Le rivolte dei popoli, diverse nelle cause peculiari, sono tuttavia
collegate da un elemento che le accomuna: la netta separazione tra
questi movimenti di massa e i partiti, grandi assenti dalla scena del
cambiamento. La loro estraneità alimenta il rancore di popolazioni oggi
più consapevoli e informate
Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci
avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale.
Quasi una disarticolata e spontanea risposta dei popoli alla
globalizzazione dei mercati e dei capitali. Ricordiamolo, il millennio
scorso – salvo le ombre anticipatrici della guerra nei Balcani e
dell’invasione americana dell’Irak – sembrava voler chiudere con una
solenne pacificazione, il ’900: il secolo più sanguinoso dell’età
contemporanea.
D’altronde, non era uscito di scena, con il crollo del blocco
sovietico, il Grande Nemico dell’Occidente? Non era stata sanata, con la
riunificazione delle due Germanie, la più grave ferita lasciata
dall’ultima guerra nel cuore dell’Europa? Non si avviava il Vecchio
Continente all’agognata unificazione e alla creazione di una moneta
comune? E non apparivano ormai tutte le società del pianeta – perfino la
Cina comunista, perfino il Vietnam, simbolo dell’epica antimperialista
dell XX secolo – affratellate sotto l’ombrello uniforme del “consenso di
Washington”?
Per un momento, l’americanizzazione del mondo è apparsa un fatto
compiuto. Con significativa coerenza ideologica, ma con troppa fretta e
somma ingenuità, qualcuno proclamò la “fine della storia”. Sappiamo che
la grande rete della pacificazione si è smagliata ben presto. Lo stesso
Novecento, come si ricordava, prima di uscire dal calendario ha lasciato
un’orrida scia di sangue nell’Europa balcanica. Sappiamo che con il
nuovo millennio il conflitto ha assunto le forme fanatiche del
terrorismo religioso con l’attacco dell’ 11 settembre alle Torri
Gemelle. E si è potuto subito constatare che la storia non era ancora
finita. Ma oggi la pentola mondiale ribolle per l’alimentazione di altri
fuochi. Certo, non si può commettere l’errore di ricondurre tutti gli
eventi che oggi vanno esplodendo un giorno dopo l’altro, a poche e
uniformi cause. Non vale soltanto per gran parte del popolo dell’Egitto,
trascinato dal moto delle “primavere arabe” e mai rassegnato a subire
il calco autoritario e oppressivo dell’islamismo. Non vale per le folle
in tumulto del Brasile, che hanno rovesciato per le strade i vecchi
idoli del calcio.
Né per i giovani turchi di piazza Taksim, anima di una rivolta
nazionale innescata dalla difesa del bene comune di un parco. Anche in
Europa i movimenti e le lotte che l’hanno attraversato in questi ultimi
anni avevano diverse cause e ragioni. Dalle lotte dei francesi contro la
riforma delle pensioni del governo Sarkozy, alle proteste degli
studenti inglesi contro l’aumento delle rette universitarie, dalle
diverse ondate del movimento degli studenti e degli insegnanti italiani,
alle prolungate proteste dei giovani spagnoli che hanno occupato le
piazze di Madrid e Barcellona. L’Italia meriterebbe una considerazione a
sé, per la varietà dei conflitti sociali: dai ricercatori universitari
agli operai arrampicati sulle gru, dalle manifestazioni di massa delle
donne alla straordinaria campagna popolare contro la privatizzazione
dell’acqua. Certo, la crisi economico-finanziaria ha funzionato da
grande detonatore. E non solo nel Vecchio Continente, dove la Grecia è
stata squassata dalle proteste disperate della sua popolazione
repentinamente immiserita, ma perfino negli Usa, dove il movimento
Occupy Wall Street ha testimoniato la colossale iniquità su cui si regge
il modello sociale americano.
Dunque, dobbiamo concludere che cause molteplici e non collegabili
fra loro oggi agitano le nostre società? Niente accomuna questa
straordinaria novità storica: il fatto che le lotte non sono limitate
all’Europa, ma investono ormai tutti i continenti, pullulano a migliaia
nella Cina della Grande Trasformazione, nelle campagne dell’India, in
America Latina, nell’Africa settentrionale? In realtà , a osservare da
vicino gli eventi, alcuni elementi comuni saltano agli occhi. Il primo
fra tutti è che la grandissima parte di questi moti non sono organizzati
da partiti politici. Certo, ci sono qua e là i sindacati, quando sono
in campo i conflitti operai. Ma i partiti sono assenti. Mancano dalla
scena allestita dai movimenti le figure che dovrebbero trasformare le
ragioni della protesta in azione politica dentro lo stato. Com’è
evidente, soprattutto in Occidente, questo non accade perché i partiti
sono diventati, indistintamente, stato. Essi sono sempre meno
rappresentanti degli interessi collettivi, e sempre più controparte.
La grande ritirata dei partiti di massa da una rappresentanza
effettiva degli interessi popolari ha finito col porre non uno, ma due
distinti poteri sulle spalle dei ceti popolari: il dominio dei gruppi
economico-finanziari e i partiti-stato. Da tempo questi ultimi sono
impegnati, con capacità mediatoria che varia da caso a caso, a
trasformare il potere mondiale del sopramondo economico finanziario in
agende politiche nazionali.
Con effetti stridenti sempre più noti ed evidenti. Mentre sono
impegnati a liberalizzare e a privatizzare, a piegare tutti gli spazi
della vita umana e sociale a regole profittevoli di mercato, a scatenare
insonni campagne pubblicitarie sulla competizione e sul merito, a
rendere “contendibili” le imprese – come suona le retorica predatoria
della finanza – flessibile il lavoro, essi marciano in direzione
inversa. I partiti si statalizzano, non premiano il merito ma le
clientele, non attivano la competizione, ma più spesso gli accordi
segreti, non sono “contendibili”, non adottano flessibilità, a volte
sono corrotti e collusi coi poteri criminali.
Si sono trasformati, di fatto, in chiusi oligopoli impegnati a
perpetuare il loro ruolo e potere. Questa evidente contraddizione tra
ciò che si impone alla società e si risparmia a se stessi è certo causa
non ultima del rancore che si va accumulando nel fondo dell’anima
popolare e che di tanto in tanto esplode. Eppure non è questa la grande
causa comune che noi crediamo di percepire al fondo dei moti che vanno
dilagando in ogni punto del pianeta. Il fuoco che alimenta le rivolte, a
prescindere della varietà delle occasioni locali, è una contraddizione
che ormai stride sotto gli occhi di chiunque vuole osservare. Una
conoscenza diffusa, una informazione quotidiana a scala universale di
cui si impossessano ormai masse crescenti di cittadini, confligge con
violenza contro l’opacità, la distanza, l’impenetrabilità perdurante del
potere, di tutti i poteri. Il cittadino che sa, comprende sempre di più
che le scelte operate dallo stato o dall’amministrazione locale
influenzeranno la sua vita e perciò pretende di dire la sua, vuole
partecipare alle decisioni.Egli va scoprendo, di giorno in giorno, i
diritti lungamente occultati di cui non gode. Ma a fronte della
conoscenza di cui dispone, il suo potere di influenza sulle scelte del
ceto politico è spesso nullo.
Non accade solo in Cina, dove, come ormai si dice, c’è il Wi Fi, la
connessione libera alla rete, in ogni villaggio, mentre il potere del
Partito rimane gigantesco e imperscrutabile. Ormai accade anche nei
paesi dove vige da tempo il moderno stato di diritto. In Italia i gruppi
dirigenti continuano la guerra in Afghanistan, violando la
Costituzione, in aperto disprezzo della grandissima maggioranza
dell’opinione pubblica nazionale.
Con la sensibilità delle vecchie dittature latinoamericane del ’900,
essi continuano nella fabbricazione e acquisto di armi di combattimento,
nella dilapidazione di ingenti risorse per fini di morte, mentre fanno
precipitare in condizioni umilianti le nostre scuole e università. E’
anche per questa ragione che utilizziamo qui il termine popolo. Sappiamo
bene che le moderne società industriali hanno sviluppato complesse
stratificazioni sociali.
Ma oggi, mentre vediamo sempre più limitate le sovranità nazionali,
sempre più inascoltate le richieste e le proposte che salgono dalla
società, tale regressione aggiornata all’Ottocento richiede che si torni
a parlare di popolo e di popoli. E questi popoli oggi sono stanchi.
Stanchi di non essere ascoltati, stanchi di contare sempre meno. Stanchi
di osservare l’avanzare in ogni dove di una nuova democrazia
dell’informazione, i segnali di un nuovo mondo possibile e di trovarsi
addosso inette oligarchie che paiono trascinarli nell’opaca passività
dei secoli passati.
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