Visto il livello della
discussione "politica", sotto la soglia di ogni possibile vergogna, e
visti recenti dati sull'evasione fiscale nel mondo - da cui risulta che
in Italia viaggia ad una percentuale quasi doppia rispetto a quella del
Messico mica della Norvegia!, appena lo 0,3 del Pil) - ci sembra il
casodi riproporre questo saggio analitico di appena due anni fa.
Come si noterà, a parte alcuni nomi già finiti nel dimenticatoio
(Oscar Giannino, per esempio e per vergogna di millantato credito),
sembra sccritto stamattina.
Il
problema della tassazione e della fiscalità si trova al crocevia dei
più importanti snodi della politica contemporanea. Lo ritroviamo al
centro della sceneggiata storica dei Tea Parties
statunitensi, tutta rivolta a creare un’artificiosa continuità
simbolica con la settecentesca “rivolta del tè” contro le tasse imposte
dalla madrepatria inglese alle proprie colonie, affermando però oggi
qualcosa di ben diverso, e cioè la libertà contro le tasse, intese come
simbolo dello spauracchio del “Big Government”. Lo troviamo al centro delle gigantesche falle del tessuto istituzionale e di governance
dell’Unione Europea rivelate dalla crisi attuale, che hanno uno dei
principali luoghi d’origine precisamente nella volontà – iscritta nei
Trattati – di non assoggettare tutti gli Stati dell’Unione (o almeno
dell’Eurozona) ad una medesima disciplina e regolamentazione fiscale.
Infine, lo troviamo al centro del discorso ideologico populista e
reazionario berlusconiano, di cui rappresenta da sempre uno dei
principali punti di forza. Grazie alla capacità di trasfigurare nella
forma di una “lotta contro l’oppressione fiscale” quella che è in verità
– come vedremo – una delle più efficaci e efferate configurazioni
assunte dalla lotta di classe in questo Paese. La cosa migliore è
partire proprio dall’esame di alcune delle più caratteristiche
enunciazioni del Berlusconi-pensiero sulle tasse.
1. Il fisco nel Berlusconi-pensiero
“Se
lo Stato ti chiede più di un terzo di quanto guadagni, c’è una
sopraffazione nei tuoi confronti, e allora ti ingegni per trovare
sistemi elusivi e addirittura evasivi ma in sintonia con il tuo intimo
sentimento di moralità”. In questa frase, pronunciata da Berlusconi –
con audace mossa situazionistica – proprio
alla festa della Guardia di Finanza (11 novembre 2004), è contenuta
tutta intera l’ideologia berlusconiana del fisco. Questa ideologia,
dispiegata con grande potenza mediatica, e accettata di fatto anche da
buona parte dell’opposizione di centro-sinistra (di allora e di
adesso), è facile a sintetizzarsi: il fisco è la manifestazione di uno
Stato predone e onnipotente, e rappresenta un attacco alla libertà della
proprietà ed al diritto di godere i frutti del proprio lavoro. Rispetto
a questo attacco, il “cittadino” ha diritto di difendersi come può:
cioè non pagando le tasse. Più di recente – a conferma della sua
coerenza in materia – Berlusconi ha anche enunciato la quota-limite
oltre la quale si situerebbe l’ “oppressione fiscale”, e cioè il 33%: il
fisco è “equo” quando la “sua richiesta si situa pressappoco intorno a
un terzo di ciò che il cittadino guadagna”. Lo ha detto il 10 settembre
2010 a Yaroslavl, in occasione del Global Policy Forum promosso dal presidente della Federazione Russa Medvedev.
Perfettamente in linea con il Berlusconi-pensiero, il documento governativo – penosamente condito di affermazioni pseudo-filosofiche – che accompagnava la “riforma” fiscale tremontiana dell’epoca (lo si può leggere sulla Gazzetta Ufficiale n.
91 del 18 aprile 2003): “Nella nostra visione, il limite naturale,
fondamentale e costituzionale dell’imposizione fiscale è rappresentato
dal lavoro e dalla proprietà privata, basi fondamentali della libertà
della persona e della ricchezza della nazione”. E ancora: “Se il
presupposto del prelievo non è quanto serve allo stato, ma quanto può
dare il privato; se non si ha una visione autoritaria dello stato, che
può imporre quanto vuole; se insomma si accetta il principio del limite
dell’imposizione, costituito dal rispetto del lavoro, della proprietà, e
dei frutti che ne derivano, è evidente che la misura della giusta
imposta dipende unicamente dal consenso dei cittadini. Da quanto i
cittadini sentono giusto di dover pagare allo stato a titolo di imposta
sui frutti (2) del
loro lavoro e della loro proprietà”. Si tratta, è il caso di
ammetterlo, di affermazioni quasi commoventi: era almeno dai tempi di Kant
che l’Uomo, la libera volontà umana, la coscienza dell’individuo non
venivano posti così al centro del discorso politico. E va detto che sul
punto i Berluscones sono coerenti: basti pensare che, in un recente e impagabile elogio delle società offshore
tessuto da Oscar Giannino, l’argomentazione-chiave è rappresentata dal
richiamo al fatto che “la libertà prevale, e tra le massime espressioni
della libertà vi è appunto quella dell’organizzazione della proprietà,
al fine di ridurne i gravami a cominciare da quelli fiscali”:
precisamente per questo motivo le società offshore possono dirsi, ad avviso dello stesso Giannino, “vero presidio di libertà” . (3)
Il
problema, ovviamente, è che in realtà quello di cui qui si parla non è
la libertà dell’Uomo astrattamente inteso. No: l’individuo al cui
“intimo sentimento di moralità”, al cui “senso della giustizia”
Berlusconi e i suoi fidi collaboratori fanno appello, difendone a spada tratta la “libertà”, è una categoria di persone molto più ristretta. È l’Evasore. Per essere più precisi: l’evasore potenziale, colui che può evadere il fisco. Cioè essenzialmente il libero professionista, l’imprenditore (persona fisica) e ovviamente l’impresa stessa (persona
giuridica). Purtroppo, infatti, la commovente esaltazione della volontà
e della libera scelta come cardini del sistema fiscale, non vale per i
lavoratori dipendenti: i quali possono invece ammirare attoniti, ad ogni
27 del mese, direttamente sul cedolino l’entità di quanto della loro
busta paga finisce in tasse. E notare, con comprensibile disappunto, che
il peso delle ritenute alla fonte per il lavoro dipendente è cresciuto
costantemente nel periodo che va dagli anni Ottanta ad oggi. Al riguardo
vale la pena di riproporre i dati citati in un documento prodotto da un
gruppo di lavoro del Nens sulla fiscalità:
“L’entità delle ritenute rispetto alle imposte dirette sale dal 40%
circa del 1980 al 525 del 2008; al tempo stesso i proventi Irpef da
redditi non di lavoro dipendente insieme alle imposte sostitutive
(dell’Irpef) si riducono dal 37% a poco più del 24%. Ciò mentre la quota
dei redditi di lavoro dipendente sul valore aggiunto totale si riduceva
dal 66% al 53%. In altre parole i redditi da lavoro dipendente si sono
ridotti come quota del reddito nazionale e al tempo stesso sono stati
penalizzati dal prelievo fiscale”. 3 La
“Libertà dalle tasse” berlusconiana è insomma una libertà di ceto o di
casta. E come tale presuppone che gli altri, i non-liberi, paghino di
più e tappino le falle create al bilancio dello Stato dall’espressione
della “volontà libera” e dall’“intimo senso di moralità” dell’Evasore.
Ma
torniamo ora al discorso ideologico contemporaneo in materia di
tassazione. Se la smaccata variante “pro-evasore” è una caratteristica
esclusiva di Silvio Berlusconi, il discorso “anti-tasse” è un topos del
pensiero conservatore e liberista contemporaneo. Non è ovviamente questa
la sede per un’analisi storica del fenomeno, ma è importante fissare
almeno alcuni punti. La marea della retorica antitasse inizia negli anni
Settanta e monta progressivamente, diventando letteralmente invincibile
dalla fine degli anni Ottanta. Negli anni Settanta finiscono i 25 anni
di rapidissimo sviluppo economico postbellico e comincia una crisi di
valorizzazione del capitale di lunga durata in tutti (o quasi) i Paesi a
capitalismo maturo. In questi Paesi, dopo aver fatto ampio uso di
ammortizzatori sociali per impedire che le conseguenze della crisi
(leggi disoccupazione tornata di massa, deindustrializzazione,
delocalizzazioni) avessero conseguenze esplosive sull’assetto economico e
sociale, le classi dominanti improvvisamente si accorgono degli
“sprechi” rappresentati dal welfare State e della sua “insostenibilità”.
Cominciano gli anni delle privatizzazioni, dello “Stato minimo”, della
deregulation. La polemica “anti-tasse” nasce e si sviluppa in questo
contesto, e ha una duplice funzione: da un lato, ottenere una
sostanziale riduzione della tassazione delle imprese e invertire la
tendenza (predominante ancora negli anni Settanta) a recepire nella
legislazione il principio della progressività delle imposte; dall’altro,
indebolire lo Stato (“affamare la bestia”, secondo la raffinata
formulazione di Ronald Reagan), al fine di assoggettare al profitto
privato quante più possibili funzioni da esso svolte e al tempo stesso
rendere semplicemente impensabile anche solo l’ipotesi di un controllo
statale/pubblico dell’economia. Il primo aspetto ridà fiato ai profitti
netti (dopo le tasse) delle imprese private e opera una redistribuzione
del reddito da “Robin Hood alla rovescia”. Il secondo aspetto fa sì che
al trend decrescente (da allora e sino ad oggi) dei salari diretti si
unisca una diminuzione reale dei salari indiretti (le prestazioni
sociali, appunto), e financo una trasformazione dei salari differiti (i contributi pensionistici) in forme di finanziamento del capitale, immediatamente sussunte e assoggettate alle sue logiche. (4) L’ideologia
“anti-tasse” è immediatamente “falsa coscienza” nel più pieno
significato del termine. E non soltanto per il fatto di celare (neppure
troppo accuratamente, a dire il vero) interessi di classe. Ma anche per
il fatto di “dimenticarsi” delle numerose funzioni che lo Stato svolge a
beneficio del capitale e che sono rese possibili unicamente dalla
tassazione. Anche volendo mettere tra parentesi gli ingenti
trasferimenti alle imprese che vanno sotto il nome di agevolazioni
pubbliche o sotto altri nomi, (5) si
pensi alle condizioni generali di produzione, intese come
infrastrutture (fisiche e giuridiche), come formazione, come ricerca e
sviluppo tecnologico.
È
chiaro ed è logico che tutte queste funzioni – essenziali per la stessa
riproduzione allargata del capitale – hanno un costo, che qualcuno
dovrà pur sostenere. Ma l’ideologia “anti-tasse” del neoliberismo
rampante chiama questo costo “oppressione fiscale” e contro di esso leva
la bandiera degli “sgravi fiscali”. Già George Lakoff
ha opportunamente osservato come già il fatto stesso di accettare
questo linguaggio significhi far propria la visione del mondo della
reazione, contribuendo alla sua propagazione: “Pensate a quello che
evoca la parola ‘sgravio’. Perché possa esserci uno sgravio si
presuppone che ci sia una situazione gravosa, che qualcuno soffra, e la
persona che rimuove la causa di questa sofferenza diventa un eroe…
Quando alla parola ‘sgravi’ si aggiunge l’aggettivo ‘fiscali’, il
risultato è una metafora. Le tasse sono un’afflizione. Chiunque le
elimini è un eroe, e chiunque cerchi di impedirglielo è un malvagio…
Le parole che evocano questo frame partono dalla Casa Bianca e si
diffondono attraverso i comunicati stampa a tutte le stazioni radio, a
tutte le emittenti televisivi e a tutti i giornali... E ben presto anche
i democratici parlano di “sgravi fiscali” – dandosi la zappa sui
piedi”. (6)
In
Italia, alla metafora degli “sgravi fiscali” si accompagnano altre
metafore. Prima tra tutte: “mettere le mani nelle tasche degli
Italiani”. Gustavo Zagrebelsky ha notato
come ci sia davvero, dietro questa espressione, “un’idea generale del
rapporto tra cittadini e Stato. Questa: che le imposte e tasse siano
taglieggiamenti e furti e che i governanti, chiedendo ai cittadini di
partecipare alle spese pubbliche, si comportino da ladri. Su questa
premessa, è chiaro poi che l’evasore non può essere considerato un
asociale che si sottrae ai propri doveri di cittadino responsabile nei
confronti della collettività e, anzi, che sia un parassita che vive alle
spalle dei suoi concittadini. Lo si deve guardare come un tartassato
che fa bene a cercar di difendersi da chi (lo Stato) cerca di derubarlo.
In fondo, se non è un benemerito, è almeno uno che merita tutta la
nostra comprensione. Tanto che la norma che, al prezzo della rinuncia da
parte dell’amministrazione finanziaria alle sue pretese legali,
consente il rientro a poco prezzo di capitali illegalmente esportati è
denominato ‘scudo fiscale’, come se si dovesse apprestare una protezione
contro il nemico” (7) Queste
considerazioni meritano un’unica chiosa: proprio quest’ultima
locuzione, “scudo fiscale”, evidenzia comunque la specificità italiana,
pur all’interno del mainstream liberista
anti-tasse. In effetti, in tutti i casi in cui la stampa straniera si è
occupata della (vergognosa) ennesima manovra di regalo fiscale agli
evasori coperta dai nostri media con l’eufemismo di “scudo fiscale”,
l’ha chiamata col suo nome: “tax amnesty”,
“amnistia fiscale”. E veniamo quindi alla particolarità del caso
italiano, emblematicamente riflessa in questa specifica torsione
ulteriormente eufemistica del discorso dominante sul fisco.
2. Il caso italiano: un evasione “sbalorditiva”, ma non troppo
La
pressione fiscale in Italia si è attestata nel 2009, secondo l’Istat,
al 43,2%, in aumento rispetto al 42,9% del 2008 (essenzialmente a causa
del calo del pil). Già a questo riguardo va
osservato che in questo 43% rientrano ben 14 punti di contributi sociali
che finanziano il sistema previdenziale. E, come giustamente
puntualizzato dallo studio del Nens già
citato, “l’assimilazione dei contributi alle imposte, del tutto comune
nel dibattito corrente, è errata”: infatti i contributi non
rappresentano una tassa, ma “una forma di risparmio (forzato)
individuale che sarà consumato in futuro dai titolari”; le imposte
rappresentano quindi il 29%, e vanno a finanziare la spesa pubblica, che
include anche la spesa per interessi sul debito pubblico, più elevata
in Italia di diversi punti percentuali rispetto agli altri Paesi europei
.(8) Ma
il punto fondamentale è un altro: la “pressione” (attenti alla metafora
in agguato!) di cui sopra riguarda soltanto una fetta della
popolazione. La vera specificità italiana riguarda infatti l’elevato
livello di evasione fiscale, che si attesta secondo l’Istat a 247
miliardi di euro di imponibile evaso, pari a 120 miliardi annui di tasse
dovute e non pagate (cioè oltre il 60% dell’intero gettito Irpef): per
avere un’idea di che cosa è in gioco, basti dire che le tasse evase sono
pari a 8 punti di prodotto interno lordo (mentre l’imponibile evaso
corrisponde al 16-18% del Pil). Ancora: le rendite immobiliari
dichiarate sono inferiori del 22% rispetto alle rendite catastali,
mentre gli immobili presenti in catasto sono il 16% in più di quelli
indicati dai contribuenti. (9)
C’è
chi considera cifre come quelle riportate ancora ottimistiche. Secondo
recenti stime del centro studi di Confindustria, ad esempio, l’economia
sommersa sarebbe pari addirittura al 20% del pil,
all’incirca 300 miliardi di euro. E il Fondo Monetario Internazionale
nel 2002 aveva giudicato il peso dell’economia sommersa in Italia pari
addirittura al 27% del pil, ossia il doppio del valore medio dei Paesi appartenenti all’Ocse. (10) In
ogni caso, anche stando alle cifre più ottimistiche, le tasse dovute e
non pagate ammontano ogni anno ad una cifra pari a quasi 3 volte la
famigerata finanziaria “lacrime e sangue” da 90.000 miliardi di lire
varata dal governo Amato ai tempi della svalutazione della lira del
1992. Ogni anno l’“intimo sentimento di moralità” degli evasori sottrae al fisco questa cifra.
Berlusconi,
dacché è al governo, ha provveduto a manifestare il suo ossequio nei
confronti di questo “intimo sentimento di moralità” in diversi modi. Il
più noto è stato rappresentato, nella XIV legislatura, da due condoni
tombali consecutivi (tali cioè da sanare una volta per tutte l’evasione
pregressa e da bloccare gli accertamenti fiscali in corso), nel 2002 e
2004. Per avere un’idea degli effetti concreti del condono (e a riprova
dell’irrilevanza del conflitto di interessi ...), basterà citare il
caso della Fininvest: che nel 2003 ha versato al fisco 35 mln € per avere il condono su oltre 190 mln di evasione.(11)
Ma c’è di più: grazie alla normativa, che aveva stabilito che per gli
importi superiori a 3.000 euro per le persone fisiche e a 6.000 per le
persone giuridiche fosse sufficiente versare la prima rata per rendere
valido il condono, spesso non sono state versate neppure le somme
dichiarate in sanatoria. A gennaio del 2010 la Corte dei Conti ha così
accertato che le somme ancora dovute ammontavano a qualcosa come 4,6
miliardi di euro (pari a circa il 18% del totale delle somme dovute dai
condonati).(12)
Né
va dimenticata la cancellazione delle tasse di successione anche per i
grandi patrimoni, o la (prima) sanatoria per il rientro dei capitali
esportati illegalmente (per lo più evasione fiscale mascherata) dietro
il pagamento di un obolo ridicolo.(13)
E, da ultimo in ordine di tempo, sarà il caso di ricordare la vendita
del 16,8% del capitale di Mediaset da parte dello stesso Berlusconi:
questa vendita, avvenuta nell’aprile 2005, ha fruttato a Berlusconi e
famiglia un guadagno di 1,9 miliardi di euro completamente esentasse
– grazie ad una provvidenziale norma, da poco approvata, che detassava
completamente le plusvalenze ricavate dalla vendita di investimenti
azionari immobilizzati.(14) Non dubitiamo che “l’intimo sentimento di moralità” di Berlusconi e dei suoi cari ne abbia tratto grande soddisfazione ...
Per
quanto riguarda l’attuale legislatura, le cose non vanno meglio. E,
come sempre nel caso italiano, bisogna tenere presenti sia normative di
detassazione, sia normative finalizzate a minimizzare il danno per gli
evasori. Nella prima categoria il provvedimento chiave è rappresentato
dalla completa esenzione dall’Ici dell’abitazione principale (d.l. 27
maggio 2008, n. 93). I critici di questo provvedimento ricordano
(giustamente) che “già nella precedente legislatura il Governo di
centro-sinistra aveva stabilito una parziale detassazione ai fini Ici
dell’abitazione principale”. Lo aveva fatto, però, stabilendo un tetto
ragionevole alla possibilità di usufruire dell’esenzione. Il nuovo
governo ha invece “cancellato le norme precedenti e ha stabilito
l’esenzione totale dall’Ici di tutte le abitazioni dichiarate dai
contribuenti come abitazioni principali, con l’unica eccezione delle
abitazioni di lusso e di quelle nelle ville e nei castelli
(complessivamente 73.263 abitazioni a fronte di 32,5 milioni di unità
abitative esistenti in Italia al dicembre 2009). Con tale misura tanto
maggiore è il valore catastale del fabbricato abitato, tanto maggiore è
il beneficio per il contribuente. Complessivamente si sono sacrificati
sull’altare della demagogia elettorale circa 3,3 miliardi di euro ogni
anno. Tutto ciò con buona pace di chi la casa non la possiede, costretto
a pagare il canone di locazione senza alcun significativo intervento
dello Stato”.(15)
Il
secondo cantiere, quello del sostegno (o – che è lo stesso – del
mancato contrasto) all’evasione, è stato anch’esso aperto subito: “il
Governo Berlusconi ha provveduto a smantellare, con il d.l. 25 giugno
2008, n. 112, gli strumenti messi a punto dal Governo Prodi per
contrastare l’evasione e favorire l’emersione delle basi imponibili. Ci
si riferisce alla ingiustificata soppressione degli elenchi telematici
clienti e fornitori, alla tracciabilità dei compensi professionali, alla
trasmissione telematica dei corrispettivi, all’abbassamento della
soglia antiriciclaggio per l’uso del contante, ecc.”. È importante
sottolineare che si trattava di strumenti “strategici non tanto per
rafforzare la repressione delle evasioni quanto, piuttosto, per
prevenirle favorendo la progressiva emersione ‘naturale’ delle
transazioni economiche. In particolare, va rilevato come l’incrocio
telematico dei rapporti clienti e fornitori risulti di grande efficacia
sia per contrastare le frodi (false fatturazioni, caroselli, ecc.), sia
per individuare i più abituali e frequenti fenomeni di occultamento di
costi e ricavi. Ed è dipesa, probabilmente, proprio dall’efficacia di
questi strumenti la necessità di sopprimerli prontamente, …proprio nel momento in cui essi avevano iniziato a dare i loro frutti sia sul piano dell’incremento della compliance che
della repressione dell’evasione”. Soltanto due anni dopo il governo ha
fatto una parziale marcia indietro, prevedendo, con l’art. 21 del d.l.
31 maggio 2010, n. 78, l’obbligo di trasmissione telematica all’Agenzia
delle Entrate delle fatture di importo superiore a 3.000 euro. Ma,
ancora una volta, è stato osservato con ragione che “si tratta di un
obbligo del tutto parziale e non ancora concretamente attuato, il cui
adempimento sarà paradossalmente più complesso della semplice e più
efficace trasmissione annuale dei dati di sintesi relativi ai rapporti
con clienti e fornitori”.(16)
Un’altra
decisione governativa che ha gravemente indebolito il contrasto
dell’evasione è stata la riduzione del 50% delle sanzioni dovute in caso
di definizione bonaria dei rilievi formulati in sede di controllo.
Questo intervento, attuato in due tempi (art. 83, comma 18, del d.l. 25
giugno 2008, n. 112, e art. 27 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185), ha
abbassato dal 25% al 12,5% la misura delle “sanzioni applicabili in caso
di definizione dei verbali, degli inviti al contraddittorio e di
acquiescenza agli accertamenti non preceduti da processi verbali o da
inviti”.
Questa
misura ha ridotto significativamente i livelli di adempimento
spontaneo, data la conseguente maggiore convenienza ad evadere, colta al
volo dagli interessati. E’ evidente, infatti, che per bilanciare il
dimezzamento delle sanzioni sarebbe stato necessario incrementare
notevolmente la frequenza dei controlli, Ma questo non è avvenuto: “i
controlli, o almeno quelli approfonditi, sono, al contrario, diminuiti”.
Anche in questo caso, dopo due anni, si è avuta una – molto parziale –
marcia indietro: si è stabilito che la misura della sanzione nei casi di
definizione bonaria dei verbali e degli inviti al contraddittorio
passi, dal 1° febbraio 2011, dal 12,5% al 16,66%.
Non
va dimenticato, ovviamente, lo “scudo fiscale” promosso da Tremonti tra
fine 2009 e inizio 2010: 104 miliardi di euro detenuti all’estero e non
dichiarati, in gran parte frutto di evasione (e peggio), sono stati
“regolarizzati” versando un obolo del 5% del valore, ossia molto meno
della più bassa aliquota Irpef. E si tratta di denaro del quale lo Stato
italiano, secondo le leggi previgenti, avrebbe potuto trattenere il
50%. Questi soldi sono stati “scudati” – come si dice con orrido
neologismo – e alla fine di questa brillante operazione finanziaria,
presentata come “lotta ai paradisi fiscali” e contemporaneamente come
finalizzata a “mantenere aperte le aziende, per non licenziare, per
continuare l’attività” (Tremonti dixit), hanno fatto questa fine:
per il 50% (!) sono rimasti all’estero, per il 30% sono serviti a
comprare prodotti finanziari, per il 10% sono stati investiti in
immobili, e soltanto il 10% è stato investito nell’impresa di famiglia
(dati del Ministero dell’Economia).(17)
Inoltre,
con l’art. 3, comma 2-bis, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito
dalla legge 22 maggio 2010, n. 73, è stata prevista la possibilità di
estinguere gratuitamente i giudizi pendenti davanti alla Commissione
tributaria centrale e di estinguere, con il versamento del 5% e senza
applicazione di sanzioni e interessi, i giudizi pendenti innanzi alla
Corte di cassazione, se relativi a ricorsi iscritti a ruolo in 1° grado
da più di 10 anni, per i quali risulti soccombente in 1° e 2° grado
l'amministrazione finanziaria. Anche qui, la ratio della norma è chiara: “con tale disposizione…
è stato consentito ai contribuenti che ne abbiano interesse la
possibilità chiudere unilateralmente, senza oneri o con oneri
ridottissimi, vertenze coltivate dal fisco nei gradi superiori di
giudizio. Si tratta di una disposizione, che già altre volte si era
cercato di inserire in ‘veicoli’ legislativi, finalizzata a favorire
senza alcuna giustificazione poche centinaia di soggetti quasi tutti con
vertenze di particolare rilevanza, probabilmente timorosi di incappare
nella più rigorosa giurisprudenza della Cassazione e della Commissione
centrale in materia di elusione e di abuso del diritto. In sostanza si è
trattato di una sorta di condono personalizzato, privo di ogni
giustificazione”. Nei fatti, hanno poi aderito alla norma soltanto 33
società, tra le quali la Mondadori, che ha così sanato, grazie al
miserabile obolo di 8,6 milioni di euro, un contenzioso che la opponeva
al fisco; se avesse perso la causa, avrebbe dovuto versare 350 milioni
di euro.(18)
In
questo scenario, è decisamente scandaloso che, ogni qual volta si tenta
comunque – in particolare da parte dell’Agenzia delle Entrate – di
stringere appena un po’ le maglie dei controlli, parta subito l’accusa
di “deriva da Stato di polizia” (Consiglio Nazionale dei dottori
commercialisti, il 13 gennaio scorso); e che si debbano leggere sul
quotidiano della Confindustria tirate filosofiche sulla fiducia tradita
al cittadino condonante, se per accidente la Corte di Giustizia europea
stabilisce che il condono Iva già usufruito era incompatibile con il
diritto comunitario e che quindi il maltolto deve essere restituito.(19)
Tra
leggi su misura e condoni tombali, inefficacia e lentezza dell’attività
di recupero, pubblici elogi del “sentimento di moralità” degli evasori e
politiche conseguenti, è davvero difficile stupirsi del fatto che si
sia ormai in presenza di una vera e propria crisi fiscale dello Stato. Aspetto non meno grave, siamo di fronte alla neutralizzazione e al capovolgimento per legge e per prassi del principio costituzionale della progressività delle imposte.
Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della
Repubblica Italiana i cittadini debbono pagare le tasse “in ragione
della loro capacità contributiva” e con un sistema tributario “informato
a criteri di progressività” (art. 53 della Costituzione). La
cosa, nell’indifferenza generale, ha formato mesi fa anche l’oggetto di
un preoccupato editoriale di Eugenio Scalfari su Repubblica: “la verità è
che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente classisti,
colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la
progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti
saluti al principio costituzionale”.(20)
Ma
in verità crisi fiscale dello Stato e regressività delle imposte sono
perversamente legate attraverso la riduzione della spesa pubblica. In
questo modo salariati e pensionati, già penalizzati perché pagano le
tasse, perché le pagano in misura proporzionalmente superiore alla loro
capacità contributiva, e perché vedono aumentare le tasse indirette sui
beni e le tariffe sui servizi pubblici, vengono colpiti una volta di più: attraverso la riduzione della qualità e dell’ampiezza di copertura dei servizi sociali,
che dovranno quindi comprarsi “sul mercato”. Che cosa questo significhi
lo capisce bene ogni lavoratore che abbia dovuto pagarsi una visita
medica o dentistica in uno studio privato. In questo caso, egli avrà
avuto anche l’occasione di sperimentare di persona come funzioni
realmente il “fisco distratto” nel nostro Paese: infatti nella metà dei
casi, a fronte di onorari assai esosi, non ha ricevuto alcuna ricevuta.(21)
3. Evasione fiscale, lotta di classe e “Italia dei piccoli”
Quanto sopra impone di considerare il problema della fiscalità in termini ben diversi da una questione di carattere morale: la fiscalità è infatti una delle forme storicamente più efficaci assunte dalla lotta di classe nel nostro Paese, e come tale va considerata. Di fatto, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato. Nel nostro Paese – caso unico tra le nazioni a capitalismo avanzato – il gettito proviene infatti in misura non solo prevalente, ma addirittura quasi esclusiva
dal lavoro dipendente. Mentre i padroni (ma anche le grandi
corporazioni professionali e la grande maggioranza dei lavoratori
autonomi) le tasse semplicemente non le pagano – o le pagano in
proporzione ridicola rispetto al reddito effettivo. A questo riguardo il
governo Berlusconi non ha fatto che portare alle estreme conseguenze le
caratteristiche di fondo del sistema fiscale italiano.
I
risultati di tutto questo sono ovvi tanto sul piano della funzionalità
dello Stato (devastata dagli effetti della crisi fiscale dello Stato,
assai più che dagli “sprechi”), quanto su quello dell’iniquità e delle
sperequazioni sociali: il (non) funzionamento del meccanismo fiscale
opera di fatto come un Robin Hood alla rovescia, che toglie ai poveri
per dare ai ricchi. Meno ovvia è un’altra conseguenza del “fallimento” fiscale: ossia il fatto che, nel corso dei decenni, esso ha
grandemente contribuito a rimescolare le carte all’interno della stessa
borghesia italiana, riconfigurandone le gerarchie, e creando specifiche
opportunità di sviluppo per alcune sue componenti a scapito di altre.
Tra gli effetti di lungo periodo dell’evasione fiscale, il principale è senz’altro rappresentato dalla struttura produttiva frammentata
(quella che una volta veniva elogiata come “l’Italia dei piccoli” ed
oggi finalmente si cominciare a chiamare “nanismo”): in effetti, l’evasione ha rappresentato uno dei principali fattori competitivi delle piccole imprese italiane.
Come
è noto, nel corso degli ultimi decenni il peso delle piccole imprese
sul totale delle aziende italiane (già superiore a quello di tutti gli
altri Paesi capitalistici avanzati) è costantemente aumentato: in altri
termini, il nanismo industriale italiano è cresciuto. Su questo
fenomeno è fiorita una vastissima letteratura apologetica. Si è
addirittura parlato dell’economia italiana come di un “calabrone” che
avrebbe sfidato con successo le leggi economiche, infrangendo (caso
unico al mondo) la legge per cui la crescita della dimensione delle
imprese (in termini di capitali impiegati e di mezzi di produzione posti
in opera) è un fattore determinante per il successo economico in una
economia capitalistica avanzata; o, se si vuole, confutando la
concezione marxista per cui la concentrazione e la centralizzazione dei
capitali rappresentano fondamentali tendenze immanenti allo sviluppo del
modo di produzione capitalistico.(22)
Tutte
sciocchezze, ovviamente. Il successo delle piccole imprese italiane era
infatti imperniato su 3 fattori: le periodiche svalutazioni competitive
della lira, il basso costo del lavoro (tra i più bassi dell’Europa dei
15), e – appunto – l’abnorme evasione fiscale, che per decenni ha
rappresentato il più significativo “aiuto di Stato” a questa tipologia
di imprese. Che l’evasione fiscale e contributiva (grazie all’evasione
in senso stretto ed al lavoro nero) abbia costituito nel corso degli
anni uno dei maggiori (indebiti) vantaggi competitivi per le piccole e
medie imprese è così poco un mistero, che alcuni autori ne parlano in
premessa dei loro ragionamenti su piccole imprese e distretti
industriali. Ecco ad esempio cosa scrivono Sebastiano Brusco e Sergio Paba:
“per ragioni diverse, soprattutto nella legislazione civilistica e
fiscale, le imprese minori sono state a lungo difese sia dalla destra
che dalla sinistra. Sino al principio degli anni novanta, ancora in
sostanziale concordia con l’opposizione, il governo ha consentito loro
livelli molto alti di evasione fiscale, sia per averne il consenso, sia
per compensarle della capacità di creare occupazione”.(23)Del
resto, persino Antonio Fazio, che non definiremmo uno strenuo difensore
dei diritti dei lavoratori, ha potuto parlare anni fa di “abnorme
estensione del lavoro irregolare”.(24)
Ed è il meno che si possa dire, in presenza circa tre milioni di unità
di lavoro irregolari presenti in Italia, che sottraggono al fisco 52,5
miliardi di euro di imponibile, pari a 10,8 miliardi di euro di imposta
(ciò senza contare l’evasione contributiva e l’evasione del valore
aggiunto prodotto da questi lavoratori in nero).(25)
Le cifre appena citate sono di grande aiuto per comporre il puzzle
della crisi attuale dell’economia italiana. Le cose stanno in maniera
molto semplice. Negli anni Ottanta e Novanta molte imprese sono
sopravvissute, ed anzi hanno prosperato, pur non essendo competitive. Lo
hanno potuto fare grazie a profitti illegali: ossia a profitti
che nascevano dalla violazione delle leggi fiscali (evasione) e dalle
leggi che regolano la contribuzione previdenziale (economia sommersa).
Qui ovviamente il discorso sulla fiscalità si lega ad un altro elemento
cruciale del “vantaggio competitivo” delle piccole e medie imprese: il
basso costo del lavoro. Entrambi gli elementi hanno cooperato a rendere
profittevoli imprese che non avrebbero potuto esserlo in assenza di quei
presupposti. Ed entrambi questi fattori sono stati periodicamente
rafforzati, fintantoché è stato possibile, dalle “svalutazioni
competitive”, che consentivano di ripristinare la concorrenzialità dei
prodotti italiani sul piano del prezzo; poi, come noto, quest’ultimo
fatto è venuto meno.
Di fatto, l’evasione fiscale ha consentito il proliferare di una forma tutta specifica e tutta italiana di rendita:
tanto con riguardo alle cosiddette libere professioni, quanto con
riguardo alle piccole imprese. I profitti così ottenuti sono stati
tesaurizzati (ossia dirottati verso i patrimoni personali e familiari
degli imprenditori), e molto più di rado reinvestiti nelle imprese.
Questo per due motivi: perché la contabilità parallela era parte
integrante del meccanismo dell’evasione, e perché il permanere in
dimensioni estremamente contenute d’impresa ed in nicchie anche assai
ristrette di mercato (risultato necessario della mancanza di
investimenti) era in fondo funzionale al mantenimento di quei margini di
profitto illegali. A questi due motivi “interni” ne possiamo poi
aggiungere un terzo, sottolineato di recente da Angelo Provasoli
e Guido Tabellini: “le imprese restano piccole e sottocapitalizzate
anche perché i mercati finanziari temono che i bilanci non siano
veritieri”.(26)
Tutto
questo ha concorso a tre fenomeni estremamente negativi per l’economia
italiana: indebolimento della grande industria, posizionamento della
frontiera competitiva italiana sulla competitività basata sul prezzo,
mantenimento di produzioni tradizionali con un basso tasso di
innovazione di prodotto e di incorporazione di ricerca (giacché la
ricerca costa e soltanto le medie e grandi imprese possono
permettersela). È anche di questo insieme di fenomeni che pagano oggi il
prezzo le centinaia di migliaia di lavoratori licenziati o in cassa
integrazione: perché è questo insieme di fenomeni che ha contribuito a
rendere gran parte delle produzioni italiane non competitive e che ha
fatto sì che al tracollo della produzione e dell’export nel 2008-2009
non abbia fatto seguito una ripresa significativa. Per dirla con
Pierluigi Ciocca, vicedirettore generale della Banca d’Italia, oggi il
sistema produttivo del nostro Paese paga limiti che risiedono
principalmente “nella qualità, nella composizione merceologica, nel
vecchio pertinace modello di specializzazione”; ed è proprio la ridotta
dimensione delle imprese che “congela quel modello, restringe
l’investimento all’estero, limita le esportazioni”.(27) Sono parole scritte ben prima della crisi attuale, ma che conservano tutta la loro attualità.
Il
forte nesso tra lotta all’evasione (quale strumento di redistribuzione
fiscale) e recupero della competitività di sistema è stato di recente
sottolineato da Salvatore Bragantini con
queste parole: “Una forte ridistribuzione del carico fiscale è il
bandolo della matassa; afferratolo, incideremmo sui nostri problemi. Per
tornare competitivi, attaccare la corruzione e instaurare la rule of law
è più importante che ridurre il costo del lavoro, lo provano fior di
ricerche. Le attività che vivacchiano grazie all’evasione chiuderanno ma
– integrando gli ammortizzatori sociali – ne usciremmo più forti.
Finirebbe il vantaggio competitivo di chi evade le tasse su chi le paga;
calerebbe il debito pubblico, e la corruzione che infesta il Paese”.(28)
4. Linee guida per una politica di equità fiscale
A
questo punto del nostro ragionamento, è possibile trarre una prima
conclusione in relazione al giudizio sulla crisi italiana attuale. Al
contrario di quanto afferma un diffuso luogo comune, non si può dire che
essa abbia tra le sue cause una fiscalità sfavorevole alle imprese,
come non si può dire che essa sia nata da costi del lavoro troppo
elevati. È vero il contrario: essa nasce in una situazione che vede una
fiscalità di fatto più che favorevole per le imprese (in particolare per
le imprese peggiori, che per una sorta di legge di Gresham
dell’imprenditoria si sono spesso fatte largo attraverso l’evasione a
spese di società più competitive, ma con il vizio insanabile di pagare
le tasse), e in un contesto caratterizzato da costi del lavoro
estremamente contenuti. Ma si può dire di più: forte evasione e bassi costi del lavoro sono tra le cause
della crisi italiana. Entrambi questi fattori non solo non hanno
giovato nel lungo periodo all’economia italiana, ma hanno contribuito a
spingerla nel vicolo cieco di un modello competitivo perdente, sotto
almeno due profili: scoraggiando l’innovazione ed il passaggio da
settori produttivi maturi a settori in sviluppo e a più elevato
contenuto tecnologico, e agendo da freno ai processi di concentrazione
industriale; ed è ancora una volta l’anomia fiscale italiana a produrre
effetti devastanti sulla capacità dello Stato di effettuare investimenti
che avrebbero migliorato le condizioni generali di produzione e, per
questa via, la competitività. Marcello De Cecco ha adoperato
l’espressione di “keynesismo delinquenziale”
per connotare l’evasione di massa legalizzata consentita in particolare
alle piccole imprese. Non si sottolineerà mai abbastanza come questo “keynesismo” (a differenza di quello stricto sensu)
non abbia svolto e non possa svolgere alcuna funzione progressiva in
termini di sviluppo delle forze produttive e di aumento della ricchezza
socialmente prodotta.(29)
Al contrario, esso rappresenta un enorme macigno sulle possibilità per
questo Paese di situarsi su una frontiera competitiva decente e non
regressiva (e perdente).
Se
questo è vero, il tema della lotta all’iniquità fiscale oggi, in
particolare in Italia, è centrale sia sul terreno della lotta di classe,
sia su quello dello sviluppo economico (oltreché sociale e civile) del
Paese. È anche un tema praticabile? Sul punto, come noto, sussiste ormai
una sorta di “fatalismo turco” soprattutto a sinistra. Si è diffusa
l’idea che sia strutturalmente impossibile combattere l’evasione e che
comunque condurre una battaglia di questo tipo sarebbe impopolare tra
gli stessi ceti maggiormente rappresentati dalla sinistra e dal
centro-sinistra. Entrambi gli assunti sono falsi. La verità è che per
condurre con efficacia tale battaglia sono oggi disponibili tutti gli
strumenti tecnici necessari: semplicemente, occorre la volontà politica
di usarli. Per usare le parole di Provasoli e
Tabellini: “Non vi è una ragione tecnica che spieghi perché l’evasione
fiscale sia così diffusa nel nostro paese, tanto da essere un fenomeno
di massa. La ragione è politica. Se davvero si volesse, l’evasione
fiscale potrebbe essere sostanzialmente debellata con investimenti non
elevati”.(30)
Quanto alla presunta impopolarità, altra diffusa credenza connessa alla
prima, essa trova in realtà la sua motivazione negli errori compiuti in
passato, ed in particolare dalla “politica dei due tempi” seguita
dall’ultimo governo Prodi, che con mossa di sconfortante insipienza ha
in primo luogo colpito i lavoratori dipendenti con un sostanziale
aumento delle tasse (finanziaria 2006), e solo dopo ha intrapreso una
lotta (in parte anche efficace) contro l’evasione: creando in tal modo
una paradossale solidarietà tra i tartassati veri (i salariati) e i
ladri fiscali.
La politica dei due tempi, semmai, dev’essere
rovesciata. Per il semplice motivo che “se non si riduce drasticamente
l’entità dell’evasione fiscale nel nostro Paese nessun intervento
strutturale credibile sarà proponibile”.(31)
Ma anche per un altro motivo: perché solo in tal modo sarà possibile
rendere percepibile ai veri tartassati dal fisco il nesso tra quella
battaglia e il miglioramento della loro situazione. Il modo migliore per
ottenere questo risultato è quello di adoperare il gettito recuperato
proveniente dalla lotta all’evasione (o una sua quota, che comunque non
dovrà essere inferiore al 50%) per ridurre le aliquote delle fasce
Irpef, a partire da quelle più basse. In questo modo si renderà
percepibile chi è realmente il derubato dall’evasore, e quindi deve
beneficiare della lotta all’evasione. Se, come si è plausibilmente
sostenuto, l’obiettivo di dimezzare l’evasione fiscale nel torno di una
legislatura è raggiungibile, è evidente che le risorse disponibili per
questa redistribuzione (per una volta dall’alto verso il basso, e non
viceversa) sarebbero considerevoli. Gli strumenti principali di questa
lotta all’evasione sono già tecnicamente disponibili: si tratta della
tracciabilità delle transazioni introdotta dal governo Prodi (e
prontamente azzerata dal successivo governo Berlusconi, salvo recuperla
incompletamente due anni dopo), a cui andrebbe aggiunta la trasmissione
automatica al fisco dei saldi finanziari di tutti i contribuenti (già
tecnicamente possibile grazie all’anagrafe dei conti correnti fiscali).(32)
In parallelo alla lotta all’evasione andrà avviato un ribilanciamento
della fiscalità dalle attività economiche produttive alla rendita, dal
risparmio alle attività speculative (ad es. tassando in misura maggiore
le seconde case e terze case, aumentando dal 12,5% al 20% la tassazione
dei redditi da capitale e riducendo invece dal 27% al 20% l’imposta sul
conto corrente). Si tratta di proposte talmente rivoluzionarie che una
parte di esse è stata recentemente avanzata dall’Ocse.(33)Oltre
a questo va introdotta una tassa sulle grandi fortune (che già esiste
in Francia al di sopra dei 790.000 euro di patrimonio) e una vera e
propria tassa patrimoniale. Infine, è proponibile una rimodulazione e
maggiore articolazione delle aliquote fiscali, introducendo ulteriori
scalettature che consentano di colpire maggiormente i redditi più alti
(per i quali non sembra inappropriato stabilire una tassazione pari o
superiore al 50%).(34)
Non sembra invece accettabile aumentare il carico fiscale sulle imposte
indirette; al riguardo va tra l’altro tenuto presente che l’imposta Iva
è tra le più evase, e che quindi una lotta conseguente contro
l’evasione consentirebbe di aumentare il gettito Iva di un importo tra
il 2% e il 3% del Pil senza alcun aumento di aliquote.(35)
5. Conclusione: No taxation without representation
L’applicazione all’Italia di oggi del famoso slogan dei Tea Parties
americani (quelli originali del Settecento, non la destra parafascista
dei giorni nostri) darebbe risultati decisamente paradossali. Per il
semplice motivo che chi oggi nel nostro Paese paga gran parte delle
tasse non gode di alcuna decente rappresentanza né in Parlamento né sui
media. Nel primo caso, è arcinoto infatti che gran parte del corpo
parlamentare proviene dai ranghi delle cosiddette libere professioni
(che sono invece perlopiù corporazioni parafeudali), mentre del tutto
esiguo è il numero dei lavoratori del settore privato (un po’ meglio
vanno le cose per quanto riguarda il settore pubblico, esso stesso
comunque sottorappresentato). Quanto al secondo, non occorre particolare
acume per intendere che la realtà del lavoro è intenzionalmente
rigettata dal mondo del nostro infotainment,
televisivo e no. Nonostante questo, e nonostante la costante
manipolazione mediatico-populistica del tema delle tasse, a quanto pare
la stragrande maggioranza degli Italiani ha le idee piuttosto chiare in
materia: secondo un sondaggio Censis condotto nel novembre 2010
l’evasione è considerata un problema gravissimo o grave dall’89,7% degli
intervistati; inoltre il 58% degli intervistati ritiene (del tutto a
ragione) che l’evasione sia aumentata negli ultimi 3 anni; infine,
appena un 11% degli intervistati crede alla favoletta dell’evasione “per necessità”.(36)
Ce
n’è abbastanza per ritenere che oggi la battaglia per un fisco equo,
che rappresenta un tassello essenziale per riprendere il percorso
interrotto della modernizzazione del nostro Paese, avrebbe anche il
consenso necessario per essere portata avanti con successo. La palla
passa quindi, in questo come in molti altri casi, ai soggetti – politici
e sociali – che vogliano raccogliere e far propria questa elementare
esigenza di giustizia e di progresso sociale ed economico. Ma anche qui,
a ben vedere, si torna a parlare del problema della rappresentanza di
ceti e classi che da tempo non hanno più voce.
1 Per una critica in dettaglio di questo imbarazzante documento, un vero e proprio guazzabuglio di corbellerie pseudoteoriche, si veda M. Prospero, La lezione filosofica della riforma fiscale, in il manifesto, 3 febbraio 2005.
2 Elogio delle società offshore, vero presidio di libertà, in Panorama Economy, 27 ottobre 2010.
3 Prospettive di riforma fiscale in Italia, ottobre
2010, p. 5. Il contributo, alla cui stesura hanno partecipato tra gli
altri Maria Cecilia Guerra, Tommaso Di Tanno e Vincenzo Visco, è
scaricabile dal sito www.fiscoequo.it , la rivista telematica dell’associazione Legalità ed equità fiscale.
4 Vedi ad es. C. Marazzi, Capitale & linguaggio. Dalla New Economy all’economia di guerra, Roma, DeriveApprodi, 20022, p. 13.
5
Si pensi anche soltanto alle “spese per la difesa nazionale”, che per i
soli Stati Uniti sono ammontate a qualcosa come 800 miliardi di dollari
nell’ultimo esercizio fiscale.
6 G. Lakoff, Non pensare all’elefante!, 2004; tr. it. Roma, Fusi orari, 2006, p. 17.
7 G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Torino, Einaudi, 2010, pp. 54-55.
8 Prospettive di riforma fiscale in Italia, cit., p. 1.
9 D. Di Vico, Gli alibi finiti sull’evasione e l’impegno che serve, Corriere della Sera, 22 maggio 2010; Prospettive, cit., p. 2; A. Provasoli, G. Tabellini, Il fisco e i patrimoni da accertare, in Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2010.
10 Cifre tratte da S. Tutino, Economia sommersa, evasione fiscale e strumenti di contrasto; vedi anche S. Pisani, Metodi di stima dell’evasione basati sul confronto tra dati statistici e dati fiscali”, relazione al Workshop Le cifre dell’economia sommersa e il loro utilizzo, Università degli Studi di Napoli, 24 marzo 2003. Vedi anche S. Tamburello, Economia sommersa a quota 317 miliardi nel 2003, in Corriere della Sera, 25 agosto 2003 e F. Schneider - D.H. Ernste, Shadow Economics: Size, Causes and Consequences, in Journal of Economic Literature, 2000, p. 104.
11 Berlusconi chiude i conti (quelli con il fisco), in MF, 5.9.2003.
12 O. Saccone, Condono 2002, gli evasori dimenticano di versare 4,6 mld, scaricabile da http://www.fiscoequo.it .
13 Il 10-15% di questi capitali sono tornati all'estero quasi subito: Tre miliardi di euro tornati in Svizzera, in il Sole 24 ore, 13.10.2003.
14
Sono chiamate “immobilizzate” le partecipazioni di lungo periodo delle
imprese, cioè quelle partecipazioni non assunte per “fare trading”,
ossia per compiere speculazioni di breve periodo; a tali partecipazioni
– che sono inserite in una parte specifica del bilancio – appartengono
ovviamente quelle che consentono il controllo azionario di una società.
15 L’iniqua politica fiscale del governo Berlusconi, sconti ai ricchi e più evasione, 30 novembre 2010, scaricabile dal sito: http://www.fiscoequo.it . A questo documento ci si riferirà anche per quello che segue.
16 Ibidem. Sul punto vedi anche V. Visco, Occhio (telematico) ai furbi, il Sole 24 Ore, 30 maggio 2010.
17 V. Malagutti, Tremonti flop, il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010.
18 M. Giannini, Mondadori salvata dal Fisco, uno scandalo ‘ad aziendam’ nell’interesse del Cavaliere, la Repubblica, 19 agosto 2010.
19 Vedi, rispettivamente, Debito pubblico record: 1.870 miliardi. Sono 31 mila euro per ogni cittadino, la Repubblica, 14 gennaio 2011 e S. Padula, Se il fisco punisce chi condona, il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2010.
20 E. Scalfari, Il fisco classista che blocca il Paese, la Repubblica, 5 settembre 2010.
21 Secondo un’indagine condotta anni fa dalla Swg,
alla domanda circa le categorie professionali che più spesso non
rilasciano fatture per le loro prestazioni, gli intervistati hanno
risposto: “il 45% medici e dentisti; il 17% i commercianti; il 14% gli
idraulici; il 10% i parrucchieri; l’8% i meccanici, gommisti, elettrauto
e carrozzieri; il 7% bar e ristoranti; il 26% altri artigiani
(elettricisti, falegnami, pittori, tecnici); l’11% gli avvocati”. Vedi
G. Contin, Grandi evasori, tasse non pagate per 10 manovre, Liberazione, 23 dicembre 2004.
22 Vedi ad esempio in K. Marx, Il Capitale, libro III, i capp. 13 e 15.
23 S. Brusco, S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi, Donzelli, Roma
1997, p. 265. Questa analisi è condivisibile, ad eccezione di un solo –
ma rilevante – aspetto: negli anni Novanta non si è verificata alcuna
cesura sotto il profilo dell’impunità fiscale. E, come abbiamo visto
sopra, in tempi più recenti l’evasione è stata smaccatamente protetta e
difesa.
24 Nelle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia, 31 maggio 2003, p. 20.
25 Dati dell’Ufficio Studi della CGIA di Mestre: vedi Teleborsa, 26 maggio 2010.
26 A. Provasoli, G. Tabellini, Come battere l’evasione fiscale in due mosse, il Sole 24 Ore, 3 giugno 2010.
27 P. Ciocca, L’economia italiana: un problema di crescita, relazione letta alla Società italiana degli economisti, Salerno, 25.10.2003, p. 1, 3, 8.
28 S. Bragantini, Battaglia (vera) contro l’evasione per rilanciare la competitività, Corriere della Sera, 14 aprile 2010.
29
Un eloquente esempio delle sciocchezze correnti al riguardo anche nel
centrosinistra è offerto dalla risposta di Michele Serra a un’indignata
lettrice del Venerdì di Repubblica (la quale gli comunicava di
non riuscire a trovare lavoro se non al nero): in essa si afferma tra
l’altro che “lavoro nero, evasione fiscale, elusione di leggi e di norme
sono stati il lievito di una crescita formidabile ma disordinata… Che ha prodotto un evidente progresso economico, ma anche un altrettanto evidente regresso etico e civile” (Venerdì di Repubblica,
21 gennaio 2011, p. 16). Si tratta di affermazioni che non trovano
alcun riscontro fattuale, ma in compenso rappresentano un’eccellente
raffigurazione della sciocca deriva pseudo-etica di una “sinistra” che ha perduto qualsivoglia capacità di leggere i più elementari dati economici.
30 A. Provasoli, G. Tabellini, Il fisco e i patrimoni da accertare, il Sole 24 Ore, 14 aprile 2010.
31 Prospettive di riforma fiscale in Italia, cit., premessa.
32 Prospettive di riforma fiscale in Italia, cit., p. 3.
33 Ocse. La ricetta per la crescita: “Tassare gli immobili non le imprese”, Corriere della Sera, 15 dicembre 2010.
34 L’ipotesi, avanzata nel più volte citato documento Prospettive di riforma fiscale in Italia,
di ridurre la prima aliquota dal 23% al 20% e quella del 38% al 36% (p.
6), appaiono praticabili solo in quanto oltre un determinato tetto di
reddito scattino imposte superiori al limite massimo attuale, che è del
43%.
35 Prospettive di riforma fiscale in Italia, cit., p. 7.
36 M. C. Guerra, Gli Italiani e l’evasione fiscale, in www.lavoce.info, 2 novembre 2010: articolo scaricabile da http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001988.html
. Quanto alla cosiddetta “evasione di necessità”, si può aggiungere che
non è affatto necessario che il contrasto all’evasione debba
prioritariamente rivolgersi ad essa.
da Politica e Classe, Giugno 2011
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