Mladen
Dolar, benché ancora poco noto in Italia, è uno degli esponenti più
lucidi e significativi di quella che correntemente viene chiamata
“Scuola di Lubiana” (con Slavoy Žižek, Alenka Zupančič etc.). In questo
saggio, Dolar sviluppa alcune delle vedute che distinguono questa scuola
in rapporto alla questione della costituzione “ontologica” dell’atomo e
del den
L’atomismo,
così dice la storia, è stata la prima apparizione del materialismo
nella storia della filosofia, nonostante la parola “materialismo” abbia
fatto la sua comparsa soltanto nel diciottesimo secolo. Le battaglie
filosofiche che infuriavano in precedenza, e non sono state di certo
poche, sono state combattute sotto bandiere di diverso tipo e
l’imposizione retroattiva della grande contrapposizione antagonistica
tra materialismo e idealismo potrebbe presentare problemi, come
vedremo, nonostante chiami in causa delle poste in gioco molto alte.
Hegel, l’arci-idealista, o almeno così si dice, sembrerebbe quindi
essere un sostenitore dell’atomismo piuttosto improbabile: eppure ogni
qualvolta abbia toccato la questione, cosa che ha fatto in poche
occasioni, ha trattato la posizione atomistica con entusiasmo,
considerandolo come il presagio di un’idea speculativa profonda e di
ampia portata emergente all’alba della filosofia, un’intuizione da
tenersi stretta anche se insufficiente, una visione del mondo che ci
riportasse indietro alle basi, al minimo, alle condizioni preliminari
del pensiero.
La rivendicazione dell’atomismo al materialismo non dipende dalla
celebrazione della materia come sostanza ultima, con la pretesa che lo
spirito e l’anima siano materiali allo stesso modo della natura:
piuttosto implica un’operazione che va molto oltre. Per metterla nei
termini più semplici e scusandomi per questa considerazione breve ed
estremamente semplificata, la filosofia prende le mosse da una tesi
fondamentale: tutta la diversità dell’essere può essere spiegata da un
solo principio.
Può essere ridotta all’Uno, che sia l’arché dei primi
naturalisti o, nella sua prima vera comparsa, la grandiosa idea
speculativa di Parmenide che “l’Essere è uno” (e quindi indivisibile).
Questa operazione presuppone la possibilità di sottoporre l’essere a una
conta: fondamentalmente alla conta di uno. L’Essere può essere
contato? Può essere misurato da un numero? Quanti essere vi sono?[i] Platone, nel Parmenide, offrirà
la lista esaustiva di tutte le possibili trasformazioni basate
soltanto su due elementi, Essere e Uno, in quanto matrice minima con
cui ricondurre tutte le cose a un unico concetto. Perché un logos sia
possibile, l’Essere deve essere contato: deve essere calcolabile e
calcolato. In una parola, vi è un “matema” dell’Essere, per usare
un’espressione di Lacan – questa è la “tesi filosofica zero”.
La filosofia eleatica si è basata su due principi chiave:
1. che
l’essere è uno e indivisibile, e
2. che l’Essere è (non può non essere) e
il non-essere non è.
L’atomismo, come reazione a questa posizione, ha
adottato una visione decisamente opposta su entrambi i lati: primo, che
l’Essere sia divisibile per uno, non indivisibile come uno. Ha posto
l’atomo come particella indivisibile in cui qualsiasi cosa può essere
scomposta, imponendo così il semplice contare a tutti i diversi e
infiniti aspetti dell’essere. L’atomo può essere contato come uno, senza
alcuna possibilità di ulteriore divisione, ed ogni cosa che esiste può
essere ridotta essenzialmente a questo “conto-per-uno”, fino
all’infinito. Secondo, nel momento in cui si pone questo “uno” come
l’elementare particella dell’essere, si pone, nello stesso momento, il
vuoto che separa gli atomi e che rende possibile il loro movimento:
ancor di più, il principio del loro stesso movimento. In questo modo il
non-essere viene posto al centro dell’essere. La “tesi zero” degli
atomisti è: il non-essere è, ed è reale proprio come l’essere. Si
scompone così la complessità dell’essere in due elementi: l’uno e il
vuoto. Se vi è una divisione negli atomi, essa non riguarda le
particelle indivisibili, ma il vuoto che le circonda e che permette loro
di essere contate per uno. Da qui, il principio eleatico poggia
sull’Uno come comun denominatore di tutto l’Essere, l’uno della
totalizzazione, dell’hen kai pan, mentre l’uno atomistico è
l’uno di una rottura, un uno-che-rompe, uno in quanto introduce una
rottura, un’incrinatura nell’Essere. Vi sono due tipi di “uno” che si
confrontano: l’uno che provvede alla totalità e ne riempie ogni
possibile spaccatura, conservando l’Essere come un tutto; e l’uno che
perturba l’Essere, introducendo un’apertura nel tutto, per usare un
(cattivo) gioco di parole in inglese, senza essere complice della
totalità (e piuttosto facendo in modo che vi sia un “non-tutto”).
Nietzsche, in una delle sue note postume, ha visto nella mossa eleatica
“un articolo di fede metafisica, derivato da un’intuizione metafisica e
che attraversiamo in tutte le filosofie, col tentativo sempre nuovo di
esprimerlo meglio – l’affermazione che “tutto è uno”[ii]. Bene, le filosofie del “non-tutto”, gli atomisti, erano lì pronti a contrastare immediatamente questa mistica.
Hegel, il presunto arci-idealista, qualora ve ne sia mai stato uno, è
sempre stato entusiasta di ciò che egli vedeva come la più grande
conquista speculativa dell’atomismo antico: cioè che alla base abbiamo
sempre non un’unità, ma un’unità spaccata in qualcosa e un vuoto, così
che dobbiamo includere il vuoto come “l’altra metà”, “la metà perduta”
dell’essere fisso degli atomi. Lui stesso ritorna su questo punto più e
più volte. La questione del materialismo è immediatamente in gioco:
perché se il problema viene posto in questi termini per Hegel si tratta
ovviamente di idealismo antico, dal momento che gli atomi, le unità e
il vuoto sono chiaramente “principi ideali”. Non sono qualcosa che
possa essere visto o esperito: nessuno ha mai visto, percepito,
esperito un atomo, non solo a quei tempi, ma in ogni secolo, anche con i
migliori strumenti alla mano. L’atomo è chiaramente un’idea, l’idea di
uno e della divisione, l’idea del vuoto e del non-essere. “Il
principio dell’uno è interamente ideale [ideell ], appartiene
interamente al pensiero, anche nel caso si voglia ammettere che gli
atomi esistano. L’atomo può essere considerato in un senso materiale,
ma questo rimane non-sensibile [unsinnlich], puramente intellettuale”. (TWA[1]
18, p.358). Gli atomi sono invisibili, non solo per via della loro
dimensione minuscola, ma perché “non è possibile vedere l’Uno [das Eins kann man nicht sehen],
è un’entità astratta del pensiero… Il principio dell’uno è interamente
ideale, ma non nel senso che esso esista solo nel pensiero, nella
testa, ma nel senso che il pensiero è la vera essenza delle cose [der Gedanke das wahre Wesen der Dinge ist].”
(pp. 358-59). Così gli atomi sono ideali in primo luogo nel senso più
debole secondo cui in principio non sono materia di percezione,
esperienza e sensi, quindi in un senso più forte, nel senso hegeliano
paradigmatico, che queste entità ideali presenti nella testa toccano
l’essere. Queste non sono opposte all’essere sensibile, ma in realtà
esprimono chiaramente il loro nocciolo. Da qui la conclusione di Hegel
che questo sia “idealismo in un senso più alto, non in quello soggettivo
[Idealismus im höheren Sinne, nicht subjektiver]” (p.359): in
ballo qui non c’è, infatti, alcuna idea soggettiva nella testa di
qualcuno (piuttosto, è il soggetto in sé a non essere altro che un
effetto di questo divisione). Questo è anche in linea con uno dei
frammenti di Democrito (riportato da Plutarco): il fatto che l’atomo sia
un’idea, atomos idea. (Si potrebbe anche aggiungere che atomos per
Democrito era di genere femminile, come un aggettivo sostantivato in
corrispondenza con l’idea, mentre diventerà neutro più tardi, seguendo
il soma, il corpo. La questione del genere grammaticale non è
neutrale: l’atomo è stato reso neutro separandolo dal suo genere e
trasformandolo in un corpo. E’ una questione di genere il fatto che un
atomo sia un corpo o un’idea. Cosa è il sesso degli atomi? Sono nati
come idee e resi neutri come corpi).
Alla base dell’argomentazione hegeliana vi è l’affermazione che
l’essere e il pensiero si incrociano, non devono essere opposti, e il
punto in cui si essenzialmente si incontrano è la spaccatura e nel
vuoto. Come dirà Hegel più tardi nella Storia della Filosofia (discutendo di Epicuro):
Questa rottura [interruzione, Unterbrechung] è l’altro lato degli atomi: il vuoto.
Il movimento del pensiero è un movimento tale che ha in se stesso la
rottura (il pensiero è nell’uomo precisamente ciò che gli atomi e il
vuoto sono nelle cose, il loro Interno[das Denken ist im Menschen eben das, was die Atome und das Leere in den Dingen, sein Inneres]). (TWA 19, str. 311).
Questo è il vecchio Hegel. Così il pensiero è la rottura dell’essere, la sua Unterbrechung, la
sua interruzione, e ciò che il pensiero e i suoi oggetti hanno in
comune è la rottura che interrompe l’oggettività, introducendo il vuoto.
Il pensiero e il mondo s’incontrano nel vuoto introdotto dal pensiero;
ma questo è il reale accesso all’essere che ha il pensiero,
l’interruzione pensante interrompe l’essere stesso, apre l’essere per
noi o, all’inverso, il pensiero è posto in una frattura dell’essere, e
le due direzioni sono indistinguibili per Hegel. La questione qui non è
tanto se l’atomismo sia una buona teoria e se Hegel lo abbia accolto
nella sua spiegazione dell’essere: lui stesso lo avrebbe considerato
insufficiente e troppo astratto. La questione non è nemmeno se questa
sia una buona ricostruzione storica dell’atomismo antico, visto che sul
tema sono state prodotte numerose ricerche filologiche di grande
rilievo. La questione vera è che l’atomismo include una certa intuizione
che lo stesso Hegel considerava valida e di ampia portata: il fatto
che sia un principio di negatività a muovere insieme il pensiero e
l’essere; che questo principio forma l’interiorità di entrambi nel
profondo, sein Inneres. Per dirla nei ben noti termini
hegeliani: il modo in cui la sostanza e il soggetto si reggono insieme
deve essere legato a questo principio. E in questo modo vediamo che la
divisione fra idealismo e materialismo assume una diversa proporzione:
in questione non è la precedenza della materia rispetto al pensiero e
alle idee, della materia posta come indipendente da questi, ma se e in
che modo il pensiero si incontra con la materia o se la divisione della
materia sia il luogo reale in cui il pensiero si iscriva. Non vi è
alcun materialismo senza l’esposizione di questo paradosso: in caso
contrario la materia diventa solo un altro nome per la tradizionale
sostanzialità. Così la questione non è chi venga prima, ma come pensare
la loro frattura, quindi la loro articolazione[iii]. La
questione di ciò che viene prima, materia o idea, assume già la
divisione che struttura la domanda: la compiuta divisione in materia e
pensiero. Ma materialismo e idealismo differiscono piuttosto nel modo
stesso di porre questo schema.
Hegel torna su questo punto nella Logica, nella nota sull’atomismo, quando introduce il suo concetto dell’Uno:
Il principio atomistico, con questi primi
pensatori, non è rimasto nell’esteriorità, ma, nonostante la sua
astrazione, conteneva una determinazione speculativa: che il vuoto era
riconosciuto come la fonte del movimento. Ciò implica una relazione
completamente differente fra gli atomi e il vuoto rispetto al mero
uno-accanto-all’altro [Nebeneinander] e la mutua indifferenza
dei due. […] Il punto di vista secondo cui la causa del movimento
risieda nel vuoto contiene quel pensiero più profondo per cui causa del
divenire è il negativo. (Logica, TWA 5, p. 185-6)
In un certo senso si potrebbe dire che Hegel stia tutto in questo
passaggio fondamentale. Ponendo l’uno, come entità positiva, si pone
inevitabilmente il vuoto, il non-essere, come il vero elemento in cui
l’uno possa prosperare. Così ciò che è indivisibile, per Hegel, non è né
l’uno né il vuoto: ad essere indivisibile è la divisione in se stessa.
Per quanto si possa cercare lontano un elemento minimo, non arriveremo
mai ad un uno che sia il minimo e l’indivisibile: ma alla divisione.
Il vuoto, come la platonica metà perduta dell’elemento come uno,
risponde a questa descrizione essendo appunto scomparso (ciò che
scompare). L’atomo di Hegel, la sua particella elementare è quindi
l’atomo in sé in questo senso preciso: 1. ciò che non può essere diviso
ulteriormente è la divisione in sé; 2. il negativo è la condizione
interna del positivo; 3. non vi è alcuna unità, ma un’unità
frammentata; 4. essere e pensiero si incontrano in questa spaccatura.
L’atomo del pensiero hegeliano è l’atomo.
Vi è un quinto punto, che è tutto fuorché evidente, che tuttavia
costituisce il momento cruciale per Hegel. Con un altro colpo audace,
Hegel vede in questo vuoto e in questa rottura precisamente il luogo del
soggetto. Un altro passo in avanti è richiesto: gli antichi vedevano
molto bene questa rottura e il negativo, ma ciò nonostante non avevano
ancora realizzato che questo fosse il luogo reale del soggetto, e che il
soggetto, in senso hegeliano, altro non è se non ciò che emerge in
questa rottura, che abita la disparità dell’uno con se stesso, racchiuso
proprio da questa divisione. Quindi questo atomo del pensiero
hegeliano deve essere esteso: non è un mero atomo dell’essere, ma allo
stesso tempo l’atomo del soggetto, il modo autentico attraverso cui il
soggetto appartiene all’essere, il modo in cui, profondamente, “la
sostanza è soggetto”, come recita il suo noto adagio. Hegel afferma
questo in un passaggio in qualche modo enigmatico della “prefazione”
alla Fenomenologia:
…certi antichi concepivano il vuoto [das Leere] come ciò che muoveva le cose [das Bewegende], dal momento che questi concepivano ciò che muove le cose come il negativo, ma non avevano ancora colto questo negativo come il sé [das Selbst][iv].
Così gli antichi avevano visto bene il principio della negatività nel
vuoto, rompendo ogni “uno” alla radice. Si erano anche figurati il
negativo come la forza movente, ma non sono stati in grado di cogliere
in questa negatività il vero luogo del sé: il soggetto. Si sono accorti
che la sostanza è permeata di vuoto, abbracciando l’assenza in seno
suo, ma non hanno avuto alcun sentore del fatto che questo avrebbe
avuto una relazione con il luogo del soggetto. Ma questo è Hegel al suo
minimo – il luogo del soggetto, nell’adagio “la sostanza è il
soggetto”, non è nient’altro che questa scissione in sé, questo taglio
nell’essere introdotto dal vuoto come principio del movimento.
Il soggetto, come Hegel concepisce questa entità, non è un essere
positivo e non ha essere: deve essere posto nella rottura ed è questo
ciò che spinge ogni entità all’agitazione (eben diese Unruhe ist das Selbst –
il sé non è nulla se non l’agitazione dell’uno, la sua rottura. Esso
risiede nell’impossibilità che ogni entità sia uguale a se stessa: il
soggetto è ciò che spinge oltre se stesso, non è altro che questa
diseguaglianza, la parte invisibile di ogni entità positiva che causa la
diseguaglianza, Ungleichheit. Se si volesse esprimere
chiaramente il progetto hegeliano in poche parole, estendere questa
forma atomica e portarla all’atomo del pensiero hegeliano, si potrebbe
dire: dall’atomo al cogito. Vi è un corto-circuito in questa
espressione che lega immediatamente l’introduzione del vuoto da parte
degli atomisti, l’unità speculativa dell’uno e il vuoto, e la figura
della soggettività come essa emerge con il cogito cartesiano. La novità
del cogito, infatti, è stata precisamente nell’aver eliminato i
precedenti modi di pensiero relativi alla soggettività (anima,
coscienza, individualità, persona) e introdotto il soggetto all’interno
della rottura nell’essere, nella grande catena dell’essere. (Žižek
ritorna più volte su questo punto, “il cogito è la rottura nell’edificio
dell’essere”). Non è una sostanza, nonostante Descartes lo fissi
subito dopo averlo compreso entro la res cogitans, ma quasi
l’opposto, almeno nella concezione radicale che ne ebbe Hegel: esso è
ciò che impedisce a ogni sostanza, a ogni sottostante principio di
unità, di persistere mai nell’uguaglianza con se stessa. Vi è una
frattura nell’essere, già compresa entro il vuoto nell’atomismo antico,
come un luogo che stesse attendendo il soggetto, come poi fu. (Wo es war, soll ich werden?)
Per semplificare le cose: se la sostanza era la parola chiave della
filosofia, la sua idea guida per portare la molteplicità al fondamentale
principio uno, oltre le apparenze e il cambiamento, allora si potrebbe
dire che il soggetto, in Hegel, è il nome dell’uno che si rompe in
due, l’impossibilità reale che ogni sostanza sia uno. L’adagio “la
sostanza è soggetto” segue direttamente dall’idea di atomo, dalla
comprensione di ciò che l’atomo implica. Ma quali due dividono in
questo modo l’uno? Gli atomi e il vuoto sono sufficienti a questa
rottura? E questa linea retta può bastarci o non sarebbe forse il caso
di fermarla o schivarla?
Ci sia permesso di passare a una seconda versione dell’atomismo:
quella che è in diretta opposizione all’interpretazione hegeliana.
La
questione del clinamen (il termine è usato solo una volta, De rerum natura, 2.292)[v],
per come viene posta di solito, suona così: gli atomi, le particelle
indivisibili, sono dotate di peso come principio del movimento e tutte
insieme cadono con la stessa velocità. Così date le loro proprietà
minime ed essenziali, il loro movimento può essere soltanto quello di
una caduta parallela, come le gocce di pioggia (“imbris uti guttae caderent inane profundum”,
[“Ma se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso, /
come gocce di pioggia, per il vuoto profondo”, tr. it. cit. in nota, p.
77]; da cui il famoso incipit di Althusser, la prima frase del suo trattato sul materialismo dell’incontro: “Piove”)[vi].
In questo modo nulla emergerebbe mai [“…così la natura non avrebbe
creato nulla”, tr. it. cit. in nota, p. 77]. Per questo deve esservi una
declinazione, uno scarto, una deviazione dal movimento verso il basso,
che causi il conseguente scontro e collisione tra gli atomi, e da qui
l’universo “come lo conosciamo”.
Devo scusarmi di nuovo per questa illustrazione estremamente
semplificata: ricorderò soltanto che Lucrezio sostiene, piuttosto
paradossalmente, tre cose riguardo al clinamen. Questa
declinazione, in primo luogo, ha luogo in uno spazio e in un tempo non
definite, come ripete non meno di tre volte – non ha alcuno spazio o
momento attribuibile, è senza luogo e senza tempo, ma presenta ciò che
sta al di fuori dell’unità di spazio e tempo. In secondo luogo: questa
declinazione è assolutamente minimale: “nec plus quam minimum”,
[“…non più del minimo possibile”, tr. it. cit. in nota, p. 77]. La
deviazione è la più debole che si possa concepire, la differenza al di
sotto della soglia di ogni differenza positiva o osservabile – una
differenza differente da tutte le tipiche differenze e in grado di
condizionarle tutte. Terza cosa: Lucrezio, senza alcun preavviso, si
discosta improvvisamente dal suo argomento cosmogonico (in che modo il
mondo ha avuto origine dal clinamen) per gettarsi
nell’argomento della libera volontà. La cosmologia, improvvisamente e
senza alcun passaggio, stringe le mani all’antropologia: la causalità
della natura con la causalità della cultura, o piuttosto, un errore
nella causalità naturale che si sovrappone a un errore nella “causalità
psichica”. Così come gli atomi deviano dalla loro traiettoria, allo
stesso modo la nostra volontà si sottrae ai legami della necessità e
rompe I decreti del fato: la volontà viene strappata via dal destino che
mette sullo stesso piatto la nostra voluntas e voluptas, il volere e il piacere[vii].
Non è solo il destino dell’universo ad essere qui in questione, ma il
destino della nostra volontà e passione, iI desiderio e il piacere: non
il destino in realtà, ma davvero l’opposto, cioè l’autentica
possibilità di rompere il destino. Il clinamen è il punto in
cui il cosmo e l’umanità si sovrappongono: questo momento fuori dallo
spazio e dal tempo mostra ciò che essi hanno in comune. Così la
causalità naturale e la causalità psichica sono la stessa cosa per
Lucrezio, ma proprio come deviazione: una declinazione dell’uno e dello
stesso, la nostra anima composta di atomi come ogni altra cosa.
Ci si potrebbe azzardare a chiamarla una “indifferenza ontologica”, o
un’univocità di movimenti dell’anima e dei movimenti della natura.
Questa storia ha incontrato un’ampia e ostinata resistenza, insieme a
una dura critica, passando da Cicerone ad Hegel, e in qualche caso
arrivando fino ai giorni nostri. Il più irremovibile è stato Cicerone
che ha stabilito il tono del discorso per secoli e millenni:
…questa è una finzione interamente
infantile… da una parte la declinazione è arbitrariamente inventata
([Epicuro] dice che l’atomo declina senza una causa; per un fisico non
c’è nulla di più ignominioso che affermare questo: che qualcosa accada
senza una causa), e dall’altra ha escluso gli atomi senza una causa dal
movimento naturale di tutti i corpi… (De finibus bonorum et malorum, 1,
19) Tirano a sorte fra loro per decidere chi declinerà e chi no? E
perché declinano seguendo un minimo intervallo e non uno più grande?…
Questa è solo una pia illusione, non un argomento (De fato,46)[viii].
E così via con queste critiche. Molte di più ne sono arrivate da un
mucchio di altri autori, come Plutarco, Plotino, Agostino, per arrivare
fino a Kant (“Epicuro fu anche tanto sfacciato da pretendere che gli
atomi declinassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa,
così da potersi scontrare fra loro”[ix]) e infine ad Hegel, che
deve averne avuto una migliore conoscenza. Hegel, in altri casi
entusiasta ammiratore, ha trattato la nozione di clinamen allo stesso modo: con disprezzo. Scrive, infatti, nella Storia della filosofia, che per Epicuro gli atomi deviano dal loro movimento rettilineo “in una linea curva [in einer krummen Linie]
che in qualche modo si discosta dalla direzione retta, così che
collidano l’uno con l’altro, e formando in questo modo un’unità
meramente superficiale [eine oberflächliche Einheit], che non deriva dalla loro essenza” (TWA 19, p. 313). Nell’Enciclopedia afferma
più o meno la stessa cosa: gli atomisti hanno considerato con
giustezza che il fatto di postulare che l’uno è basato sulla repulsione
dell’uno come sua sorgente interna (essenzialmente come uno che
respinge se stesso), ma non hanno visto che la concomitante forza
opposta di attrazione segue concettualmente da questa in modo
inevitabile, così per loro gli atomi “sono tenuti insieme dal caso [Zufall, coincidenza], cioè da ciò che è privo di pensiero [das Gedankenlose]. (…) qualcosa di completamente esterno [etwas ganz Äusserliches]”. (TWA 8, p. 206). Così il clinamen rappresenta ciò che è senza pensiero ed esterno, l’assenza di pensiero e di un’inerente deduzione concettuale.
Arriviamo così alla questione cruciale. Cosa appartiene all’essenza dell’atomo? Il clinamen è
un’aggiunta esterna meramente superficiale che non tocca affatto la
sua essenza? Uno scarto senza alcuna ragione sufficiente? E’ un destino
essenziale o solo esterno per gli atomi?
Contrario a questo punto di vista, chiamerò in causa Deleuze, non
proprio un hegeliano, (anzi tutt’altro che questo), ma che in questo
caso dà vita a un colpo di scena molto hegeliano: direi più hegeliano
dello stesso Hegel. Così leggiamo su Lucrezio in appendice alla Logica del senso:
Il clinamen, o declinazione, non
ha nulla a che fare con il movimento in pendenza che giungerebbe a
modificare per accidente una caduta verticale. Esso è presente da
sempre: non è un movimento secondario e neanche una determinazione
secondaria del movimento che avrebbe luogo a un certo momento, in uno
spazio preciso. Il clinamen è la determinazione originaria della direzione della direzione di movimento di un atomo[x].
Seguendo questa linea interpretativa, contro il buon senso della tradizione sprezzante, il clinamen è
da sempre già lì: è la diseguaglianza radicata nella definizione
dell’atomo dall’inizio, la sua “interna” diseguaglianza con se stesso.
L’atomo è la sua stessa declinazione, la paradossale unità non soltanto
dell’uno e del vuoto, ma allo stesso tempo l’unità dell’entità con il
suo distaccarsi da se stessa. Non si tratta di una sorte secondaria che
accade all’atomo in sé e al suo supposto moto rettilineo – dal momento
che vi è una deviazione dalla traiettoria, si suppone che doveva
precederla una direzione rettilinea: ma questa non esiste affatto in sé.
Il distaccarsi degli atomi produce retroattivamente “l’in-sé”, in
termini hegeliani. Il racconto temporale che pone le cose in sequenza –
prima la caduta parallela, in seguito il clinamen – è
un’illusione retroattiva necessaria. La declinazione risiede negli atomi
dal principio e risiede sempre in essi, in ogni tempo. Il loro essere
fuori dallo spazio e del tempo sono parte e pezzo del loro spazio e
tempo. Gli atomi non possono essere pensati separatamente dal loro
essere-deviati, il clinamen è la loro anima, nel caso ne
avessero una. E’ una cosa sola con la loro unicità, dal momento che la
loro unicità è già una separazione dall’uno: un uno deviato. Ma non era
Hegel a essere nella migliore situazione per poter apprezzare tutto
questo? Il clinamen è il suo luogo cieco, lì dove avrebbe
dovuto vedere il necessario “divenire accidentale dell’essenza”, il modo
in cui l’essenza può essere se stessa soltanto mostrando la sua piena
contingenza, o è piuttosto un’inerente deviazione dalla sua
interpretazione dell’uno e del vuoto, qualcosa che deve aver perso a
livello strutturale?
Deleuze presenta la questione essenziale in maniera sintetica ed
efficace, ma ha avuto in questo un predecessore illustre. Il
giovanissimo Karl Marx ha discusso la sua tesi dottorale nel 1841 a Jena
(la stessa Jena dove Hegel scrisse la Fenomenologia dello Spirito e dove vide Napoleone in sella al suo cavallo bianco) che aveva come argomento, tra tutte le cose, La differenza tra le filosofie della natura di Democrito ed Epicuro: da lì si vede come Marx abbia stabilito il destino della sua impresa proprio sull’idea di clinamen. Permettetemi dunque di citare qualcosa da Marx, autore che praticamente non viene mai citato:
Cicerone lamenta in seguito… che la declinazione egli atomi accade senza una causa; e
niente di più vergognoso, afferma Cicerone, può accadere a un fisico.
Ma, in primo luogo, una causa fisica come quella che vorrebbe Cicerone
farebbe tornare la declinazione dell’atomo alle serie deterministiche
da cui essa dovrebbe essere sollevata. Inoltre, l’atomo non ha mai luogo prima di essere determinato dalla declinazione. [Dann aber ist das Atom noch gar nicht vollendet, ehe es in der Bestimmung der Deklination gesetzt ist].
Domandare la causa di questa declinazione quindi significa domandare
la causa che fa dell’atomo un principio – una domanda che non ha alcun
senso per chi considera l’atomo causa di ogni cosa, e quindi in se
stesso senza una causa. (MEW Ergbd. 1, p. 282).
Cosa è la causa della causa? La causa ha una causa? Cosa è richiesto
perché una causa sia un principio? Una causa può zoppicare? L’argomento
di Marx è fondamentalmente questo: una volta che l’atomo viene posto
come principio non vi è alcuna altra causa che possa interessarlo a
parte la causalità già iscritta in esso: per questo la declinazione
appartiene alla sua causalità interiore, non alla sua sorte successiva.
L’atomo è ugualmente uniforme e univoco come peso, ma precisamente come
diseguaglianza di uniformità e univocità. L’apparente distanziarsi
dalla causalità porta la causa allo scoperto. E’ la causa de ce qui cloche (Lacan), la causa zoppicante, sempre co-presente in ogni causa.
Paradossalmente, Marx nella sua dissertazione ha insistito a lungo sul clinamen, non
per criticare Hegel, quanto piuttosto come “strada privilegiata” per
appoggiare Hegel: superando il maggiore difetto del materialismo, cioè
l’istanza deterministica, in modo tale che il clinamen venisse concepito essenzialmente come la rimozione della
materia, la sua sostituzione, l’intrinseca separazione dalla sua
determinazione, e allo stesso tempo per abbracciare la contraddizione
(oggettiva) contro il principio di non-contraddizione. Ciò che Marx ha
implicitamente sostenuto è che Hegel abbia letto scorrettamente la
filosofia post-aristotelica laddove avrebbe potuto arruolare Epicuro
come alleato (e troviamo un excursus nella dissertazione che pone Kant nel ruolo di Democrito ed Hegel in quello di Epicuro)[xi].
Tuttavia, e questo è un grande “tuttavia”, laddove Hegel ha visto il
movimento concettuale necessario che porta all’attrazione come
funzionale alla sostituzione dell’unilateralità, dell’astrazione, della
mera repulsione degli atomi, per mezzo della quale restano bloccati
nella divisione in uno/vuoto, Marx insiste sul clinamen per mettere in scena la stessa dialettica. E questa è forse la massima ambivalenza di questo primo tentativo di Marx: il clinamen è
rimozione della materia in ciò che vi è di determinismo meccanicistico
o piuttosto qualcosa nella materia che la rende irremovibile? La sua
persistenza nell’autentica contraddizione?
Il materialismo del clinamen (e questo non è stato
abbastanza considerato da Marx) va contro alcune risorse fondamentali
dell’ontologia aristotelica che si assumono spontaneamente e
tacitamente. L’atomo non è né hyle, né morphe, non è
materia né forma, ma precisamente un principio che elude questa
divisione e tutte le intricate complicazioni dell’ilemorfismo
aristotelico. E’ insieme materia e forma “in uno”: non richiede una
forma come principio separato per informarlo; è informato e spinto da
sé, dotato in se stesso del suo proprio impulso e impeto, nel suo
movimento rettilineo come in quello deviato. E’ qui che si rivela la sua
opposizione alla nozione di materia derivante dalla divisione
cartesiana in cui la materia è largamente vista come inerte e passiva,
governata da leggi meccaniche. Gli atomi in effetti confondono la linea
di confine tra l’animato e l’inanimato, così come la demarcazione tra
materia e idea, quella tra la dimensione fisica e la psichica, tra la
necessità e il caso. La cosa semplice e insieme difficile da comprendere
in questo atomismo è il fatto che esso si ponga contro il buon senso
di un dualismo aristotelico apparentemente auto-evidente; è il modo in
cui aggira questo dualismo; il pensiero di un “due in uno”, ma in un
uno che non può più essere “l’Uno” e neanche del tutto un uno. Ogni
“uno” è la deviazione interiore dell’unicità che demolisce la sua
unicità.
Non c’è dubbio che vi sia un problema qui. La lettura di Deleuze e di
Marx, profonda e lucida nella sua svolta speculativa (adesso
largamente seguita dalla maggior parte della critica contemporanea),
può ridurre facilmente il clinamen a un non-concetto: può
velocemente diventare una chiave onnipresente. Nel peggiore dei casi
esso è idealmente adatto a distinguersi come campione dell’era
post-moderna: il suo slogan di moda e la parola chiave, fondendo
insieme gli sviluppi della fisica, le ‘strutture dissipative’ di
Prigogine, i frattali, il caos e i quanti, con gli strumenti della
poesia (post)moderna, cui Jarry e Joyce, entrambi sottili ammiratori di
Lucrezio, hanno spianato la strada[xii]. E non vi è che un breve passo per includere la différance-détournement di Derrida e la lignes de fuite di Deleuze, la “necessità della contingenza” di Meillassoux ecc… nella mischia generale. Si può facilmente immaginare come il clinamen possa ampliamente prosperare in questo modo: un passe-partout universale
nella sua apparente singolarità e il riserbo è al proprio posto se non
si ha lo stomaco per una simile prospettiva. Ma questo uso
appariscente non squalifica il concetto in sé che ha prodotto questa
affascinante progenie: più in particolare l’idea althusseriana di
materialismo aleatorio, o “materialismo dell’incontro”, ha come
premessa il clinamen, ma non posso discuterne più a fondo in questa sede[xiii].
Essenzialmente abbiamo due possibilità: o si situa il clinamen come
un’eccezione (costitutiva), qualcosa che deve sempre già essere
accaduto così da far emergere l’universo, accadendo al di fuori dello
spazio e del tempo, senza alcun luogo o movimento all’interno della
spazio e del tempo nel momento in cui si sono costituiti. O piuttosto
può essere un principio “quasi-universale” onnipresente che deraglia
immediatamente ogni dato uno in ogni luogo e in ogni spazio. Sembra che
Badiou, nella sua interpretazione perspicace del clinamen contenuta nella Teoria del soggetto, opti più o meno per la prima soluzione:
E’
assolutamente necessario che il clinamen venga abolito nella sua stessa
svolta… Ogni spiegazione particolare di ogni cosa particolare non deve
richiedere il clinamen, nonostante
l’esistenza di una cosa in generale sia impensabile senza di esso…
L’atomo interessato dalla deviazione dà origine al Tutto senza alcun
resto o traccia di questa azione. Ancora meglio: l’effetto è la
rimozione retroattiva della causa… la deviazione, non essendo né
l’atomo, né il vuoto, né l’azione del vuoto, né il sistema degli atomi, è
inintelligibile[xiv].
Deleuze, d’altra parte, opta per la seconda soluzione, e si potrebbe
leggere la sua nozione del virtuale come l’intrinseco e immanente clinamen, l’essere
deviato, che si situa in ogni momento ed entità. – Avendo in mente le
formule di Lacan sulla sessuazione si potrebbe anche porre la
questione: Badiou è un uomo? Deleuze è una donna?
Nel primo caso lo prendiamo come un’eccezione che non ha “mai luogo”,
nonostante sia sotteso a ogni “aver luogo”, come una “trascendenza
immanente”, fuori-dal-mondo. Nel secondo caso “quasi-universalizziamo”
l’eccezione e la rendiamo immanente ad ogni “aver luogo”, facendone così
una deviazione universale di ogni universale, il fuori-dall’unicità di
ogni Uno (col pericolo di fornire in questo modo un passe-partout conveniente e non vincolante). Come pensare insieme l’Uno e l’Altro? E’ possibile una terza opzione?
È allora l’intuizione speculativa hegeliana, con le conseguenze di
ampia portata che Hegel stava per trarre, la trama fondamentale del
racconto dell’atomismo come materialismo? L’uno, il vuoto, la
spaccatura, la negatività, il soggetto inscritto nella spaccatura? O
forse la trama principale risiede nella deviazione, nel clinamen, nella
separazione dall’uno e dal vuoto? – In conclusione proverò a proporre
una terza versione di questa storia sull’atomo. C’è qualcosa nell’atomo
che potremmo tradurre nello slogan: “dimmi cosa pensi dell’atomo e ti
dirò chi sei”. Chi sei tu – Hegel, Marx, Deleuze, Althusser, Badiou?
Torniamo indietro a Democrito e consideriamo un’opzione che né Hegel
né Marx hanno valutato: un passaggio oscuro che è stato posto in
evidenza da Lacan, vedendovi qualcosa come “l’atomo del pensiero e
dell’essere”, opposto all’atomo hegeliano. In un famoso passaggio ne I quattro concetti fondamentali, Lacan dice:
Quando Democrito ha provato a designarla
[l’origine], presentando già se stesso come avversario di una pura
finzione della negatività così da introdurre il pensiero in essa, questi
afferma: Non è il meden [non-essere] che è essenziale, e aggiunge… non è un meden, ma un den, che in greco è un neologismo. Non ha detto hen [uno]: figuriamoci se avesse detto on [essere]. Cosa dice invece? Dice questo dell’idealismo, rispondendo alla domanda che ho fatto oggi: Niente, forse? – non forse niente, ma non niente” (pp. 63-4)[xv].
Ma cosa è un den, ammesso che sia qualcosa?
Democrito nel famoso frammento 156 (nell’edizione canonica
Diels-Kranz) ha introdotto enigmaticamente proprio qualcosa che non
sarebbe caduto in alcun lato della partizione tra uno e vuoto. Ha
coniato il termine den che ha provocato non pochi grattacapi ai
filologi classici, trattandosi di una parola costruita impropriamente
in greco (“una parola coniata”, dice Lacan). La parola deriva dalla
negazione di hen: uno. Hen può essere negato in greco in due modi: o come ouden (negazione oggettiva) o come meden (negazione
soggettiva), entrambi significando “niente” (sebbene con diverse
sfumature): più precisamente “non uno” o “neanche uno”. Den, questo
termine inappropriato, significa qualcosa come “meno di uno, ma non
ancora nulla”, o, forzando un po’, “meno di niente”. Rappresenta quindi
una questione complessa per il traduttore. Diels tradusse questa parola
curiosa con das Ichts (Das Nichts existiert ebenso sehr als das Ichts)[xvi].
La traduzione inglese di W. I. Matson ha proposto “hing”, opposta a
alla parola “thing”: “Hing is no more real than nothing” oppure “Hing
exists no more than nothing”[xvii]. Una resa più accurata
sarebbe stata “othing”, sottraendolo dal “nothing”. Barbara Cassin,
formidabile studiosa francese, ha proposto nella sua traduzione ien – non rien, niente, ma ien, precisamente “non niente”, come dice Lacan (o in alternativa iun, non uno).
La peculiare fusione dell’ultima lettera
della negazione con la positività negata ci obbliga a interpretare
l’atomo non solo come non affermazione o posizione, essere o uno, ma
ancor di più non essendo neanche la loro negazione, mancando della
consistenza di “niente” o “rien”: l’atomo è letteralmente meno che niente, lo si deve chiamare “ien”… Den è
il nome dell’atomo nel momento in cui non si può mescolare con
l’essere dell’ontologia e neanche considerarlo come corpo elementare
della fisica[xviii].
Ma allora cosa è questa entità, il den? Non è qualcosa, non è
il nulla, non è essere, non uno, non esiste positivamente, non è
assente, non contabile – non è precisamente l’oggetto di cui siamo alla
ricerca? Qual è il nome del den – l’objet a?
Questo è il punto che Lacan mette in evidenza nella nostra citazione,
nonostante non possa davvero sfuggire alla negazione: “Niente, forse? –
non forse niente, ma non niente”. Non è una negazione, ma piuttosto come la decapitazione del niente: tagliandogli la testa, trasformandolo in Ichs, hing, othing, ien. O
per usare un termine di Badiou: non negazione, ma sottrazione. Non è
una sottrazione dall’essere che introduce un vuoto e neanche il resto di
una negazione dell’essere che non è riuscita del tutto, ma piuttosto –
è questo è l’incredibile speculativo – una sottrazione dal non-essere,
una negatività che rimuove se stessa. Vi è come una mancata doppia
negazione, un errore nell’hegeliana negazione della negazione. Qualcosa
emerge in questa imposizione e fallimento della negatività, ma non è
davvero qualcosa, non ha positività né identità: e tuttavia questo è
proprio l’essere dell’atomo.
Heinz Wismann, uno dei più grandi specialisti di Democrito, non esita a tirare questa conclusione:
In realtà il “reale” evocato dal termine rudimentale (den) creato da Democrito deve la sua esistenza solo alla rimozione della negazione (me) che è intrinseca sia alla realtà concettuale che lessicale del “niente” (meden). L’essere, si potrebbe affermare, è soltanto uno stato di privazione del non-essere [l’être … n’est qu’un état privatif du non-être]; la sua positività è un’esca. E’ un tipo di sottrazione operata sul niente [soustraction opérée à partir de rien, sottrazione eseguita a partire dal niente]: l’atomo può essere pensato come l’avatar del vuoto [avatar du vide]”[xix].
Da qui il titolo del libro di Wismann, Les avatars du vide). Se l’atomo è den, allora per Democrito non può avere peso, non vi può essere alcuna caduta parallela né il problema stesso del clinamen. E’
stato solo Epicuro in realtà ad attribuire un peso agli atomi, essendo
in questo involontariamente fedele all’ontologia aristotelica,
incapace di concepire che l’atomo non fosse un corpo. Gli atomi non
sono corpi, ma mere traiettorie che producono corpi. Sembra esservi
come una conferma in anticipo del dilemma presentato dai fisici atomici
moderni: o il corpo o l’onda, non si possono avere entrambi; c’è una
parallasse. E se Democrito, inconsapevole di tutto questo, ha optato
per le onde (il rhysmos era per lui la proprietà fondamentale degli atomi), l’ontologia aristotelica, invece, compreso Epicuro, ha optato per i corpi[xx].
Ne è seguita una certa ontologia e fisica. – Non sorprende dunque che
Platone, così ci racconta Diogene Laerzio, voleva dar fuoco a tutti gli
scritti di Democrito (ma erano troppi), come non sorprende che,
arrivato ad Atene, nessuno lo riconoscesse.
Il den è come uno scandalo ontologico. Lacan ci torna sopra ne Lo stordito:
Democrito ci ha dato in dono l’atomos, il reale radicale, con l’elisione del “no”, me, ma in una modalità la cui domanda richiede la nostra attenzione. In questo modo il den è
stato il passeggero clandestino il cui guscio adesso forma il nostro
destino. In questo non è stato più materialista di chiunque abbia
qualcosa di sensato [n’importe qui de sensé], ad esempio me o Marx” (Autres écrits, Paris: Seuil 2001, p. 494).
E per aggiungere un riferimento da un’area completamente diversa:
quando a Samuel Beckett veniva chiesto insistentemente conto delle
implicazioni filosofiche del suo lavoro, scrisse (in una lettera del
1967): “Se fossi nella non-invidiabile posizione di dover studiare le
mie opere, il mio punto di partenza sarebbe “Nulla [Naught] è più reale…”[xxi].
Così Beckett stesso propone il frammento 156 di Democrito il nucleo
(uno dei due nuclei) della sua intera opera. Se ne è servito spesso, in
varie occasioni, e nelle sue tarde opere ha inventato un altro nome per
esso: l’ultimo non-annullabile (espressione che porta in realtà a una
direzione sbagliata, indicando qualcosa dell’essere che non può essere
annullato, laddove den è letteralmente “meno che niente”, come recita il libro di Žižek [Less than Nothing, n. d. .t.]: una sottrazione dal niente).
Il den condensa la nostra questione al minimo. Ciò che
sorprende in particolare è la sua intrinseca connessione con il racconto
hegeliano, che ho considerato come la migliore spiegazione
dell’impatto filosofico dell’atomismo, secondo la divisione
discriminante uno/vuoto, essere/non-essere. Il den emerge
letteralmente nello stesso luogo, nella stessa divisione, nel mezzo
della rottura che Hegel ha considerato come lo spettacolare fondamento.
Il den è co-estensivo e allo stesso tempo incommensurabile
rispetto “all’uno”, l’uno che gli atomi introducono come conto
dell’essere, e anche rispetto al vuoto in quanto rovescio dell’uno
spaccato. Si potrebbe dire che si tratti della metà scomparsa
dell’atomo hegeliano, l’uno che era già spaccato nella metà presente e
in quella scomparsa, con la co-appartenenza di essere e non essere,
dell’uno e del vuoto come matrice dialettica – ma il den è la
metà scomparsa di questa unità spaccata in se stessa, esattamente dal
non essere del tutto scomparsa e neanche essere del tutto qui, dal non
essere in alcuna relazione dialettica con la rottura fondativa
dell’atomo. E’ il puro sovrappiù della rottura, una (non) entità che
fugge la divisione non essendo ancora da qualche altra parte,
risiedendo nella divisione in sé. Non una presenza originaria o
un’assenza, non un principio fondativo, una mera hing (o othing) derivata dalla rottura (in uno/vuoto, essere/non-essere) e irriducibile ad essa.
Il den può essere pensato
soltanto dopo l’uno, come l’operazione che sottrae e non come una
provenienza, troncata o meno. Non può essere soggetto alla dialettica
proprio perché non si tratta di una negazione della negazione, assorbita
e rimossa, ma una sottrazione della stessa negazione… Non è
un’entrata, ma un’uscita: una via di fuga che incespica l’origine e
svia l’intera storia della filosofia… (Cassin, pp. 83-4).
Ecco la materia cruciale della questione (in senso figurato e letterale): il den non
giunge del tutto dopo “l’uno”, ma nello stessa scatola dell’uno, senza
per questo diventare un due o uno zero. Rappresenta l’altra faccia
dell’uno, essendo né il niente della sua negazione e neanche la
molteplicità della sua proliferazione. Si sottrae al conteggio e
tuttavia dipende dall’uno: è il taglio del significante ai suoi minimi
termini.
La questione del clinamen è forse indicativa a questo punto. Abbiamo visto che Hegel ha parlato con disprezzo del clinamen, affiancandosi
ai numerosi detrattori di esso, apprezzando allo stesso tempo la
profonda intuizione della rottura nell’uno e nel vuoto come costitutiva
dello stesso atomo: un nucleo per la sostanza, il soggetto, la
negatività, l’essere, il niente, la dialettica. D’altra parte Deleuze ha
dato grande risalto al clinamen, essenzialmente come
modo per evitare l’uno e il vuoto: esso sarebbe un movimento che
permette di aggirare questo taglio, la negatività, la mancanza ecc…,
nascosto nell’atomo, insieme a tutte le trappole della dialettica
hegeliana, e questo aggiramento spiana la strada per la positività del
divenire. Sembra quindi che siamo come parallasse quando consideriamo
l’atomo: o si vede la rottura, l’uno/il vuoto ecc…, come ha visto Hegel,
o si vede il clinamen, la deviazione interna, la torsione, la
declinazione, il divenire immanente non premesso al taglio della
negatività, che poggia sulla deviazione come il divenire senza un vuoto.
E’ come se vedere una parte precludesse la possibilità di vedere
l’altra: non si può trovare un compromesso o una sintesi tra le due.
Riprendendo la coda della felice invenzione democritea del den, potremmo forse evitare questa parallasse: è solo sulla base dell’uno e della spaccatura che il den può emergere, come sottrazione della negatività, non la sua esorcizzazione. In questo modo si evita di porre il clinamen come
“eccezione fondativa” (Badiou) o virtualità universalizzata (Deleuze).
Si possono sostenere così entrambe le parti, l’uno e il den, nella
loro autentica incommensurabilità, come il vero spacco dell’essere, il
luogo dove sia l’essere che il pensiero emergono e si confondono.
Produce un nuovo oggetto ancora nascosto dall’alba della filosofia, come
suo passeggero clandestino: un oggetto senza identità e che non fonda
alcuna ontologia. Questo è forse il punto in cui la psicoanalisi , come
abbiamo cercato di fare con i miei amici di Lubiana, debba essere
compresa come l’erede alla dialettica hegeliana, non il suo abbandono,
ma anche immaginandola come qualcosa che emerge al suo interno e che non
può essere spiegata nei suoi termini.
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