L’azione dal basso non basta, troppi cantieri mai aperti, serve
un’assunzione di responsabilità. E da Messina, con l’elezione del nuovo
sindaco, arriva un segnale
Può succedere persino che un dibattito finora insabbiato nelle
speculazioni sulle quotidiane interviste di Matteo Renzi o le facete
proposte di congressi paralleli e convergenti fra grandi e piccole forze
di una coalizione che dopo avere perso di fatto le elezioni si trova
divisa fra governo e opposizione – pessimo oltre l’immaginabile il primo
quanto inadeguata la seconda, se non altro per mancanza di insediamento
sociale, si pensi solo all’astensionismo – riceva improvvisamente una
scossa da nuovi fatti e argomenti. Quando succede non bisogna perdere
l’occasione per tentare di rivivificare una sinistra d’alternativa che
pare anch’essa “in sonno”.
Mi riferisco ad esempio all’esito di un’elezione paradigmatica,
quella di Messina, su cui così poco si è ragionato. Ed è un peccato
perché non si tratta di una tarda propaggine dei successi elettorali,
alcuni già un po’ ingialliti, di Milano, di Genova, di Cagliari o di
Napoli, ma di un risultato nuovo e originale, costruito completamente al
di fuori del quadro politico dato e fondato sulla capacità di
aggregazione dei movimenti, delle loro nuove pratiche di democrazia
diretta, o, meglio, deliberativa e delle intelligenze politiche presenti
al loro interno.
Sull’altro lato, quello del dibattito vero è proprio, si collocano
con evidenza la discussione promossa da un supplemento all’ultimo numero
di Micromega e due articoli pubblicati su questo giornale (Marco
Revelli e Giorgio Airaudo in coppia con Giulio Marcon). Tutti questi
hanno un tratto comune che va valorizzato: l’obiettivo della costruzione
di una nuova soggettività politica della sinistra in connessione con lo
sviluppo della sinistra diffusa nella società.
Se il tentativo di Micromega si era risolto con un mezzo insuccesso,
secondo la severa autoanalisi dello stesso Paolo Flores d’Arcais, non
era però trascorso invano, visto che nella sostanza soprattutto
l’articolo di Revelli ne riprende i temi. In particolare quello della
insufficienza di una azione dal “basso” e della necessità di un ente
“catalizzatore”, ovvero «di qualcuno – un gruppo di donne e di uomini –
che dall”alto’ dia un segnale con pochi semplici denominatori comuni»,
dalla difesa intransigente della Costituzione, al primato del lavoro,
passando per la difesa dei beni comuni, per imporre all’Europa un cambio
radicale della sua politica economica e al nostro paese una bonifica
politica e morale.
Un compito tanto più urgente se si registra che anche Casaleggio, il
guru di Grillo, prevede rivolte per autunno (c’è solo da stupirsi che
non ci siano state finora) e queste rischiano di consumarsi in
esplosioni isolate se non incrociano almeno un abbozzo di forza
alternativa dotata di un programma e di una ferma determinazione di
radicale cambiamento.
Una discussione di questo genere non può venire isolata in un resort,
ma tanto meno lasciata all’equivoco delle primarie o delle tante
promesse di cantieri della sinistra che mai si aprono e tantomeno si
chiudono con un qualcosa di fatto. C’è bisogno di un’assunzione di
responsabilità di quel quadro pensante, diffuso e privo di contorni
partitici, ma pure esistente e resistente, intrecciato con esperienze di
movimento, di ricerca intellettuale, di militanza sindacale, di
costruzione di nuovo senso di sinistra nella società.
Non saprei dire quale è il numero delle questioni da porre per dare
concretezza ad una simile discussione. Probabilmente più delle quattro
cui fanno riferimento Airaudo e Marcon. Ciò che conta è il punto di
partenza e la linea di direzione verso un possibile approdo, pur da
verificare e rettificare quanto si vuole strada facendo.
La premessa non può non essere che la constatazione della morte
dell’attuale centrosinistra. L’operazione è cominciata con il governo
Monti, contando già su solide premesse; è stata ispirata, sostanziata e
guidata dalle scelte della nuova governance europea; è approdata a
«quell’odore marcio del compromesso» di cui ha scritto Barbara Spinelli,
che è tale proprio perché a lungo covato. Solo il non esito, questo
difficilmente prevedibile, delle ultime elezioni politiche ha fatto sì
che Sel, contrariamente alla retorica governista sviluppata negli ultimi
tempi, si trovasse all’opposizione e il Pdl per intero al governo.
Ma la Grosse Koalition non è un’invenzione dell’ultima ora.
Parafrasando Giulio Bollati – quando parlava del fascismo, che è cosa
diversissima, per dire che non era improvviso né imprevedibile – «il
fenomeno può essere condensato in una formula: nulla è (nelle larghe
intese) quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella
politica italiana, tranne che (le larghe intese) stesse» da almeno 25
anni a questa parte. Infatti questa forma di governo a-democratica,
prima ancora che tecnocratica, è la più congrua al capitalismo
finanziario nel quadro europeo.
Il Pd è diventato il pivot di questa politica. Non ha senso proporsi
di modificarlo all’interno (oltretutto tutti lavorano per Renzi) né
attenderne la possibile implosione. Il “campo del cambiamento” va
organizzato fuori e contro. La caduta del governo Letta è il primo
compito di un’opposizione di sinistra che si rispetti e non può essere
messo in ombra da calcoli congressuali. Se entro l’anno si giungesse a
una grande manifestazione nazionale contro il governo, capace di
raccogliere tutte le forze che ad esso si oppongono, questo sarebbe
l’unico modo per cambiare tutte le agende politiche.
Coerentemente lo sbocco europeo deve essere ricercato nel campo della
sinistra di alternativa su scala continentale. Serve una campagna di
massa, capace di unire i temi della concreta sofferenza sociale con le
cause che la provocano e che stanno nelle politiche di austerità di
Bruxelles, ma a questa non si potrà poi dare una rappresentanza politica
scelta nell’ambito di quel socialismo europeo che, a partire dalla
Germania, si attrezza a essere garante di quelle politiche.
Le possibilità vanno raccolte da subito senza timidezza o pretese di
primogenitura, ma avendo il coraggio di produrre scelte di campo nette e
riconoscibili.
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