La nostra struttura produttiva
non produce beni e servizi che il mercato domanda. Lo dicono tutti gli
indicatori economici. Un esempio: su 100 pannelli solari, 98 sono
importati, 1 è prodotto da un’impresa estera in Italia, e solo 1 da
un’impresa italiana
La crisi (2007-2013) all’inizio ha coinvolto più o meno tutti gli
stati allo stesso modo, ma le politiche pubbliche adottate e,
soprattutto, la struttura produttiva hanno declinato la crisi in tanti
modi diversi, quasi quanti sono gli stati analizzati. In altra parole
c’è crisi e crisi. Alcuni paesi sono in depressione, altri in
recessione, altri ancora in stagnazione, alcuni vivono una leggera
crescita, altri, pur tra mille difficoltà, crescono.
Qual è il nodo di struttura che ha diversificato la profondità della caduta del reddito? Sostanzialmente la divisione internazionale del lavoro e la specializzazione produttiva, nell’ambito del commercio internazionale, hanno concorso a rendere più veloce la caduta-stagnazione-crescita del Pil. Quindi, non è corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 in senso assoluto. È molto più corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 per l’Italia. Qui pesano le tecniche superiori di produzione (Leon), e non solo l’intervento pubblico teso a comprimere la domanda via avanzi primari.
La realtà è ancora più dura se prendiamo in considerazione la domanda effettiva in senso stretto. Non bisogna mai dimenticare che la domanda effettiva si concentra nei settori dinamici, mentre i comparti meno produttivi hanno un beneficio pari a un multiplo di quella intercettata dai settori dinamici. La struttura produttiva nazionale italiana, purtroppo, non produce beni e servizi che il mercato domanda, quindi l’aumento della domanda (effettiva) dell’Italia si traduce in un multiplo. In altri termini, la contrazione percentuale della quota del Pil mondiale dell’Italia è pari al 16% tra il 2008 e il 2013, contro una riduzione più contenuta di tutti gli altri paesi.
Una rappresentazione di come lavora la domanda effettiva (realmente) a livello internazionale è legata alla capacità della Germania di modificare la propria specializzazione produttiva al mutare del reddito internazionale. La dinamica del Pil della Germania è sempre stata legata al commercio intra Europa, ma questo “vincolo” nel corso della recente crisi si è significativamente ridotto. Non è scomparso, ma la possibilità-capacità di crescita della Germania via domanda interna europea ha lasciato il posto alla dinamica del commercio internazionale, compensando in tutto o in parte la caduta del saldo attivo della bilancia commercia intra Ue. Sostanzialmente la crescita del reddito dei paesi emergenti, del Pil e del commercio internazionale, è stata agganciata dall’industria tedesca via beni e servizi che i paesi emergenti non possono produrre al proprio interno. Una domanda che non interessa solo i beni di consumo, ma anche i beni strumentali che concorrono a modificare il profilo del reddito di quei paesi.
Per il momento la crescita tedesca non è ancora del tutto sganciata dall’Europa, ma le politiche adottate fanno prefigurare un progressivo sganciamento della propria crescita (Pil) dalle esportazioni verso l’Europa.
Diversamente dalla Germania, l’Italia rimane saldamente ancorata al mercato interno europeo, modificando in meglio o in peggio la performance del Pil. Infatti, la dinamica del commercio extra Ue non riesce in nessun modo a sostituire la dinamica del commercio intra Ue, anche perché l’Italia continua a perdere quote di mercato internazionale. Non solo. Europa 2020 e le politiche europee sottese, potrebbero ulteriormente aggravare la posizione europea dell’industria nazionale. Solo per fare un esempio, su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera in Italia e 1 da una impresa italiana.
Ma la situazione economica e industriale dell’Italia è ancor più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un paese che ha investito più della media dei paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico senza precedenti. L’industria italiana ha sempre investito per inseguire i paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17% tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10%. Non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. Nello stesso periodo la Germania ha investito il 5,5% in più. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Non solo l’Italia ha in questi ultimi anni investito meno dei paesi di riferimento, ma l’intensità tecnologica degli investimenti manifatturieri, cioè il rapporto Berd/Investimenti in macchinari delle imprese, è rimasto costante, mentre in tutti i paesi europei si osserva una crescita di questo indicatore di specializzazione. Il suddetto rapporto per l’Italia rimane saldamente ancorato al 10%, mentre negli altri paesi cresce, fino a traguardare il 40%, con l’eccellenza finlandese che raggiunge l’80%. Inoltre, la bassa intensità tecnologica degli investimenti non è risolvibile via incentivi, che spesso si traducono in elusione di una parte della base imponibile. Si ritorna alle riforme di struttura delineate da Pasinetti, Leon e Smith.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia è mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un paese europeo. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare.
Un esito che non può essere imputato al costo del lavoro e, in particolare, al cuneo fiscale. Infatti, il cuneo fiscale dell’Italia, calcolato dall’incidenza sul costo del lavoro della somma dei contributi sociali e del prelievo sul reddito, per un lavoratore single nel settore manifatturiero, è inferiore a quello di Germania e Francia: in Germania è pari al 49,8 (2011); in Francia è pari al 49,3; in Italia è pari al 47,6%. Quindi, il cuneo fiscale del lavoro italiano ha poco a che fare con le difficoltà delle imprese italiane.
Quindi l’Italia vive una crisi nella crisi. Nel confronto con i maggiori paesi europei, l’Italia si è distinta per le peggiori performance di crescita del reddito, e al tempo stesso per un trend crescente degli investimenti in macchinari e impianti importati. Parallelamente è rimasta stagnante la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese, mettendo in luce la mancanza di una adeguata specializzazione produttiva nei settori high-tech e la totale insufficienza del processo di accumulazione rispetto alla dinamica strutturale in atto.
La crisi nella crisi che l’Italia sperimenta si inquadra dunque in quest’ultimo contesto. Il ruolo degli investimenti per la crescita economica continuerà naturalmente ad essere determinante, ma se il paese non sarà in grado di indirizzare il processo di accumulazione verso un cambiamento della specializzazione produttiva in settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo, l’impatto sulla crescita del Pil sarà sempre più ridotto per effetto di un vincolo estero sempre più dipendente dall’interscambio di prodotti high-tech.
Data la natura particolare della crisi italiana, una richiesta di sostegno indiscriminato agli investimenti risulterebbe controproducente. Si tratta invece di promuovere riforme di struttura, capaci di entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi, sollecitando una modifica della specializzazione produttiva verso settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo.
Qual è il nodo di struttura che ha diversificato la profondità della caduta del reddito? Sostanzialmente la divisione internazionale del lavoro e la specializzazione produttiva, nell’ambito del commercio internazionale, hanno concorso a rendere più veloce la caduta-stagnazione-crescita del Pil. Quindi, non è corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 in senso assoluto. È molto più corretto sostenere che la crisi è peggiore di quella del ’29 per l’Italia. Qui pesano le tecniche superiori di produzione (Leon), e non solo l’intervento pubblico teso a comprimere la domanda via avanzi primari.
La realtà è ancora più dura se prendiamo in considerazione la domanda effettiva in senso stretto. Non bisogna mai dimenticare che la domanda effettiva si concentra nei settori dinamici, mentre i comparti meno produttivi hanno un beneficio pari a un multiplo di quella intercettata dai settori dinamici. La struttura produttiva nazionale italiana, purtroppo, non produce beni e servizi che il mercato domanda, quindi l’aumento della domanda (effettiva) dell’Italia si traduce in un multiplo. In altri termini, la contrazione percentuale della quota del Pil mondiale dell’Italia è pari al 16% tra il 2008 e il 2013, contro una riduzione più contenuta di tutti gli altri paesi.
Una rappresentazione di come lavora la domanda effettiva (realmente) a livello internazionale è legata alla capacità della Germania di modificare la propria specializzazione produttiva al mutare del reddito internazionale. La dinamica del Pil della Germania è sempre stata legata al commercio intra Europa, ma questo “vincolo” nel corso della recente crisi si è significativamente ridotto. Non è scomparso, ma la possibilità-capacità di crescita della Germania via domanda interna europea ha lasciato il posto alla dinamica del commercio internazionale, compensando in tutto o in parte la caduta del saldo attivo della bilancia commercia intra Ue. Sostanzialmente la crescita del reddito dei paesi emergenti, del Pil e del commercio internazionale, è stata agganciata dall’industria tedesca via beni e servizi che i paesi emergenti non possono produrre al proprio interno. Una domanda che non interessa solo i beni di consumo, ma anche i beni strumentali che concorrono a modificare il profilo del reddito di quei paesi.
Per il momento la crescita tedesca non è ancora del tutto sganciata dall’Europa, ma le politiche adottate fanno prefigurare un progressivo sganciamento della propria crescita (Pil) dalle esportazioni verso l’Europa.
Diversamente dalla Germania, l’Italia rimane saldamente ancorata al mercato interno europeo, modificando in meglio o in peggio la performance del Pil. Infatti, la dinamica del commercio extra Ue non riesce in nessun modo a sostituire la dinamica del commercio intra Ue, anche perché l’Italia continua a perdere quote di mercato internazionale. Non solo. Europa 2020 e le politiche europee sottese, potrebbero ulteriormente aggravare la posizione europea dell’industria nazionale. Solo per fare un esempio, su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera in Italia e 1 da una impresa italiana.
Ma la situazione economica e industriale dell’Italia è ancor più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un paese che ha investito più della media dei paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico senza precedenti. L’industria italiana ha sempre investito per inseguire i paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17% tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10%. Non tutti i paesi hanno reagito allo stesso modo. Nello stesso periodo la Germania ha investito il 5,5% in più. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Non solo l’Italia ha in questi ultimi anni investito meno dei paesi di riferimento, ma l’intensità tecnologica degli investimenti manifatturieri, cioè il rapporto Berd/Investimenti in macchinari delle imprese, è rimasto costante, mentre in tutti i paesi europei si osserva una crescita di questo indicatore di specializzazione. Il suddetto rapporto per l’Italia rimane saldamente ancorato al 10%, mentre negli altri paesi cresce, fino a traguardare il 40%, con l’eccellenza finlandese che raggiunge l’80%. Inoltre, la bassa intensità tecnologica degli investimenti non è risolvibile via incentivi, che spesso si traducono in elusione di una parte della base imponibile. Si ritorna alle riforme di struttura delineate da Pasinetti, Leon e Smith.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia è mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un paese europeo. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare.
Un esito che non può essere imputato al costo del lavoro e, in particolare, al cuneo fiscale. Infatti, il cuneo fiscale dell’Italia, calcolato dall’incidenza sul costo del lavoro della somma dei contributi sociali e del prelievo sul reddito, per un lavoratore single nel settore manifatturiero, è inferiore a quello di Germania e Francia: in Germania è pari al 49,8 (2011); in Francia è pari al 49,3; in Italia è pari al 47,6%. Quindi, il cuneo fiscale del lavoro italiano ha poco a che fare con le difficoltà delle imprese italiane.
Quindi l’Italia vive una crisi nella crisi. Nel confronto con i maggiori paesi europei, l’Italia si è distinta per le peggiori performance di crescita del reddito, e al tempo stesso per un trend crescente degli investimenti in macchinari e impianti importati. Parallelamente è rimasta stagnante la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese, mettendo in luce la mancanza di una adeguata specializzazione produttiva nei settori high-tech e la totale insufficienza del processo di accumulazione rispetto alla dinamica strutturale in atto.
La crisi nella crisi che l’Italia sperimenta si inquadra dunque in quest’ultimo contesto. Il ruolo degli investimenti per la crescita economica continuerà naturalmente ad essere determinante, ma se il paese non sarà in grado di indirizzare il processo di accumulazione verso un cambiamento della specializzazione produttiva in settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo, l’impatto sulla crescita del Pil sarà sempre più ridotto per effetto di un vincolo estero sempre più dipendente dall’interscambio di prodotti high-tech.
Data la natura particolare della crisi italiana, una richiesta di sostegno indiscriminato agli investimenti risulterebbe controproducente. Si tratta invece di promuovere riforme di struttura, capaci di entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi, sollecitando una modifica della specializzazione produttiva verso settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo.
(Roberto Romano fa parte del Forum economisti Cgil)
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