Alla
fine è una questione di corpi contundenti: c’è una destra che usa
Grillo per picchiare il Pd, Renzi che si traveste da grillino come prima
era agghindato da montiano, Scilipoti sulle scale di Palazzo di
Giustizia che consiglia di processare i magistrati, Grillo che mena
tutti aspettando il cento per cento e la dissoluzione del Parlamento in
un’immensa homepage, e Alfano che spera di usare Napolitano per
picchiare la Boccassini. La democrazia in
rete è una clava a intermittenza: è bella dal basso, quando si urla “a
casa!”, è affascinante dall’alto, quando guru e paraguru minacciano di
togliere le tende e di lasciare senza guida i loro eletti: cicca-cicca,
non gioco più. Il Pd si difende come può dagli attacchi concentrici e
dalle divisioni interne, un po’ come spararsi per impedirsi di fare
harakiri, roba assai contorta, la Gelmini (sentita con queste orecchie)
prega di pensare ai problemi reali del Paese, e Monti aspetta acquattato
nell’ombra di durare fino a ottobre e alle nuove elezioni, che è
l’unico modo di rivendere la sua agenda. Ecco, sicuro che mi sono
scordato qualcosa.
Da cittadino, ma anche da mammifero, italiano, bipede, titolare di
patente B ed elettore, un caro pensiero va a tutti quegli impareggiabili
geni che anni e anni fa caldeggiarono il famoso referendum di riforma
della legge elettorale, convincendo l’Italia che il proporzionale ci
paralizzava, mentre invece col maggioritario, wow, che figata! Era il
1993 (primo atto della commedia nel ’91), andavano di moda Mariotto
Segni, gli 883, Bill Clinton e le giacche con le spalline. Mirabolanti
intellettuali di centro, destra, sinistra, di profilo come gli egizi
nelle piramidi e pensatori a volo radente ammonivano la popolazione:
chiarezza! Normalità! Uno vince e uno perde, e si va avanti così,
alternandosi come nelle democrazie vere. Affascinante.
Ora siamo qui che festeggiamo il ventennale di quella mirabolante
impresa. Nel frattempo abbiamo avuto governi privati forgiati alla
scuola dei venditori di spot. O responsabilissimi governi progressisti
che sbandieravano la parola “flessibilità” per inventarsi il precariato.
O fragili compagini di centro-centro-centrosinistra aggrappate a poveri
senatori centenari. O compravendite di parlamentari un tanto al chilo. O
maggioranze amplissime impegnate a certificare con il voto le parentele
illustri di ragazze minorenni concupite dal premier. E ora – trionfo
del maggioritario – tre minoranze con lo stesso peso elettorale, ognuna
delle quali implora (Silvio a Pierluigi, Pierluigi a Beppe) un’alleanza
come ai tempi di Remo Gaspari. Un po’ come prendere la malaria per
curarsi il raffreddore.
Certo, la storia non è una cosa così meccanica. Eppure di quel 1993
rimangono alcuni apprezzati standard, come per esempio il potere
d’acquisto delle famiglie, che è rimasto uguale, mentre tutto il resto
costa di più. Brutti tempi, eh, intendiamoci. Pensate che c’erano ancora
le ideologie, quelle cose cattive per cui dietro una politica c’era
un’idea. Mentre dopo, quando “ideologia” è diventata una parolaccia da
sbertucciare nei talk show, abbiamo guadagnato alcune cosucce notevoli
come la Lega, la Santanché, la bicamerale di D’Alema, le cene eleganti, i
parlamentari in corteo a palazzo di Giustizia, i microchip sottopelle e
la democrazia liquida, che chissà perché a me piacerebbe solida.
Insomma, non buttiamoci giù, però mettiamo a verbale: mentre decidevamo
se il bicchiere era mezzo pieno o mezzo vuoto, qualcuno si è fregato il
bicchiere.
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