Insomma, è proprio il caso di dirlo: molto rumore per nulla.
Dopo lo scontro sulla «riforma» del Senato, ora di nuovo, sul
lavoro, la minoranza Pd inghiotte il rospo. La sinistra interna (3
eccezioni su 26 confermano la regola) si è piegata al ricatto della
fiducia. Come se un ricatto costituisse un alibi, come se la
debolezza fosse una ragione. Ma se lo scorso agosto si trattò forse di
un imprevisto, adesso siamo a un copione sperimentato, del resto
conforme alla sortita di Bersani di qualche giorno fa. L’avviso
sulla lealtà alla «ditta» – peraltro ribadito anche da ultimo – non fu
dunque una voce dal sen fuggita, ma il previdente annuncio di
quanto era già intuito, assunto, metabolizzato.
È stata una scelta grave in un passaggio strategico. Renzi ha
aperto la guerra interna nel Pd su materie cruciali. La modifica
della Camera Alta stravolge l’architettura costituzionale e mina
alle fondamenta la rappresentanza democratica, alterando la
natura dello Stato. L’attacco ai diritti essenziali del lavoro
subordinato colpisce il cardine della Repubblica antifascista,
oltre che la ragion d’essere di una sinistra che possa
legittimamente dirsi tale. Non si tratta di scelte improvvisate, e
non è casuale che su questi terreni il «capo del governo» abbia deciso
di giocarsi la partita. Sfondando sulla divisione dei poteri e sui
diritti del lavoro, mortificando il dissenso e sfottendo le
organizzazioni sindacali, Renzi intende mostrarsi in grado di
guidare il «cambiamento»: di svuotare la Costituzione del ’48 e di
varare una nuova forma di governo funzionale alla sovranità del
capitale privato.
Solo chi avesse perso qualsiasi capacità di giudizio potrebbe
sottovalutare la gravità di quanto accade. Nel giro di pochi mesi
viene prendendo vita un regime autoritario nel quale il capo della
fazione prevalente potrà controllare tutti gli snodi della
decisione politica. E si viene regredendo verso un’oligarchia
neofeudale in cui il lavoro è senza garanzie, precarizzato nella
radice del rapporto contrattuale, quindi ricattabile in ogni
momento e destinato a salari sempre più bassi. Nemmeno manca, per i
palati più esigenti, il grazioso sarcasmo delle «tutele crescenti».
In tale scenario non incombe sui parlamentari democratici
alcun vincolo politico o morale di lealtà verso il partito e il
gruppo, né, tanto meno, verso l’esecutivo.
Non solo perché – anche grazie alla comprovata obbedienza dei
dissidenti – il Pd è diventato un partito personale, comandato
col ricatto, il dileggio, l’insulto. Non solo perché ogni vincolo
viene meno quando sono travolti principi fondamentali della Carta e
perché, chiedendo la fiducia su una delega in bianco («indefinita e
sfuggente nei criteri», nota la Cgil), il governo ha violato la
Costituzione (e di ciò il presidente della Repubblica dovrebbe
tener conto, invece di lasciarsi andare a impropri apprezzamenti del
Jobs Act). Ciascun parlamentare del Pd ha il diritto e il dovere di
decidere in piena autonomia anche perché il governo procede
rovesciando di sana pianta il programma in base al quale i
parlamentari democratici sono stati eletti. Un tale governo non va
preservato. Va contrastato e fatto cadere al più presto,
impegnandosi affinché il paese imbocchi la strada della riscossa
democratica.
Dire, com’è stato detto, che negare la fiducia sarebbe stato
«irresponsabile» perché la scelta sarebbe tra Renzi e la Troika è
soltanto un modo per nascondere la realtà. Non solo questo governo si
attiene in toto ai dettami di Washington, Bruxelles e Francoforte
(o qualcuno si meraviglia per la soddisfazione di Draghi e della
Merkel?). Lo fa, per di più, impedendo alla gente di capire e di
sottrarsi alla morsa del nuovo regime che soffoca il paese. Se una
politica di destra è fatta da un partito che si dichiara, almeno in
parte, di sinistra, che senso hanno ancora queste vetuste parole, e
come si può pensare di poter cambiare rotta?
Ma allora perché, ancora una volta, questo cedimento, che, come
ognuno vede, demolisce la credibilità della sinistra
democratica? Perché questa obbedienza che rischia di ridurre il
dissenso interno a una farsa; che induce a parlare di tradimento del
mandato parlamentare (questo ha detto in sostanza il senatore
Tocci intervenendo in aula); che rende la minoranza complice del
nuovo padrone del Pd, al quale non solo è offerta una preziosa
sanzione di onnipotenza (delle sue sprezzanti risposte alle timide
richieste di modifica della delega resterà memoria), ma è anche
concessa gratis l’opportunità di esibire, quando serve, una patente
contraffatta di sinistra? Si può tergiversare e predicare
cautela, pur di sottrarsi al giudizio. Si può tacere, augurandosi
di limitare il danno o di propiziare sviluppi positivi. Ci si
illude. Da sé le cose non cambieranno certo in meglio. Noi stiamo
piuttosto con il segretario generale della Fiom che arrischia un
giudizio durissimo (votare la fiducia serve a «difendere le
poltrone») e ne trae le dovute conclusioni («di un parlamento così
non sappiamo che farci»).
Nondimeno, siamo tra i testardi che pensano che in politica non
si è mai all’ultima spiaggia e che nessun frangente, per quanto
grave, è irreparabile e definitivo. Anche in questo caso,
nonostante tutto, staremo a vedere come andrà avanti questa storia e
come si concluderà. Sentiamo che alcuni dissidenti saranno il
piazza con la Cgil il 25 ottobre. E che un esponente della minoranza
del Pd, l’onorevole D’Attorre, annuncia battaglia sul Jobs Act alla
Camera, definendo «inaccettabile» che anche in quella sede il
governo ponga la fiducia. Ne prendiamo atto. Osservando che, se le
parole hanno ancora un valore, queste equivalgono a promettere che,
in tale non improbabile evenienza, la sinistra del Pd arriverà
finalmente a quella rottura che non ha sin qui nemmeno ventilato.
Vedremo.
Intanto resta che viviamo giorni cupi, gravidi di pericoli, forieri
di nuove violenze e di più gravi ingiustizie. Giorni che gettano
nuove inquietanti ombre sul futuro di questa Repubblica.
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