Il cantautore racconta come nacque la suite: 100mila ragazzi e 50mila bandiere rosse. Non so se siano felici oggi, ma sono sicuro che ancora si muovono
Una cosa divertente, per respirare, fu andare nella ferramenta vicino al liceo. Sembrava proprio che volessero farci sgombrare, dopo una settimana di sacchi a pelo, di discussioni feroci con i docenti incattiviti (tranne i migliori, i veri maestri), di schitarrate notturne, di genitori borghesi in apprensione e di ritorni a casa veloci e timidi, giusto una doccia e ciao, di amori sbocciati ed altri rovinati nel fervore della esegesi puntuale del comunismo.
Sembrava proprio che volessero chiamare la polizia per ristabilire l'ordine nelle nostre giovani menti critiche e agguerrite prima che riuscissimo ad organizzare la nostra grande manifestazione. Così io e Maurizio avevamo avuto il compito, previa colletta miserabile, di andare a comprare quindici metri di catena robusta, pesantissima, e un tot di lucchetti per incatenarci alle sedie dell'aula magna all'arrivo delle forze del disordine, come dicevamo noi. Altro ordine implicito era quello di buttare via le chiavi. Ma non eravamo abituati ad obbedire, neanche a noi stessi, stavamo cercando di imparare il contrario e così, per fortuna, quelle chiavi non le abbiamo buttate via e oggi siamo liberi.
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Il professore di filosofia non capiva un cazzo ma noi passavamo le notti a studiare per sconfessarlo la mattina, e quando lui ci disse che le manifestazioni di piazza non avevano né avrebbero mai spostato di un millimetro il corso della storia lo invitammo, lo invitammo a venire con noi e lui accettò. E rimase stupefatto. Con cuore un po' tremante ed ansia non detta ci avviammo dal liceo verso la piazza, la nostra grande piazza bolognese, la madre di tutte le piazze. Capimmo subito come sarebbe andata perché già da cinquecento metri prima ci si doveva fermare, si doveva aspettare, non c'era posto. A diciassett'anni si era riusciti a organizzare una mattina strepitosa. Ero magro allora: mi sono infilato di qua e di là e sono riuscito ad arrivare su uno dei gradini più alti della scalinata di San Petronio ed ho visto: ho visto centomila ragazzi della mia età, e cinquantamila bandiere rosse sventolare in un bel cielo azzurro.
Oggi tutto questo suona enfatico e retrò ma in quel momento io ho capito tutto quello che avevo studiato: l'agorà non era più un concetto astratto, Marx non era più un simpatico vecchietto con la barba troppo lunga, la voglia di fare a pugni col mondo non era più solo un film di Marco Bellocchio. Era tutto lì, davanti a me, vivo e presente, ed era anche la mia insoddisfazione critica che lo aveva costruito. L'intelligenza logica che si salda a quella emotiva: solo così si capisce il mondo, si impara ad amarlo, a non dimenticarlo mai e a capire anche che se ne può fare a meno per un mondo futuro, migliore e possibile. Un'inquadratura che vale davvero una vita.
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Francamente non so dire come sia successo. Avevo scritto delle belle musiche per uno spettacolo teatrale che, tanto per cambiare, non andò in scena. Avevo letto un bel testo di Peter Weiss, La cantata di un fantoccio lusitano sul colonialismo portoghese. Avevo visto un film jugoslavo sugli zingari che Fantozzi avrebbe trattato molto peggio della Corazzata Potëmkin. Giravo per la mia piccolissima casa con la chitarra a tracolla e un gatto, Lambrusco, che voleva giocare con me a palla e non mi lasciava 'lavorare'. Abituato alle mie rigorose strofe brasseniane, almeno cinque, con variazioni e ritornelli, non riuscivo ad amare le composizioni da un minuto, un minuto e mezzo che mi venivano. Non so come successe ma ad un certo punto mi tornò in mente un gioco che mi avevano regalato da bambino, un gioco semplice ma interessante, una prova di intelligenza, allora, che ora diventava per me un gioco di intelligenza emotiva: c'erano dei pezzi, dei pezzi piccoli o brevi, di per sé insignificanti, che presupponevano ed aspettavano un posto, un senso, in un disegno più grande.
Tuttosembrava molto misero, ma quando riuscivi a sistemare ogni tassello, il disegno finale era di una bellezza sorprendente, di una novità clamorosa.
Se mi era riuscito da piccolo, e sempre mi aveva lasciato un piacevole senso di spaesamento, avrebbe potuto riuscirmi anche da (quasi) grande.
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Quando ho sistemato l'ultima lenticchia del puzzle sono andato a cercare degli amici nel Collettivo Musicisti Bolognesi che avevo contribuito a fondare. Per formalizzare il prezzo dei concerti si calcolavano i chilometri ed il costo della benzina o del gasolio, in caso di furgone. Ma volevo della musica, ad ogni costo, basta con le sole chitarre, e musica ho trovato in questo album, «Ho visto anche degli zingari felici», che è costato mesi di prove in garage amicali e che non ha finito ancora di vivere. Tutto scritto da me, ma ognuno che aggiungeva un'idea, che dava un suggerimento, coinvolto dalla collettività esplicita della storia.
Non posso non ricordare il grande chitarrista Roberto Soldati (oggi ordinario di Fisica all'università) e la sua passione nel far cascare note nelle mie partiture. Il sax. Non posso non ricordare la prima, emozionata ed emozionante prima esecuzione, ad un importante festival in Romagna. Con noi un giovane De Gregori, che non aveva niente da capire, ed il grande Leo Ferrè. Leo, già anziano, capello lungo e bianco, chiodo di pelle nera, venne con le basi e, alla fine, cantò al pianoforte delle poesie da lui musicate di Cesare Pavese. Gli tirarono delle monetine. Il nostro brano di 45 minuti lo ascoltarono, poi lo risuonammo e poi ancora e poi ancora. Non volevamo nemmeno registrarlo, ma alla fine, dopo sei mesi di repliche felici, mi convinsi, dettando, questa volta, delle condizioni precise: pagate voi ma facciamo tutto noi, nessun emissario.
Poi, come si fa coi libri, stampiamoci in copertina anche il prezzo. Piccolissime cose che non sono però stanziali, ferme e sedentarie ma fanno parte della capacità di muoversi nella vita.
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Nella piazza, la sera si giocava a frisbee, che vuol dire sostanzialmente: questo oggetto è leggero e vagante: vedi un po' se riesci a prenderlo, se la sua traiettoria è ben calcolata. Questo disco è stato il mio personal musical frisbee, lanciato, finalmente con leggerezza anche formale, verso passanti sconosciuti e disponibili al gioco, passanti che oggi sono passati ma che, al tempo, stavano passando. Molti lo hanno intercettato con simpatia, moltissimi lo hanno rilanciato. Non so se siano felici oggi, ma sono sicuro che ancora si muovono. E tutte le volte che vedo qualcuno che si china a raccogliere un frisbee andato troppo lungo e a rilanciarlo con gentilezza ai ragazzi giocanti che temevano di averlo perduto per sempre, sento una complicità non compromessa ed una promessa di futuro. Leggero, colpevole e consapevole. Oggi gli zingari non sono ben visti, abbiamo un prezzo imposto, per sopravvivere dobbiamo mimetizzarci da brave persone. Ma sul nostro sorriso non si può mentire.
*tratto da "Da una finestra sbagliata. Gli zingari felici di Claudio Lolli" a cura di Gianluca Veltri, Luciano Vanni Editore, 2006
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