sabato 13 luglio 2013

La grande ritirata dagli interessi popolari di Piero Bevilacqua, Il Manifesto


La grande ritirata dagli interessi popolari
Le rivolte dei popoli, diverse nelle cause peculiari, sono tuttavia collegate da un elemento che le accomuna: la netta separazione tra questi movimenti di massa e i partiti, grandi assenti dalla scena del cambiamento. La loro estraneità alimenta il rancore di popolazioni oggi più consapevoli e informate
Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale. Quasi una disarticolata e spontanea risposta dei popoli alla globalizzazione dei mercati e dei capitali. Ricordiamolo, il millennio scorso – salvo le ombre anticipatrici della guerra nei Balcani e dell’invasione americana dell’Irak – sembrava voler chiudere con una solenne pacificazione, il ’900: il secolo più sanguinoso dell’età contemporanea.
D’altronde, non era uscito di scena, con il crollo del blocco sovietico, il Grande Nemico dell’Occidente? Non era stata sanata, con la riunificazione delle due Germanie, la più grave ferita lasciata dall’ultima guerra nel cuore dell’Europa? Non si avviava il Vecchio Continente all’agognata unificazione e alla creazione di una moneta comune? E non apparivano ormai tutte le società del pianeta – perfino la Cina comunista, perfino il Vietnam, simbolo dell’epica antimperialista dell XX secolo – affratellate sotto l’ombrello uniforme del “consenso di Washington”?
Per un momento, l’americanizzazione del mondo è apparsa un fatto compiuto. Con significativa coerenza ideologica, ma con troppa fretta e somma ingenuità, qualcuno proclamò la “fine della storia”. Sappiamo che la grande rete della pacificazione si è smagliata ben presto. Lo stesso Novecento, come si ricordava, prima di uscire dal calendario ha lasciato un’orrida scia di sangue nell’Europa balcanica. Sappiamo che con il nuovo millennio il conflitto ha assunto le forme fanatiche del terrorismo religioso con l’attacco dell’ 11 settembre alle Torri Gemelle. E si è potuto subito constatare che la storia non era ancora finita. Ma oggi la pentola mondiale ribolle per l’alimentazione di altri fuochi. Certo, non si può commettere l’errore di ricondurre tutti gli eventi che oggi vanno esplodendo un giorno dopo l’altro, a poche e uniformi cause. Non vale soltanto per gran parte del popolo dell’Egitto, trascinato dal moto delle “primavere arabe” e mai rassegnato a subire il calco autoritario e oppressivo dell’islamismo. Non vale per le folle in tumulto del Brasile, che hanno rovesciato per le strade i vecchi idoli del calcio.
Né per i giovani turchi di piazza Taksim, anima di una rivolta nazionale innescata dalla difesa del bene comune di un parco. Anche in Europa i movimenti e le lotte che l’hanno attraversato in questi ultimi anni avevano diverse cause e ragioni. Dalle lotte dei francesi contro la riforma delle pensioni del governo Sarkozy, alle proteste degli studenti inglesi contro l’aumento delle rette universitarie, dalle diverse ondate del movimento degli studenti e degli insegnanti italiani, alle prolungate proteste dei giovani spagnoli che hanno occupato le piazze di Madrid e Barcellona. L’Italia meriterebbe una considerazione a sé, per la varietà dei conflitti sociali: dai ricercatori universitari agli operai arrampicati sulle gru, dalle manifestazioni di massa delle donne alla straordinaria campagna popolare contro la privatizzazione dell’acqua. Certo, la crisi economico-finanziaria ha funzionato da grande detonatore. E non solo nel Vecchio Continente, dove la Grecia è stata squassata dalle proteste disperate della sua popolazione repentinamente immiserita, ma perfino negli Usa, dove il movimento Occupy Wall Street ha testimoniato la colossale iniquità su cui si regge il modello sociale americano.
Dunque, dobbiamo concludere che cause molteplici e non collegabili fra loro oggi agitano le nostre società? Niente accomuna questa straordinaria novità storica: il fatto che le lotte non sono limitate all’Europa, ma investono ormai tutti i continenti, pullulano a migliaia nella Cina della Grande Trasformazione, nelle campagne dell’India, in America Latina, nell’Africa settentrionale? In realtà , a osservare da vicino gli eventi, alcuni elementi comuni saltano agli occhi. Il primo fra tutti è che la grandissima parte di questi moti non sono organizzati da partiti politici. Certo, ci sono qua e là i sindacati, quando sono in campo i conflitti operai. Ma i partiti sono assenti. Mancano dalla scena allestita dai movimenti le figure che dovrebbero trasformare le ragioni della protesta in azione politica dentro lo stato. Com’è evidente, soprattutto in Occidente, questo non accade perché i partiti sono diventati, indistintamente, stato. Essi sono sempre meno rappresentanti degli interessi collettivi, e sempre più controparte.
La grande ritirata dei partiti di massa da una rappresentanza effettiva degli interessi popolari ha finito col porre non uno, ma due distinti poteri sulle spalle dei ceti popolari: il dominio dei gruppi economico-finanziari e i partiti-stato. Da tempo questi ultimi sono impegnati, con capacità mediatoria che varia da caso a caso, a trasformare il potere mondiale del sopramondo economico finanziario in agende politiche nazionali.
Con effetti stridenti sempre più noti ed evidenti. Mentre sono impegnati a liberalizzare e a privatizzare, a piegare tutti gli spazi della vita umana e sociale a regole profittevoli di mercato, a scatenare insonni campagne pubblicitarie sulla competizione e sul merito, a rendere “contendibili” le imprese – come suona le retorica predatoria della finanza – flessibile il lavoro, essi marciano in direzione inversa. I partiti si statalizzano, non premiano il merito ma le clientele, non attivano la competizione, ma più spesso gli accordi segreti, non sono “contendibili”, non adottano flessibilità, a volte sono corrotti e collusi coi poteri criminali.
Si sono trasformati, di fatto, in chiusi oligopoli impegnati a perpetuare il loro ruolo e potere. Questa evidente contraddizione tra ciò che si impone alla società e si risparmia a se stessi è certo causa non ultima del rancore che si va accumulando nel fondo dell’anima popolare e che di tanto in tanto esplode. Eppure non è questa la grande causa comune che noi crediamo di percepire al fondo dei moti che vanno dilagando in ogni punto del pianeta. Il fuoco che alimenta le rivolte, a prescindere della varietà delle occasioni locali, è una contraddizione che ormai stride sotto gli occhi di chiunque vuole osservare. Una conoscenza diffusa, una informazione quotidiana a scala universale di cui si impossessano ormai masse crescenti di cittadini, confligge con violenza contro l’opacità, la distanza, l’impenetrabilità perdurante del potere, di tutti i poteri. Il cittadino che sa, comprende sempre di più che le scelte operate dallo stato o dall’amministrazione locale influenzeranno la sua vita e perciò pretende di dire la sua, vuole partecipare alle decisioni.Egli va scoprendo, di giorno in giorno, i diritti lungamente occultati di cui non gode. Ma a fronte della conoscenza di cui dispone, il suo potere di influenza sulle scelte del ceto politico è spesso nullo.
Non accade solo in Cina, dove, come ormai si dice, c’è il Wi Fi, la connessione libera alla rete, in ogni villaggio, mentre il potere del Partito rimane gigantesco e imperscrutabile. Ormai accade anche nei paesi dove vige da tempo il moderno stato di diritto. In Italia i gruppi dirigenti continuano la guerra in Afghanistan, violando la Costituzione, in aperto disprezzo della grandissima maggioranza dell’opinione pubblica nazionale.
Con la sensibilità delle vecchie dittature latinoamericane del ’900, essi continuano nella fabbricazione e acquisto di armi di combattimento, nella dilapidazione di ingenti risorse per fini di morte, mentre fanno precipitare in condizioni umilianti le nostre scuole e università. E’ anche per questa ragione che utilizziamo qui il termine popolo. Sappiamo bene che le moderne società industriali hanno sviluppato complesse stratificazioni sociali.
Ma oggi, mentre vediamo sempre più limitate le sovranità nazionali, sempre più inascoltate le richieste e le proposte che salgono dalla società, tale regressione aggiornata all’Ottocento richiede che si torni a parlare di popolo e di popoli. E questi popoli oggi sono stanchi. Stanchi di non essere ascoltati, stanchi di contare sempre meno. Stanchi di osservare l’avanzare in ogni dove di una nuova democrazia dell’informazione, i segnali di un nuovo mondo possibile e di trovarsi addosso inette oligarchie che paiono trascinarli nell’opaca passività dei secoli passati.

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