lunedì 29 luglio 2013

Perché il Pd litiga sul nulla: storia di un'involuzione irreversibile di Dino Greco, Liberazione.it


Perché il Pd litiga sul nulla: storia di un'involuzione irreversibile
Il tormentone politico che scuote dall’alto in basso il Partito democratico sino a farne pronosticare la possibile esplosione si ripropone in queste settimane nella seguente forma: il segretario del partito deve essere eletto dai soli iscritti, oppure da una platea più vasta di ipotetici elettori? E poi: una volta fatto il segretario, dovrà essere lui il candidato premier alle prossime elezioni politiche, oppure è necessario tenere separati ruoli e responsabilità?
I due punti al centro del dissidio meritano un’attenzione non superficiale, perché ripropongono un tema antico, quello dell’autonomia strategica del partito rispetto all’amministrazione delle cose, quando quel partito medesimo guadagni il diritto a governare comuni, regioni o, addirittura, il paese intero.
Su questo nodo cruciale tornerò più avanti.
Ciò che tuttavia merita segnalare subito è che ciascuna delle parti del Pd oggi in conflitto non sembra avere alcuna percezione della portata teorica e politica del problema.
Ciò che tiene banco è la personalissima competizione per la leadership. Sicché a questo primario obiettivo viene piegata l’una o l’altra ipotesi, saltando – secondo le convenienze del momento - da una tesi all’altra.
Quando attraverso le “primarie” Bersani conquistò la maggioranza dei consensi, egli diventò automaticamente candidato alla presidenza del Consiglio. Ed è a lui che – dopo le elezioni del febbraio scorso – Napolitano affidò il mandato esplorativo per formare il nuovo governo. Questa regola che oggi Renzi rivendica a proprio potenziale beneficio, non è più condivisa da quanti la ritennero adeguata nel recente passato.
Insomma, ogni leader modella su di sè le opzioni politiche, le acrobazie tattiche fanno premio sulle strategie, il profilo progettuale si annebbia, la lettura della realtà si affida a categorie lasche, la propensione al pragmatismo trasforma ogni discorso in una indecifrabile cacofonia.
Chi volesse esercitarsi nel compito di distinguere con sufficiente chiarezza il merito delle posizioni in campo troverebbe subito l’impegno arduo. Tutto si gioca sull’esteriorità: il sembrare prevale sull’essere, l’immagine sul contenuto. E’ la politica light, fatta di pensiero “debole” e di propositi limitati.
Perché?
Semplicemente, perché tutte le anime che compongono il litigioso caleidoscopio democratico si muovono dentro un orizzonte culturale perfettamente definito: quello del liberalismo e dell’economia di mercato. Nessuna delle componenti interne al Pd guarda oltre quel sistema di valori e la formazione economico-sociale che quel sistema ha prodotto ed incessantemente riproduce. Paradossalmente, più la visione del mondo e dei rapporti sociali è condivisa, più il confronto interno assume caratteri aspri e persino rissosi. Gli uni contro gli altri armati, sì, ma senza che dal conflitto emergano opzioni che giustifichino tanta vervebarricadiera.
A questo punto è utile fare un salto all’indietro nel tempo. Precisamente, attorno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, quando il Partito comunista italiano compì un balzo elettorale di proporzioni clamorose e conquistò il governo di tutte le principali regioni e di quasi tutte le più importanti città italiane che per lungo tempo furono amministrate da grandi sindaci comunisti: Novelli a Torino, Zangheri a Bologna, Petroselli a Roma, Valenzi a Napoli, per nominarne solo alcuni fra i più noti. Grandi sindaci, che tali furono per davvero. Ma con una propensione, in qualche modo naturale considerate le enormi responsabilità connesse al loro ruolo: la propensione, cioè, a considerare il partito come un comitato di sostegno al lavoro di quelle amministrazioni. Quasi che l’attività amministrativa potesse in sé assorbire e risolvere la funzione del partito.
Fu in quegli anni che l’allora segretario del Pci, Enrico Berlinguer, condusse una dura battaglia politica per criticare quella concezione in quanto riduttiva, non soltanto dei compiti del partito ma, più profondamente ancora, della sua missione fondamentale.
Ridotta all’essenziale la critica si può così riassumere: anche la migliore cultura e pratica amministrativa deve fare i conti con il sistema dato, con i rapporti di forza che vi sono connaturati, con la presenza di poteri forti con i quali venire a patti, con situazioni che impongono compromessi; tutto questo deve essere fatto nel miglior modo possibile, al fine di migliorare le condizioni di vita delle masse popolari e procedere lungo la progressiva democratizzazione della vita del paese. Ma – ecco il punto – il partito comunista non può ridursi a questo, non può limitarsi ad una pur necessaria strategia redistributiva dentro i rapporti sociali dati. Occorre un di più. Il partito comunista deve elaborare un progetto di trasformazione della società capace di trascendere quei rapporti, per porre a tema la fondamentale questione di cosa, come e per chi produrre e di quali siano i soggetti a cui compete orientare le finalità del lavoro sociale. Il tema è quello della transizione verso diversi rapporti di produzione, non più fondati sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E’ il grande tema della proprietà e della fuoriuscita dal capitalismo oggi ripudiata dagli epigoni del Pci come retaggio sentimentale privo di realtà.
E’ proprio la revoca totale di questa ambizione che fa del Pd un pachwork perennemente in cerca d’autore, che consente ai democrat ogni sorta di compromesso, anche il più deteriore, come quello di condividere il governo con la corte berlusconiana.
Non si tratta di un bizzarro scherzo del destino, ma dell’approdo naturale di un soggetto politico che naviga a vista, senza bussola né timone, ove le posizioni fra loro più contraddittorie convivono in una grottesca babele di linguaggi.
Fino a quando questa rimarrà l’offerta politica rivolta alle classi subalterne, la destra – persino questa impresentabile destra – potrà tenere banco. Berlusconi lo sa.

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