Il Bollettino economico della Banca d’Italia da poco uscito permette un utile raffronto. Quello tra il picco della prima crisi della fine del 2008-inizio 2009 trasmessa dal Continente americano e quella odierna. Riassumibile in un drammatico: “stiamo come allora, stiamo peggio di allora”.
Che stiamo come allora lo si vede da svariate affermazioni e grafici contenuti nel Bollettino.
A cominciare dagli investimenti delle imprese: nel primo trimestre 2013 siamo a -3,3% (-3,9% nelle costruzioni), così male solo a fine 2008.
Poi è necessario guardare il grafico della produzione industriale: è al livello, minimo, del picco negativo della primavera del 2009 (seguite la linea blu e notate i cerchi arancioni).
Per chiudere con un dato che preoccupa più di tutti, quello sull’export: per la prima volta dal 2009 la crescita trimestrale è negativa, -1,9%. Le cause? Tutte europee: il -1% nell’export italiano di beni è tutto dovuto alla carenza di domanda interna nei paesi dell’Unione. La differenza con gli ultimi dati più recenti? Che stavolta la domanda, che continua a tirare, dal resto del mondo non euro non è sufficiente a compensare gli effetti dell’idiozia delle politiche restrittive europee sulla domanda interna all’area europea. Insomma i giapponesi continuano a domandare i nostri beni, ma i francesi ne domandano così pochi che l’effetto negativo dei secondi è per la prima volta superiore a quello positivo dei primi.
Ecco che il quadro si chiude: questa crisi, a differenza della prima, non ci è più imposta dall’esterno ma da noi stessi; vittime ieri, sado-maso oggi.
Eppure, incredibile, non stiamo come allora: stiamo peggio di allora.
Lo dimostrano alcuni dati incontrovertibili, quelli sull’occupazione e sul credito.
Guardatela l’occupazione, ben più bassa che allora (di nuovo, i cerchi arancioni). Come è possibile? Non era forse più grave il picco recessivo del 2009? Come possiamo avere meno occupati di allora? Ancora una volta il Bollettino ci fornisce informazioni significative al riguardo. L’occupazione ovviamente cresce con le assunzioni e diminuisce con le cessazioni di rapporti. Così, analogamente, decresce quando le assunzioni sono superate dalle cessazioni. Ovviamente in ambedue le recessioni, quella odierna e quella del 2008-2009, sono aumentate le cessazioni e diminuite le assunzioni, ma, ed ecco la spiegazione, oggi, dice la Banca d’Italia che “il calo sarebbe dovuto più ad una flessione delle assunzioni che ad un aumento delle cessazioni”. Ecco la differenza col 2009: certo ci sono sempre cessazioni, ma le imprese hanno smesso più di allora di assumere.
Le maggiori cessazioni ci parlano dell’urgenza dell’oggi, le minori assunzioni del pessimismo sul domani. Un segno incontrovertibile di una sfiducia nel futuro che caratterizza questa crisi più di quella di allora.
E a parlare di fiducia non può sfuggire l’altro drammatico dato, quello sul credito. Anche qui, come per la domanda di lavoro, è la domanda di credito che manca, più di allora.
Guardate al grafico di sopra, quello del tasso di crescita dei prestiti bancari: è entrato in zona di crescita negativa, per la prima volta, in questa crisi. Malgrado i tassi d’interesse (grafico sotto) non abbiano conosciuto una dinamica così negativa come allora nel 2008-2009. Segno inequivocabile che sono le imprese a non domandare malgrado un’offerta in parte disponibile. Segno inequivocabile di un crollo nella fiducia nel futuro rispetto ad allora da parte delle imprese.
Ecco dove siamo, ecco cosa dobbiamo combattere.
Come?
La soluzione della Banca d’Italia, come ormai accade da anni, non è all’altezza della sua analisi: “Il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica è condizione necessaria per il contenimento degli spread.” Imbarazzante.
Per fortuna che non ci dicono che meno domanda pubblica è condizione “sufficiente” per risolvere la crisi: di questo se ne sono resi conto anche loro. Ma il taglio della domanda pubblica e l’aumento delle tasse non solo non è condizione sufficiente, non è nemmeno necessaria, anzi!
Che non sia necessaria ce lo dice lo stesso Bollettino quando ci ricorda che siamo, in parte, anche se sempre meno, salvati dal resto del mondo, dal fuori Europa, che tira. E come mai tira? Come mai cresce il nostro export verso il Giappone, per esempio? Perché il Giappone ha voluto tirarsi fuori dalle secche della crisi (o sta apparentemente riuscendo a uscirne) grazie allo stimolo alla domanda interna dall’unico attore che può farlo in un momento di recessione come questa: il settore pubblico. Con tanto di esultante reazione dei mercati azionari giapponesi. Insomma, siamo salvati … dalla spesa pubblica giapponese.
Ma non basta. Bisogna salvarci con la nostra spesa pubblica, quella buona, quella fatta di competenza e acquisti mirati, che generano reddito ed occupazione nel settore privato.
L’alternativa?
Siamo vicini ad una crisi europea senza se e senza ma che rischia di spazzare via l’euro e con esso la geopolitica europea e dunque la forza contrattuale del nostro Continente al tavolo delle negoziazioni mondiali. Ovvero i prossimi 30 anni di sviluppo. Quando vorremo capirlo, forse, sarà troppo tardi. Ma salvarci da soli, non mettendoci nelle mani del resto del mondo, è alla nostra portata.
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