G.B. Zorzoli -
Le teorie economiche liberiste, per lo meno quelle che hanno
maggiormente influenzato i governi occidentali negli ultimi decenni,
sostengono che le politiche di redistribuzione della ricchezza nazionale
a favore degli strati sociali più disagiati (attraverso la leva fiscale
e provvedimenti come il salario minimo garantito) sono
controproducenti: il loro costo condiziona negativamente la crescita
economica, quindi danneggia tutti, anche chi si intendeva favorire.
È la teoria della torta – più è grande, più c’è da mangiare per tutti
– che autorizza a liquidare con un’alzata di spalle valutazioni di
segno opposto, come quella di cui riporto la parte più significativa.
«Le disuguaglianze nel reddito pesano in misura rilevante sulla durata
delle fasi di crescita dell’economia: una diminuzione dell’8% della
disuguaglianza sociale aumenta del 50% la durata di una fase di
crescita. Può sembrare un effetto eccessivo, ma è il tipo di
miglioramento sperimentato in un considerevole numero di paesi. Noi
stimiamo che, dimezzando il divario di disuguaglianza fra America Latina
e i paesi asiatici emergenti, la durata dei cicli economici positivi
più che raddoppierebbe in America Latina.
Se nel modello in cui valutiamo l’effetto della disuguaglianza
includiamo anche altri fattori che influenzano lo sviluppo economico, il
risultato non cambia in modo significativo, contrariamente a quanto
accade per fattori come la qualità dell’istruzione e il grado di
apertura al commercio internazionale. La disuguaglianza è decisiva anche
quando confrontiamo la durata della crescita economica dei paesi
emergenti in Africa e in Asia. Tutto questo suggerisce che la
disuguaglianza sociale pesa in quanto tale sullo sviluppo economico. […]
Di qui una conclusione, tutto sommato incontrovertibile: si
commetterebbe un grosso errore separando l’analisi dell’andamento
economico da quella della distribuzione del reddito. Utilizzando una
metafora marina, una marea crescente alza tutte le barche, e la nostra
analisi indica che, aiutando le barche più piccole ad alzarsi, si aiuta
la marea ad alzarle tutte, piccole e grandi». Non si tratta di parole in
libertà. Il documento da cui le ho tratte è corredato da grafici e
numeri a sostegno delle tesi sostenute e rappresenta la sintesi di una
ricerca più estesa, pubblicata come articolo sul numero di settembre
2011 della rivista «Finance & Development».
Non si tratta nemmeno del lavoro di due studiosi liberal o – dio ce
ne scampi – radical. Nulla a che vedere con uno Stiglitz, che sarà
Premio Nobel per l’economia, ma non si perita di scrivere che aumentare
le disuguaglianze comporta un’economia più debole, che a sua volta
aumenta le disuguaglianze, che producono un’economia ancora più debole (Il prezzo della disuguaglianza,
Einaudi, 2013). Gli autori della ricerca e dell’articolo, Andrew G.
Berg e Jonathan D. Ostry, sono rispettivamente assistant director e
deputy director del Dipartimento ricerca del Fondomonetario
internazionale, e il loro lavoro è classificato come «IMF Staff
Discussion Note 11/08».
Prima di parlarne ho atteso un più che ragionevole lasso di tempo.
Tipico caso dell’uomo che morde il cane, mi aspettavo che l’articolo di
Berg e Ostry suscitasse l’attenzione dei media, per lo meno di quelli
che ci inondano di pensosi editoriali sulla necessità di sacrifici per
risollevare l’economia. Liberi, dal loro punto di vista, di gridare allo
scandalo; di contestarlo; di mettere alla gogna i suoi autori. Non il
silenzio assordante che ha accolto in Italia una posizione così
controcorrente, resa pubblica dal Fmi. Meglio, moltomeglio, sopire,
troncare. Perché creare difficoltà al nostro beneamato premier professor
Monti, impedendogli di definire in tutta tranquillità «deboli di cuore»
coloro che non accettano la necessità di una severa politica economica
(definizione data nel discorso agli operai Fiat di Melfi)?
alfabeta2.it
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