martedì 9 aprile 2013

Sinistra, ricominciamo dal modello Valsusa di Carlo Formenti

Il meeting di ALBA previsto per il prossimo 13 aprile a Firenze si prepara a rilanciare il compito sempre più urgente di costruire un nuovo soggetto di sinistra. Anticipiamo il testo dell’intervento che terrà Carlo Formenti.

Anticipato da iniziative di mobilitazione contro la “creatività istituzionale” che caratterizza l’ultima fase della presidenza Napolitano, e per incalzare il nuovo Parlamento su alcuni punti programmatici (conflitto di interessi, blocco della No Tav, svincolo della legge di stabilità dai parametri del Fiscal Compact, ecc.), il meeting di Alba previsto per il prossimo 13 aprile a Firenze si prepara a rilanciare il compito sempre più urgente di costruire un nuovo soggetto di sinistra. Trovandomi fra gli intellettuali invitati a dare un contributo alla terza sessione del meeting (“Tappe del percorso per un soggetto politico nuovo”) ho scritto la traccia di intervento che trovate qui di seguito.

Ho spesso la sensazione che quando si parla di costruire un nuovo soggetto politico, si intenda più che altro elaborare un nuovo tema culturale. Un po’ come se alla sinistra mancasse oggi soprattutto una narrazione che “funzioni”, che riesca cioè a ricostruire identità sociali smarrite. Personalmente penso che soggetti (e identità) sociali non si “costruiscano”, che preesistano a ogni discorso come corpi collettivi che esprimono bisogni, interessi, desideri, sofferenza e godimento. Penso anche che i movimenti siano l’espressione auto costituita di tali bisogni, interessi ecc. Ma questo vuol dire che costruire un soggetto politico di sinistra significa oggi quello che ha sempre significato: fare sintesi della prassi dei movimenti, per organizzarne l’energia in un progetto costituente alternativo a quelli che oggi governano il mondo in nome e per conto del finanzcapitalismo.

Con la frase “ciò che ha sempre significato”, intendo esprimere la convinzione che alcuni aspetti della tradizione del movimento operaio abbiano ancora qualcosa da insegnarci. Ostinandoci a esorcizzare lo spettro dei partiti novecenteschi, da tempo morti e sepolti, rischiamo di dimenticare che i veri bersagli sono gli attuali partiti postmoderni che agiscono come agenzie elettorali di un sistema postdemocratico. Penso che le costituzioni liberal democratiche si siano ridotte a foglie di fico che mascherano la realtà di sistemi che si reggono sulla mediatizzazione, sulla personalizzazione e sulla “gentrificazione” della politica. Con l’ultimo termine mi riferisco agli effetti della convergenza fra costo delle campagne elettorali, peso delle lobby economiche, intercambiabilità di ruoli fra manager e politici, tre fattori che hanno trasformato le istituzioni della democrazia rappresentativa in riserva di caccia delle classi dominanti (basti pensare che la metà dei membri del congresso Usa appartengono all’èlite dei super ricchi).

Rifiutando un simulacro di democrazia che serve solo a legittimare i tagli ai livelli di reddito e al welfare, le riduzioni delle libertà e autonomia individuali e di gruppo, le discriminazioni razziali e di genere, le devastazioni ambientali, le privatizzazioni dei beni comuni, la precarizzazione del lavoro, i movimenti hanno imboccato la strada della democrazia diretta e partecipativa. Temo tuttavia che difficilmente da queste sperimentazioni possa nascere, per semplice aggregazione federativa dal basso, un nuovo soggetto politico. Derive anti ideologiche e “apoliticiste”, frammentazione, individualizzazione, localismo, personalizzazione – intesa non solo come esaltazione del leader ma anche come particolarismo individuale e di gruppo – fanno sì che i movimenti, pur conducendo battaglie entusiasmanti, non riescano a saldarsi in un progetto complessivo. Ecco perché il vuoto fra società civile e istituzioni si fa sempre più ampio, favorendo l’affermazione dei populismi – dai regimi bolivariani al grillismo italiano – i quali, ancorché molto diversi fra loro, condividono tutti il paradosso della schizofrenia fra forme di democrazia diretta e partecipativa a livello locale e concentrazione del potere nel centro incarnato dal leader carismatico.

Esiste un altro modo di affrontare la crisi della democrazia e dei partiti di sinistra? Possiamo immaginare una forma che garantisca le esigenze di sintesi decisionale senza rinnegare il principio della partecipazione? L’utopia della cyberdemocrazia si era candidata a risolvere il problema negli anni 90, quando knowledge workers e classe creativa credevano di poter assumere un ruolo egemonico sia a livello economico che a livello politico culturale, costruendo nelle aziende, nella società e in politica una rete di relazioni antigerarchiche fondate sulle caratteristiche della rete, ingenuamente esaltata come medium “di per sé” democratico. La crisi ha infranto tale illusione, spianando la strada alla controffensiva di corporation e governi, i quali hanno rimodellato Internet in funzione dei propri obiettivi di sfruttamento e controllo. Ciò non toglie che dalla prassi dei network arrivino lezioni preziose: Primavera Araba, Occupy Wall Street, Indignados non hanno saputo usare la rete solo per organizzare lo scambio di idee e informazioni, ma anche come strumento di mobilitazione. Nemmeno queste esperienze di democrazia diretta mediate dalla rete possono tuttavia trascendere i limiti intrinseci dei movimenti, la loro strutturale incapacità di “farsi stato”, per dirla con Gramsci.

E allora? Allora occorre reinventare il concetto stesso di partito. Certamente farla finita con una forma partito che si è trasformata in macchina elettorale e in agenzia di manipolazione dell’opinione pubblica (e anche ripensare un sindacato strutturato secondo le vecchie esigenze delle categorie industriali e perciò incapace di intercettare le nuove figure del lavoro generate dal postfordismo). Ma ciò non implica, a mio parere, la necessità di rimuovere la parola stessa. Penso, al contrario, che i concetti e il lessico della sinistra vadano riscattati dalla “spirale del silenzio” in cui sono stati precipitati dal pensiero unico liberal liberista dopo il crollo dei regimi socialisti; penso che andare oltre il Novecento non significhi rinnegare l’idea stessa di lotta di classe, sostituendo la visione conflittuale della società con l’ormai dominante paradigma sistemico; penso quindi che l’idea di partito, inteso come organizzazione e rappresentanza della irriducibile parzialità degli interessi e delle identità dei soggetti oppressi e subordinati, non possa né debba essere abbandonata.

Siamo tutti consapevoli che c’è “qualcosa” da costruire là in mezzo, nel vuoto fra i movimenti sociali auto organizzati e le traballanti istituzioni della democrazia liberale. Qualcosa che non dovrebbe essere solo capace di analizzare le contraddizioni del finanzcapitalismo, ma anche la nuova composizione di classe, per potervi aderire come un’ostrica, per infilarsi in tutte le articolazioni del sociale: fabbriche, uffici, quartieri, territori, scuole, movimenti, amministrazioni.

Nessuno pensa che questo compito possa oggi essere svolto da quadri politici di professione, ma quali figure dovrebbero rimpiazzarli? In un libro di qualche anno fa, Revelli esaltò la figura del volontario; io preferisco ragionare su quella del militante, riprendendo quanto scrivono i ragazzi di Askatasuna nella loro analisi sul rapporto fra istituzioni auto organizzate del popolo della Val di Susa e militanti “esterni”. Il miracolo che si è realizzato lassù consiste nel fatto che gli esterni hanno saputo farsi legittimare per la loro capacità di essere fino in fondo dentro al movimento e, al tempo stesso, di agire come struttura di servizio, favorire la circolazione delle idee e delle esperienze e fare sintesi politica, inquadrando gli obiettivi della lotta locale in un progetto di opposizione antagonista al più ampio sistema di potere che aggrediva la Valle. Le reti di militanza sono l’embrione di una forma partito diversa, in cui la funzione di verticalità decisionale è esercizio collettivo di minoranze attive, e non di comitati centrali o leader carismatici.

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