attenta delle filiere
di connivenza e di complicità che gli permettono di dilagare
consolidando il proprio potere e trasformando pezzo dopo pezzo il
sistema politico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo
ferire: senza conflitti, senza resistenza né sostanziale
opposizione su qualsivoglia terreno.
Per un verso questo discorso guarda in alto, ai mandanti interni
e internazionali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria
privata, ai ricchi e ai grandi investitori, agli alti gradi della
dirigenza pubblica. È gradito alle corporazioni professionali,
ai corpi chiusi dello Stato, al possente esercito degli evasori
fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle centrali del potere europeo
e atlantico, di cui non mette mai in discussione, se non a parole,
interessi e scelte.
Ma nemmeno tutto questo basta. Il renzismo non è una dittatura,
ricatti e intimidazioni non tolgono che le istituzioni
funzionino ancora in base alla relativa autonomia di ogni singola
articolazione dello Stato e della società civile. E la stessa
grancassa mediatica senza la quale il regime imploderebbe non
obbedisce ai dettami di un’occhiuta censura governativa. Insomma,
i poteri alti suggeriscono e proteggono, ma neanche il loro
appoggio da solo basterebbe a garantire al capo del governo le
condizioni necessarie all’efficacia e alla continuità di un’azione
a suo modo «rivoluzionaria», nel senso della sovversione
dell’ordinamento democratico e costituzionale.
Dove guardare allora? Il suggerimento è quello di riprendere in
mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine
alla vita, un po’ il suo testamento spirituale. Ne «I sommersi e i
salvati» i Lager sono considerati un laboratorio per l’analisi
delle dinamiche di potere, un microcosmo in qualche modo
corrispondente all’intera società tedesca. Ciò che colpiva Levi era
il fatto che persino lì, nell’istituzione paradigmatica della
violenza brutale e della negazione dell’umano, il potere
funzionasse anche grazie al supporto di una parte delle sue stesse
vittime. Che persino lì dove la ferocia del potere militare
trionfava, l’ordine era garantito anche dall’obbedienza, la quale
implicava a sua volta una qualche forma di consenso, di connivenza,
di complicità.
In quel microcosmo «intricato e stratificato» si ripeteva «la
storia incresciosa e inquietante dei gerarchetti che servono un
regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che
firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma
acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro
peggiore di me”». In poche pagine Levi stilizza un’analisi delle
motivazioni (corruzione, viltà, doppiezza, calcolo
opportunistico) che inducevano la «classe ibrida» degli oppressi
a collaborare con l’oppressore. In questo senso (e soltanto in
questo) la «zona grigia» dei kapos e delle Squadre speciali del
Lager corrispondeva a quella assai più vasta dei cittadini
tedeschi (ed europei) che – senza l’attenuante dell’immediata
minaccia della vita – sostennero il regime nazista, approfittarono
dei privilegi che ne traevano e variamente cooperarono con
i suoi crimini.
Lo schema è generale e le differenze, molto profonde, non
ingannino. A giudizio di Levi il modello del Lager serve
a individuare ingredienti costanti delle dinamiche di potere. Serve
a capire come il potere operi anche in una società comandata da uno
Stato totalitario. E serve a maggior ragione a comprendere come
esso funzioni in un Paese democratico, dove la relazione politica
è caratterizzata da un tasso di violenza incomparabilmente
minore. Se ottenere consenso era necessario persino nel Lager,
è evidente che senza consenso non si potrebbe governare una società
come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco
della violenza e dove quindi è assai più complicato preservare le
gerarchie costituite e i rapporti di forza.
Allora, per tornare a Renzi, dovremmo smetterla di farne la nuova
incarnazione del demonio assolvendo in blocco chi gli permette di
distruggere in allegria. Se a Renzi riesce di devastare il Paese,
è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione. I suoi
compagni di partito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo
luogo, nonché quanti si ostinano nonostante tutto a votarlo. Gli
alleati del suo Pd in seconda battuta, nelle amministrazioni e nelle
varie sedi del sottogoverno. E poi i diversi segmenti della società
civile – pezzi del sindacato e del mondo cooperativo;
dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che
brillano per concorde silenzio come se, via Berlusconi, qualsiasi
problema di democrazia e di giustizia sociale fosse per incanto
risolto. È vero, ogni chiamata di correo è sgradevole, tanto più se
indiscriminata. Ma la furbesca collaborazione col potere da
parte dei subordinati e persino degli oppressi è addirittura
scandalosa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di
nulla non ha proprio alcun senso.
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