Il decreto "CrescItalia" privatizza le municipalizzate. In passato ciò
ha portato solo corruzione, peggioramento dei servizi e aumento delle
tariffe. Come per l’acqua pubblica è necessario mobilitarsi - anche
attraverso un nuovo referendum abrogativo - per difendere i nostri
“beni pubblici”.
di Antonio Musella
I professori del governo Monti c'hanno detto che dobbiamo rimettere in moto l'economia per uscire dalla crisi. I profeti della tecnocrazia all'italiana, quella con i poteri forti direttamente all'interno dei dicasteri strategici del governo nazionale, quelli che hanno costruito lo stato d'eccezione entro al quale si muove la governamentalità italica, ci dicono che per la ripresa dell'economia servono le liberalizzazioni. In base a questo assunto nasce il decreto CrescItalia, insieme di norme che incidono in maniera strutturale rispetto al governo del “pubblico” su temi e servizi assolutamente centrali. Mentre alcuni titoli del decreto interessano le corporazioni e gli ordini, l'attenzione che vogliamo qui riportare è sul Capo V quello che riguarda la “promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”. L'articolo 26 del decreto CrescItalia apre ad uno stravolgimento strutturale rispetto alla gestione e l'erogazione dei servizi pubblici locali. I trasporti (su ferro, su gomma e via mare), la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, la gestione dei parcheggi, ed in generale tutti quei servizi che vengono gestiti dalle cosiddette aziende municipalizzate.
Occorre ricordare che la quasi totalità di queste aziende sono comunque delle strutture che rispondono al diritto privato. Dalle riforme di Treu, Bersani e Bassanini in poi, quindi dall'epoca del primo governo Prodi, i servizi pubblici locali sono gestiti dalle s.p.a che possono essere a capitale interamente pubblico oppure con la partecipazione dei privati, annoverandosi in questo modo nella categoria delle “partecipate”. La maggior parte di queste aziende nell'ultimo decennio sono state attraversate dai peggiori processi speculativi e di costruzione delle clientele politiche. Non è un caso che i principali scandali legati alla corruzione abbiano avuto come teatro di svolgimento proprio le aziende partecipate. E' il caso dell'ATAC e dell'AMA romane, con tutti gli amici di Alemanno ed i “corsari neri” neofascisti accasati nei consigli d'amministrazione e nei posti dirigenziali. Ma non solo, basta pensare alle vicende che in passato hanno attraversato l'ASIA (azienda di raccolta dei rifiuti) a Napoli, con il meccanismo dei subappalti ai privati, oppure altri casi, spesso poco noti come la Te.Am di Teramo in Abruzzo, i casi di corruzione nella pubblica amministrazione a Parma, di Torino con la vicenda AMIAT, solo per citare alcuni esempi
Proprio le cosiddette “partecipate” sono diventate in questi anni il nodo principale della corruzione in Italia. Sia come luogo di clientele, sia per quello che riguarda la gestione dei subappalti. In tutti i casi ciò che è stato penalizzato da quel processo messo in piedi dai governi di centro sinistra è stata la qualità del servizio pubblico offerto ai cittadini e le tariffe delle utenze.
Questa premessa è necessaria per inquadrare come l'articolo 26 del decreto CrescItalia interviene in maniera strutturale proprio sul tema dei servizi. In tempi in cui la definizione di bene comune viene spesso abusata ed è senza dubbio soggetto di una sperequazione in termini teorici e spesso di una speculazione in termini politici, appare necessario sottolineare che proprio i servizi pubblici come beni materiali ed immateriali possano annoverarsi in maniera corretta nel campo dei beni comuni.
Secondo il decreto l'erogazione dei servizi pubblici deve essere messa a gara entro il 2012 prevedendo anche dei limiti alla partecipazione societarie per gli enti locali. Si prevede anche la possibilità di un’unica gara per l'affidamento simultaneo per tutti i servizi pubblici. In pratica in una unica soluzione tutta la sfera dei servizi pubblici potrebbe essere svenduta alle multiutility in un solo giorno.
Alle imprese che si aggiudicano il servizio è richiesto, sempre dall'articolo 26, di presentare un piano delle economie. Tradotto e specificato significa che le imprese che partecipano alla gara per la gestione dei servizi pubblici devono presentare un piano per “l'efficientamento del personale”. In pratica esuberi, mobilità e licenziamenti.
Per i trasporti regionali su ferro è prevista una proroga di sei anni, al termine dei quali anche questo servizio dovrà essere messo a gara d'appalto.
Il solo modo per rinviare (ma di poco) l'appuntamento con la privatizzazione dei servizi pubblici locali, è quello di costituire delle società in house entro il 31.12.2012 che si propongano come gestori di quel tipo specifico di servizio per il bacino territoriale o ambito territoriale ottimale di competenza. In pratica un’azienda di trasporti a 100% di controllo pubblico può mantenere il servizio solo se si propone a gestirlo nell'intero bacino di utenza, magari l'intera provincia. Bisognerà verificare quanti e quali aziende e quanti e quali Comuni saranno in grado di far valere questa norma. La svendita, come detto, è solo rimandata al 2015. L'articolo 26 infatti ci dice che la gestione del servizio per l'intero bacino per società in house che si propongano come gestori del servizio nell'intero bacino può valere per soli 3 anni, trascorsi i quali il servizio dovrà essere messo a gara.
Siamo di fronte ad uno stravolgimento strutturale dei servizi pubblici. Un passaggio di una gravità enorme che non può passare sotto silenzio. A seguito della privatizzazione dobbiamo essere consapevoli che non potrà più esserci nessun controllo pubblico sulla qualità del servizio, sulle condizioni di lavoro degli operatori, soprattutto non ci sarà nessun controllo pubblico sul costo delle tariffe. In questo modo anche l'articolarsi di percorsi di conflitto rispetto ai servizi pubblici si scontrerà con l'annullamento della funzione di indirizzo delle istituzioni.
Difendere i servizi pubblici oggi può e deve essere terreno di investimento dei movimenti in difesa dei beni comuni.
Innanzitutto bisogna rompere con la stagione delle s.p.a e delle società partecipate. I Comuni devono riacquistare le quote vendute ai privati nelle aziende che gestiscono i servizi. Il ruolo delle multiutility infatti prima ancora che a seguito della privatizzazione dei servizi viene agito già ora in termini speculativi con la partecipazione fino al 49% nelle aziende municipalizzate. Ci sono dei casi limite che godono anche di santificazione da parte di partiti politici come il Pd. E' il caso del ruolo di Hera in Emilia Romagna, multiutility che già controlla un pezzo importantissimo dei servizi pubblici nella regione di Errani e Bersani. Per questo bisogna lanciare una campagna per la trasformazione delle aziende partecipate, che sono delle s.p.a, in aziende pubbliche speciali come nel caso della trasformazione a Napoli della ARIN s.p.a in Acqua Bene Comune Napoli azienda speciale. Attraverso questo tipo trasformazione è possibile che la gestione dei servizi in house fino al 2015 possa servire per prendere tempo e preparare piani contro l'attuazione dell'articolo 26 del decreto CrescItalia. Ma fermare la norma del governo Monti non può che essere una battaglia popolare. Per questo l'ipotesi più plausibile resta quella del referendum abrogativo da presentare entro il 2015.
Per fare questo abbiamo però bisogno di lanciare da subito una campagna di lotta in tutto il paese. Già nei contenuti del referendum contro la privatizzazione dell'acqua vinto nel giugno 2011 esisteva l'esplicito riferimento all'intera sfera dei servizi pubblici. Il ritiro della norma del decreto CrescItalia che annullava l'esito referendario sull'acqua ha messo dunque al riparo solo la gestione del servizio idrico integrato.
Tanti sono gli articoli del CrescItalia che dovrebbero essere oggetto di approfondimento e di mobilitazione sociale. Ad esempio l'articolo 25 sullo smantellamento delle centrali nucleari che stabilisce la costruzione del Deposito Nazionale dei rifiuti nucleari e definisce le pratiche per la costruzione di questo mandandole in deroga alle normative vigenti fatta salva la Valutazione d'Impatto Ambientale.
Oppure l'articolo 44 che prevede l'ingresso dei privati in project financing nella costruzione delle carceri, unica risposta che il governo Monti sembra dare alle condizioni disumane in cui si vive nelle patrie galere. Ed ancora l'articolo 55 che dà la possibilità ai comuni di emettere obbligazioni per la costruzione di opere pubbliche dando in garanzia ai possessori dei titoli beni del patrimonio immobiliare di pari valore dell'opera. In caso di ritardi ci sarà una svendita a costo zero del patrimonio immobiliare dei comuni che verrà così sottratto alla pubblica utilità per finire nelle mani dei grandi speculatori.
In materia di sviluppo, fuori per quello che ci riguarda da ogni ipotesi tardosviluppista ed infarcita dal paradigma della crescita fordista, sarebbe interessante ragionare invece sulla proposta che Luciano Gallino ha lanciato su Repubblica, poi ripresa sul sito di MicroMega.
Un piano per le piccole opere che lo Stato potrebbe mettere in atto qualificandosi come datore di lavoro di ultima istanza. Un piano per affrontare temi seri che poco hanno a che fare con le speculazioni ed invece molto hanno a che fare con la difesa dei beni comuni: il riassetto idrogeologico del territorio, la ristrutturazione delle scuole e quella degli ospedali. Un piano da attuare attraverso un'Agenzia per l'occupazione trovando le risorse nella fiscalità generale attraverso una patrimoniale di scopo ed una quota degli ammortizzatori sociali sostituendo la cassa integrazione straordinaria con un lavoro vero pagato decentemente. Una proposta, quella di Gallino, che si coniuga bene anche con un’idea di riconversione ecologica complessiva delle attività produttive del nostro paese e che pone l'accento intorno alla difesa dei beni comuni, non come feticcio da agitare ma come piano d'azione concreto su cui mettere a valore il portato delle lotte sociali.
Proposte lontane dalle grandi opere che distruggono i territori come la Tav, che invece il governo dei professori vuole intendere come unico modo, insieme alle privatizzazioni, per uscire dalla crisi.
di Antonio Musella
I professori del governo Monti c'hanno detto che dobbiamo rimettere in moto l'economia per uscire dalla crisi. I profeti della tecnocrazia all'italiana, quella con i poteri forti direttamente all'interno dei dicasteri strategici del governo nazionale, quelli che hanno costruito lo stato d'eccezione entro al quale si muove la governamentalità italica, ci dicono che per la ripresa dell'economia servono le liberalizzazioni. In base a questo assunto nasce il decreto CrescItalia, insieme di norme che incidono in maniera strutturale rispetto al governo del “pubblico” su temi e servizi assolutamente centrali. Mentre alcuni titoli del decreto interessano le corporazioni e gli ordini, l'attenzione che vogliamo qui riportare è sul Capo V quello che riguarda la “promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali”. L'articolo 26 del decreto CrescItalia apre ad uno stravolgimento strutturale rispetto alla gestione e l'erogazione dei servizi pubblici locali. I trasporti (su ferro, su gomma e via mare), la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, la gestione dei parcheggi, ed in generale tutti quei servizi che vengono gestiti dalle cosiddette aziende municipalizzate.
Occorre ricordare che la quasi totalità di queste aziende sono comunque delle strutture che rispondono al diritto privato. Dalle riforme di Treu, Bersani e Bassanini in poi, quindi dall'epoca del primo governo Prodi, i servizi pubblici locali sono gestiti dalle s.p.a che possono essere a capitale interamente pubblico oppure con la partecipazione dei privati, annoverandosi in questo modo nella categoria delle “partecipate”. La maggior parte di queste aziende nell'ultimo decennio sono state attraversate dai peggiori processi speculativi e di costruzione delle clientele politiche. Non è un caso che i principali scandali legati alla corruzione abbiano avuto come teatro di svolgimento proprio le aziende partecipate. E' il caso dell'ATAC e dell'AMA romane, con tutti gli amici di Alemanno ed i “corsari neri” neofascisti accasati nei consigli d'amministrazione e nei posti dirigenziali. Ma non solo, basta pensare alle vicende che in passato hanno attraversato l'ASIA (azienda di raccolta dei rifiuti) a Napoli, con il meccanismo dei subappalti ai privati, oppure altri casi, spesso poco noti come la Te.Am di Teramo in Abruzzo, i casi di corruzione nella pubblica amministrazione a Parma, di Torino con la vicenda AMIAT, solo per citare alcuni esempi
Proprio le cosiddette “partecipate” sono diventate in questi anni il nodo principale della corruzione in Italia. Sia come luogo di clientele, sia per quello che riguarda la gestione dei subappalti. In tutti i casi ciò che è stato penalizzato da quel processo messo in piedi dai governi di centro sinistra è stata la qualità del servizio pubblico offerto ai cittadini e le tariffe delle utenze.
Questa premessa è necessaria per inquadrare come l'articolo 26 del decreto CrescItalia interviene in maniera strutturale proprio sul tema dei servizi. In tempi in cui la definizione di bene comune viene spesso abusata ed è senza dubbio soggetto di una sperequazione in termini teorici e spesso di una speculazione in termini politici, appare necessario sottolineare che proprio i servizi pubblici come beni materiali ed immateriali possano annoverarsi in maniera corretta nel campo dei beni comuni.
Secondo il decreto l'erogazione dei servizi pubblici deve essere messa a gara entro il 2012 prevedendo anche dei limiti alla partecipazione societarie per gli enti locali. Si prevede anche la possibilità di un’unica gara per l'affidamento simultaneo per tutti i servizi pubblici. In pratica in una unica soluzione tutta la sfera dei servizi pubblici potrebbe essere svenduta alle multiutility in un solo giorno.
Alle imprese che si aggiudicano il servizio è richiesto, sempre dall'articolo 26, di presentare un piano delle economie. Tradotto e specificato significa che le imprese che partecipano alla gara per la gestione dei servizi pubblici devono presentare un piano per “l'efficientamento del personale”. In pratica esuberi, mobilità e licenziamenti.
Per i trasporti regionali su ferro è prevista una proroga di sei anni, al termine dei quali anche questo servizio dovrà essere messo a gara d'appalto.
Il solo modo per rinviare (ma di poco) l'appuntamento con la privatizzazione dei servizi pubblici locali, è quello di costituire delle società in house entro il 31.12.2012 che si propongano come gestori di quel tipo specifico di servizio per il bacino territoriale o ambito territoriale ottimale di competenza. In pratica un’azienda di trasporti a 100% di controllo pubblico può mantenere il servizio solo se si propone a gestirlo nell'intero bacino di utenza, magari l'intera provincia. Bisognerà verificare quanti e quali aziende e quanti e quali Comuni saranno in grado di far valere questa norma. La svendita, come detto, è solo rimandata al 2015. L'articolo 26 infatti ci dice che la gestione del servizio per l'intero bacino per società in house che si propongano come gestori del servizio nell'intero bacino può valere per soli 3 anni, trascorsi i quali il servizio dovrà essere messo a gara.
Siamo di fronte ad uno stravolgimento strutturale dei servizi pubblici. Un passaggio di una gravità enorme che non può passare sotto silenzio. A seguito della privatizzazione dobbiamo essere consapevoli che non potrà più esserci nessun controllo pubblico sulla qualità del servizio, sulle condizioni di lavoro degli operatori, soprattutto non ci sarà nessun controllo pubblico sul costo delle tariffe. In questo modo anche l'articolarsi di percorsi di conflitto rispetto ai servizi pubblici si scontrerà con l'annullamento della funzione di indirizzo delle istituzioni.
Difendere i servizi pubblici oggi può e deve essere terreno di investimento dei movimenti in difesa dei beni comuni.
Innanzitutto bisogna rompere con la stagione delle s.p.a e delle società partecipate. I Comuni devono riacquistare le quote vendute ai privati nelle aziende che gestiscono i servizi. Il ruolo delle multiutility infatti prima ancora che a seguito della privatizzazione dei servizi viene agito già ora in termini speculativi con la partecipazione fino al 49% nelle aziende municipalizzate. Ci sono dei casi limite che godono anche di santificazione da parte di partiti politici come il Pd. E' il caso del ruolo di Hera in Emilia Romagna, multiutility che già controlla un pezzo importantissimo dei servizi pubblici nella regione di Errani e Bersani. Per questo bisogna lanciare una campagna per la trasformazione delle aziende partecipate, che sono delle s.p.a, in aziende pubbliche speciali come nel caso della trasformazione a Napoli della ARIN s.p.a in Acqua Bene Comune Napoli azienda speciale. Attraverso questo tipo trasformazione è possibile che la gestione dei servizi in house fino al 2015 possa servire per prendere tempo e preparare piani contro l'attuazione dell'articolo 26 del decreto CrescItalia. Ma fermare la norma del governo Monti non può che essere una battaglia popolare. Per questo l'ipotesi più plausibile resta quella del referendum abrogativo da presentare entro il 2015.
Per fare questo abbiamo però bisogno di lanciare da subito una campagna di lotta in tutto il paese. Già nei contenuti del referendum contro la privatizzazione dell'acqua vinto nel giugno 2011 esisteva l'esplicito riferimento all'intera sfera dei servizi pubblici. Il ritiro della norma del decreto CrescItalia che annullava l'esito referendario sull'acqua ha messo dunque al riparo solo la gestione del servizio idrico integrato.
Tanti sono gli articoli del CrescItalia che dovrebbero essere oggetto di approfondimento e di mobilitazione sociale. Ad esempio l'articolo 25 sullo smantellamento delle centrali nucleari che stabilisce la costruzione del Deposito Nazionale dei rifiuti nucleari e definisce le pratiche per la costruzione di questo mandandole in deroga alle normative vigenti fatta salva la Valutazione d'Impatto Ambientale.
Oppure l'articolo 44 che prevede l'ingresso dei privati in project financing nella costruzione delle carceri, unica risposta che il governo Monti sembra dare alle condizioni disumane in cui si vive nelle patrie galere. Ed ancora l'articolo 55 che dà la possibilità ai comuni di emettere obbligazioni per la costruzione di opere pubbliche dando in garanzia ai possessori dei titoli beni del patrimonio immobiliare di pari valore dell'opera. In caso di ritardi ci sarà una svendita a costo zero del patrimonio immobiliare dei comuni che verrà così sottratto alla pubblica utilità per finire nelle mani dei grandi speculatori.
In materia di sviluppo, fuori per quello che ci riguarda da ogni ipotesi tardosviluppista ed infarcita dal paradigma della crescita fordista, sarebbe interessante ragionare invece sulla proposta che Luciano Gallino ha lanciato su Repubblica, poi ripresa sul sito di MicroMega.
Un piano per le piccole opere che lo Stato potrebbe mettere in atto qualificandosi come datore di lavoro di ultima istanza. Un piano per affrontare temi seri che poco hanno a che fare con le speculazioni ed invece molto hanno a che fare con la difesa dei beni comuni: il riassetto idrogeologico del territorio, la ristrutturazione delle scuole e quella degli ospedali. Un piano da attuare attraverso un'Agenzia per l'occupazione trovando le risorse nella fiscalità generale attraverso una patrimoniale di scopo ed una quota degli ammortizzatori sociali sostituendo la cassa integrazione straordinaria con un lavoro vero pagato decentemente. Una proposta, quella di Gallino, che si coniuga bene anche con un’idea di riconversione ecologica complessiva delle attività produttive del nostro paese e che pone l'accento intorno alla difesa dei beni comuni, non come feticcio da agitare ma come piano d'azione concreto su cui mettere a valore il portato delle lotte sociali.
Proposte lontane dalle grandi opere che distruggono i territori come la Tav, che invece il governo dei professori vuole intendere come unico modo, insieme alle privatizzazioni, per uscire dalla crisi.