mercoledì 28 ottobre 2015

La «barca» italiana non va, ripresa lenta, crescita nulla di Pierluigi Ciocca, Il Manifsto

I problemi economici del nostro paese sono antichi e strutturali. Aggravati da un ciclo europeo segnato dalla politica tedesca avallata dalla Bce. Produttività, occupazione, investimenti, competitività: tutta l’attività economica nell’ultimo decennio è precipitata in un abisso. Purtroppo, le scelte del governo Renzi non invertono la rotta ma anzi seguono le stesse ricette di Monti e Letta
 
L’economia ita­liana pati­sce da diversi lustri due mali con­giunti: domanda glo­bale ane­mica, stallo della produttività. La bassa domanda glo­bale frena la ripresa, la fuo­ru­scita dalla reces­sione. L’improduttività delle imprese nega la cre­scita, il trend di svi­luppo dell’economia. Ripresa e cre­scita ven­gono nei media spesso con­fuse. Sono invece da distin­guere, pur nelle reci­pro­che connessioni.
Dopo quella del 2008–2009, la nuova reces­sione inau­gu­rata dal rigo­ri­smo del governo Monti alla fine del 2011 ha fal­ciato il Pil del 5% nel 2012–2014: come nel 1929!
Tec­ni­ca­mente, la reces­sione può dirsi finita nel primo seme­stre 2015, con risul­tati di pro­du­zione appena posi­tivi dopo tre anni. Ma la ripresa è lenta. L’incremento del Pil pre­vi­sto dal Fondo Mone­ta­rio è dello 0,8% per il 2015, dell’1,3% per il 2016. La ripresa è lenta rispetto all’abisso in cui è piom­bata l’attività eco­no­mica: alla fine del 2014 gli inve­sti­menti erano del 35% più bassi che nel 2007.
Oltre che lenta la ripresa è espo­sta a più di un motivo di fra­gi­lità. È stata finora ali­men­tata soprat­tutto da scorte la com­po­nente più insta­bile della domanda. Non sarà age­vo­lata da ulte­riori cali del costo del danaro, del cam­bio dell’euro, del prezzo del petro­lio. Il quan­ti­ta­tive easing della Bce non sti­mola la domanda, nell’assenza di una poli­tica fiscale euro­pea espan­siva. Con lo svi­li­mento dell’euro che per­se­gue rischia di ecci­tare sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive su scala mon­diale (la rea­zione della Cina docet).
La ripresa è fre­nata dal rischio di defla­zione che la Bce non rie­sce a sven­tare, dopo esser­sela lasciata sfug­gire allor­ché fra luglio 2012 e set­tem­bre 2014 la base mone­ta­ria dimi­nuì di un terzo. Vi è un «rischio Volk­swa­gen», con riflessi euro­pei e ita­liani. Infine, la ripresa non è soste­nuta come si potrebbe dalla poli­tica di bilan­cio del governo.
La cre­scita di lungo periodo nel capi­ta­li­smo moderno dipende fino al 70% dal pro­gresso tec­nico. Senza pro­dut­ti­vità, non c’è svi­luppo soste­nuto e sostenibile.
Preoccupano tre ordini di considerazioni concernenti l’economia italiana.
Il pro­gresso tec­nico è da tempo spento. La pro­dut­ti­vità totale è dimi­nuita del 6–7% rispetto ai primi anni 2000. Nella stessa mani­fat­tura il pro­dotto per ora lavo­rata ha rista­gnato. È per que­sto – e non per eccessi sala­riali — che dal 2000 il costo del lavoro per unità mani­fat­tu­riera pro­dotta è salito del 40%, rispetto al 15% in Fran­cia e allo 0% in Germania.
Sem­pre nella mani­fat­tura, il livello della pro­dut­ti­vità del lavoro ita­liano è infe­riore del 25% a quello tede­sco e a quello inglese.
Sus­si­diata dal governo, l’occupazione rischia di aumen­tare più della pro­du­zione. Nel primo seme­stre è salita dello 0,8% rispetto allo stesso seme­stre del 2014, il Pil solo dello 0,4%. Ciò abbatte la pro­dut­ti­vità e il pro­gresso di trend dell’economia.
La poli­tica eco­no­mica gover­na­tiva è ina­de­guata sia per la domanda/ripresa sia per la produttività/crescita. Su entrambi i fronti l’elemento chiave è rap­pre­sen­tato dagli inve­sti­menti pub­blici (infra­strut­ture, sicu­rezza dei cit­ta­dini e del ter­ri­to­rio, ricerca, scuola). Essi impri­mono la più forte spinta alla domanda.
In fasi di rista­gno, oltre il primo anno il loro mol­ti­pli­ca­tore della domanda glo­bale può salire da 1,5 a 2 e nel medio ter­mine fino a 3. È molto mag­giore del mol­ti­pli­ca­tore – solo 0,8 — di con­sumi pub­blici, tra­sfe­ri­menti, detassazione.
Anche l’apporto, diretto e indi­retto, delle infra­strut­ture alla pro­dut­ti­vità del sistema può essere cospi­cuo. È quindi deplo­re­vole che da anni in Ita­lia non siano state nep­pure manu­te­nute le infra­strut­ture esi­stenti, per qua­lità del 40% infe­riori a quelle degli altri paesi del G7.
I governi Berlusconi-Tremonti ave­vano effet­tuato inve­sti­menti della PA media­mente pari al 3% del Pil, già al disotto del 3,5% che era stato toc­cato in pre­ce­denza. I governi Monti, Letta, Renzi hanno tagliato gli inve­sti­menti pub­blici dal 2,8% del Pil nel 2011 al 2,2% nel 2014 e a una per­cen­tuale forse infe­riore al 2% quest’anno. Que­sti ultimi tre governi hanno abbat­tuto le opere pub­bli­che a prezzi cor­renti del 20%: da 45 miliardi nel 2011 a 36 miliardi nel 2014. Se non lo aves­sero fatto, il Pil, cete­ris pari­bus, sarebbe oggi di quasi 30 miliardi più alto e il defi­cit di bilan­cio e il debito pub­blico più bassi.
Non è espan­sivo della domanda con­te­nere uscite cor­renti – a mag­gior ragione inve­sti­menti! — impie­gando quei danari per tra­sfe­ri­menti e per ridurre le tasse, sulla casa o su qua­lun­que altro cespite: il de-moltiplicatore di quelle minore uscite e il mol­ti­pli­ca­tore dei mag­giori tra­sfe­ri­menti e delle minori impo­ste sono simili, dell’ordine dello 0,8 appena richia­mato. L’effetto netto è quindi pres­so­ché nullo.
La riforma dei rap­porti di lavoro può essere varia­mente valu­tata nei suoi aspetti giu­ri­dici e sociali. Ma ha riper­cus­sioni di segno incerto, comun­que non quan­ti­fi­ca­bili, su ripresa e crescita.
I sus­sidi alle imprese affin­ché assu­mano per­so­nale sono inef­fi­caci o con­tro­pro­du­centi in assenza di posi­tive pro­spet­tive di domanda. Se accre­scono l’occupazione, ma a parità di pro­du­zione, le imprese, con più lavoro e lo stesso capi­tale, abbat­tono ulte­rior­mente la pro­dut­ti­vità nell’immediato, ovvero ridu­cono gli inve­sti­menti e lo stock di capi­tale così fre­nando la domanda glo­bale e la pro­dut­ti­vità di medio periodo.
Non cono­scendo nel det­ta­glio la legge di sta­bi­lità che si sta defi­nendo, occorre chie­dersi se Governo e Par­la­mento inten­dano, o meno, fare quat­tro cose cruciali.
La prima: com­ple­tare il rie­qui­li­brio del bilan­cio con una final­mente rigo­rosa spen­ding review aprendo al tempo stesso lo spa­zio agli inve­sti­menti pub­blici più ido­nei a soste­nere la domanda e a favo­rire la pro­dut­ti­vità (si pos­sono rispar­miare 20–30 miliardi negli appalti e for­ni­ture e nei tra­sfe­ri­menti a imprese ed enti, le cui cifre sono gon­fiate anche dalla corruzione).
La seconda: riscri­vere secondo una visione d’assieme un diritto dell’economia (socie­ta­rio, fal­li­men­tare, pro­ces­suale, ammi­ni­stra­tivo, del rispar­mio, della con­cor­renza) che deprime – per punti per­cen­tuali — la produttività.
La terza: imporre – non solo con l’antitrust — la con­cor­renza dina­mica, senza la quale le imprese non sono sti­mo­late a per­se­guire l’efficienza.
Va infine cor­retta una distri­bu­zione del red­dito osce­na­mente spe­re­quata, inci­dendo sui più ric­chi eva­sori fiscali per vol­gere il get­tito recu­pe­rato a lenire le povertà e a ridurre le ali­quote su lavo­ra­tori, pen­sio­nati, aziende che non evadono.
Ma anche la migliore poli­tica eco­no­mica fal­lirà se le imprese ita­liane doves­sero nell’insieme non rispon­dere, per­si­stendo nell’attesa neghit­tosa di un ritorno a pro­fitti facili.
Nel 1992–2006, men­tre la pro­dut­ti­vità sce­mava, furono rea­liz­zati pro­fitti record. Lo furono gra­zie alla spesa pub­blica a piog­gia, all’evasione ed elu­sione fiscale, alla caduta del cam­bio, all’indebolirsi del sin­da­cato, al calo della con­cor­renza. I pro­fitti facili hanno allon­ta­nato per vent’anni le imprese dalla via mae­stra dell’investimento, della ricerca, dell’innovazione.
L’unica cer­tezza, pur­troppo suf­fra­gata dall’esperienza, è che le imprese non vanno accon­ten­tate quando, invece di aumen­tare la pro­dut­ti­vità, chie­dono danari pub­blici, pri­vi­legi, cam­bio sva­lu­tato, bassi salari.
I pro­blemi ita­liani sono anti­chi, strut­tu­rali, quindi prin­ci­pal­mente interni.
Tut­ta­via per la ripresa conta il qua­dro ciclico euro­peo. Il tono com­ples­sivo dell’Eurozona è dato dalla Ger­ma­nia. La Ger­ma­nia rifugge da una poli­tica di bilan­cio che sostenga la pro­pria domanda effet­tiva. L’economia tede­sca paga a que­sto orien­ta­mento di fondo prezzi alti, che chi governa sce­glie di far gra­vare sulla società civile, la quale evi­den­te­mente accetta di sopportarli.
La Ger­ma­nia sacri­fica a que­sta sua poli­tica di bilan­cio punti di red­dito nazio­nale; cede all’estero attra­verso l’avanzo com­mer­ciale – 8,5% del Pil! — risorse reali altri­menti impie­ga­bili all’interno; espone i pro­pri con­fini alla pres­sione degli immi­grati. Que­sti cer­cano in Ger­ma­nia, dove la disoc­cu­pa­zione è strut­tu­ral­mente bassa, il lavoro che non tro­vano in Ita­lia, Spa­gna, Fran­cia, Gre­cia, le eco­no­mie Medi­ter­ra­nee fre­nate anche dal fermo della «loco­mo­tiva» tedesca.
Si deve esclu­dere che il governo, la classe diri­gente, gli eco­no­mi­sti di Ber­lino igno­rino que­sti costi eco­no­mici per la società tede­sca. Quindi la fina­lità per­se­guita non può che essere metae­co­no­mica. Di poli­tica estera?
Più che la memo­ria dell’iperinflazione di Wei­mar pesa sui tede­schi il ricordo della Ger­ma­nia asser­vita per­ché debi­trice dopo i due con­flitti mon­diali? Può la Can­cel­liera pen­sare che per la nazione tede­sca essere cre­di­trice signi­fi­chi supre­ma­zia poli­tica sul resto d’Europa?
Sarebbe dav­vero grave, al di là degli aspetti stret­ta­mente eco­no­mici, se in Europa l’economia fosse subor­di­nata alle fina­lità di poli­tica estera di un solo paese…

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