I “giovani turchi” pidini si sono rapidamente
trasformati in “vecchi ottomani”. Nel senso dell’aver sviluppato, con le
otto mani che gli sono spuntate, consistenti doti prensili (di cariche e
visibilità), come i loro peggiori maestri.
Prevalentemente il Massimo d’Alema,
sull’antipatico andante e universalmente impopolare (tranne che presso i
residui quadri postcomunisti, i quali lo venerano da estremo baluardo
per la sopravvivenza delle nomenclature partitiche e relativi
privilegi). Come sull’antipatico andante sono i rapidamente invecchiati Andrea Orlando (quello che fotocopiava i progetti di riforma della magistratura con il copy dell’avvocato Ghedini), Stefano Fassina (quello
che non avrebbe votato come presidente della repubblica Stefano Rodotà
perché suo cognato, impiegato alle poste, non lo conosce…) e Matteo Orfini, quello che nega di aver dato al Gentiloni del “faccia di m.” ma conferma di averlo senz’altro definito “uno sciacallo”.
Raffinato polemista. Un bel trio di personaggi, che studiavano da
ministro già durante lo svezzamento e che nell’attesa hanno assunto il
colorito lattiginoso di un geco cresciuto negli anfratti di qualche
caverna (la loro erano i corridoi in penombra del partito).
Particolarmente
giovanile l’Orfini, con quell’aria da comparsa messicana in un western
spaghetti girato sulla Sila, che inserisce una nota truce nella
tipologia umanoide da tremuli lunari. E forse per questo è anche il più
esplicito quando si scaglia, scacciacani caricate a salve alla mano,
contro chi osa criticare l’imbarazzante sottomissione vassallatica –
peggio, la sconcertante pagliacciata – con cui i pidini hanno si sono accodati all’Aventino in burletta del Pdl a sostegno del Gran Capo, del supremo Boss offeso dalla Cassazione perché osa processarlo regolarmente.
Vicenda
peggio che da basso impero; la quale – tuttavia – è stracolma di
implicazioni ermeneutiche, ci fornisce indicazioni preziose sullo stato
dell’arte della compagnia di giro chiamata “classe di governo”. Davanti
all’esposizione della vera natura sotto stress del Cavaliere Berlusconi,
qualora contraddetto nelle sue pretese: qualcosa tra il vitalismo
animale e il furore barbarico. La reazione dei suoi parlamentari è
facilmente comprensibile: gente senz’arte né parte, beneficiata dalla
regalia da sogno di un seggio parlamentare, è pienamente consapevole a
chi deve i propri immeritati vantaggi; sa bene che se casca il capo,
loro gli vanno dietro. Per cui obbedisce al proprio datore di lavoro
senza fiatare, facendosi stuoino.
Altrettanto chiaro è il riflesso condizionato dei vertici post comunisti e/o ex democristi del Pd:
dopo decenni di collusioni spartitorie ormai pensano il ceto politico
come un blocco unitario, che se ne togli una parte tutto il resto
crolla. Ma i nostri turchi ottomani? Qui ci troviamo davanti a uno
scenario di tipo etologico, alla Konrad Lorenz: essendo quarantenni, il berlusconismo è l’habitat in cui sono cresciuti; lì si sono formati a quella cosa che chiamano “politica”
(in effetti, il mercato delle vacche; ma recandosi al Foro Boario in
autoblu). Per cui difendendo l’indifendibile/ineleggibile riccastro,
dominatore degli immaginari mediatici e dei paradigmi comunicativi degli
ultimi vent’anni, tutelano l’unico spazio vitale in cui possono
prosperare. La nicchia di sopravvivenza dell’homo politicus (un primate che vive nelle savane attorno al Parlamento), che potrebbe essere messa a repentaglio dall’improvviso arrivo dell’homo sapiens (una razza evoluta che considera la politica italiana roba paleolitica).
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