giovedì 25 luglio 2013

L'austerity? E' servita solo ad aumentare il debito pubblico


Nei primi tre mesi dell'anno - la notizia è di ieri, diffusa da Eurostat - il debito pubblico italiano ha sfondato la quota del 130 per cento. Solo la Grecia ha un debito più elevato, intorno al 160 per cento del suo prodotto interno lordo. Il dato, preso isolatamente, significa poco. Più interessante sarebbe capire come mai dopo un triennio di interventi, tagli alla spesa pubblica e strette fiscali, il nostro debito pubblico continui a salire in rapporto al Pil. Al momento dell'insediamento del governo Monti la proporzione tra il debito e il prodotto interno lordo era intorno al 120 per cento. Un anno dopo, questo rapporto era salito al 127 per cento. Oggi, senza mai interrompere la corsa verso l'alto, il debito è oltre quota 130. Ne discutiamo con l'economista Vladimiro Giacché.
Se questi sono i dati, le politiche di austerità applicate già a partire dal governo Berlusconi non hanno avuto nessuna efficacia. Nonostante gli interventi per rientrare dal debito, la percentuale continua a salire. Come mai?
Le misure adottate sono state molto efficaci nell'aumentare il debito pubblico. Le manovre di austerity, così come si sono configurate nel nostro paese, non potevano non avere l'effetto di deprimere il nostro prodotto interno lordo in misura significativa. Siccome nel rapporto tra debito e Pil non si guarda alle cifre assolute del debito, ma alla sua proporzione rispetto al prodotto interno lordo, è evidente che anche se si riducesse per ipotesi il debito, ma al prezzo di deprimere l'economia e far diminuire il Pil in misura significativa, automaticamente il rapporto aumenta. Questo è quel che è accaduto in tutti i paesi coinvolti dalla crei del debito pubblico. E' la logica conseguenza delle misure intraprese. Vorrei rivendicare, non solo per quanto riguarda me, ma per una serie di economisti critici, di aver detto queste cose con molto anticipo. Purtroppo siamo rimasti inascoltati benché le nostre argomentazioni fossero lineari. Molte cose che sono state scoperte negli ultimi mesi, erano state ampiamente previste. Quando il Fondo monetario ci dice che ha dovuto ricalcolare il cosiddetto “moltiplicatore fiscale", cioè gli effetti negativi di una stretta fiscale sul prodotto - e che questi effetti non corrispondono allo 0,5, come lo stesso Fmi prima riteneva, ma in qualche caso dell'1,5, si trattava di cose già previste. Per una stretta fiscale dell'entità di 50 miliardi di euro, ad esempio, il calo del Pil sarà superiore a 50 miliardi e non soltanto di 25 miliardi. Uno dei motivi di questo impatto maggiore di quanto il Fmi ritenesse, è che la zona euro è integrata. Se tutti fanno una stretta fiscale nello stesso tempo, ognuno ha non solo un problema di calo di domanda interna, ma anche nelle esportazioni. Tutto questo era stato scritto da me e da altri già a partire dal 2010. Paghiamo un prezzo pesante alle ideologie e agli interessi di chi ha convenienza a sferrare l'attacco finale al welfare. Per esempio, gli interessi dei privati che subentrano nella gestione dei servizi prima pubblici. Questo processo porta non solo all'impoverimento della già esigua ricchezza dei lavoratori, ma alla ricchezza complessiva dell'intera società. Siccome il prodotto interno lordo nei paesi industriali avanzati è in larga parte derivante dai consumi interni, è chiaro che quando si ha una caduta molto forte di questi consumi, si determina un impoverimento generalizzato. L'esportazione del modello tedesco di una competitività, basato su il contenimento estremo dei salari e, allo stesso tempo, delle tasse alle imprese, ai paesi del Sud Europa ha effetti catastrofici per tutte le economie.
E' il modello di relazioni che nasce con l'Agenda 2010, la riforma del mercato del lavoro nata per iniziativa dell'ex Cancelliere socialdemocratico Schröder. Negli ultimi anni è costata molto alla Spd in termini elettorali.
Sì, proprio quella, E ora viene esportata nei paesi del Sud dell'Europa. Mi conforta solo che la Linke abbia fatto in Germania un'analisi precisa di questa situazione ed evidenziati gli effetti fallimentari dell'Agenda 2010 che ha già impoverito i lavoratori tedeschi. Mi rendo conto che in Italia questo dato sia controintuitivo perché tutti si immaginano che i lavoratori tedeschi sguazzino nell'oro. Ma la realtà è che negli ultimi quindici anni in Germania è stato costruito un mercato del lavoro dualistico. Una parte di lavoratori è tuttora pagata relativamente bene, ma un'altra componente dell'economia - soprattutto quella legata ai servizi - è del tutto precarizzata grazie all'introduzione dei minijob a 480 euro al mese.
La diffusione di questi contratti, tra l'altro, consente alla Germania di occultare il proprio tasso di disoccupazione. O no?
Non solo. Siccome lo Stato deve aggiungere qualcosa a questi esigui stipendi, almeno in termini di contributi e accesso agevolato ai servizi, tutto ciò si traduce in un aiuto di stato alle imprese che, in quanto tale, andrebbe sanzionato dall'Unione Europea. Quando l'Europa si sveglierà, magari proverà a fare non solo gli interessi della Germania.
Che le politiche di austerità non raggiungano gli obiettivi dichiarati è forse noto persino a chi le sostiene. Le stesse istituzioni che fino a oggi hanno sollecitato l'applicazione delle ricette liberiste e delle politiche di austerità cominciano a nutrire più d'un dubbio che la causa effettiva della crisi dell'euro sia il debito pubblico. Lo stesso vicepresidente della Bce, Vitor Costancio, ha sostenuto di recente che lo squilibrio nell'area valutaria dell'euro siano dovuti soprattutto all'indebitamento privato. L'aumento del debito pubblico comincerebbe in realtà solo dopo il 2007, cioè dopo l'esplosione della bolla del debito privato, gonfiato dai crediti che le banche del Nord Europa hanno concesso alle banche del Sud e, indirettamente, alle famiglie e alle imprese dei paesi periferici dell'Europa, grazie al surplus commerciale dei paesi settentrionali. Dov'è allora l'utilità delle misure di austerity di rientro dal debito se non negli effetti politici che esse provocano?
C'è un interesse politico basato su un'analisi molto fredda della situazione. Si ritiene che per affrontare la competitività internazionale l'Europa abbia ancora del grasso da togliere dal welfare - il che, in ultima analisi, significa colpire i salari indiretti, perché i servizi sociali erogati dallo Stato e le pensioni sono salari differiti. Secondo questo schema ideologico, tagliando i costi dello stato sociale le imprese potranno tornare a fare profitti. Questa, credo, sia la vera intenzione. C'è, tuttavia, anche una valutazione sbagliata che, forse, qualcuno ancora condivide, secondo cui l crisi in Europa fosse originata dal debito pubblico. Non è così. E non è mai stato così. Il debito pubblico è una conseguenza della crisi. Primo, in una situazione di crisi molto forte diminuiscono le entrate di uno Stato. La gente guadagna di meno e versa meno tasse. Secondo, i conti dello Stato peggiorano perché se crolla il Pil, la proporzione del debito rispetto a esso aumenta - e si allontana dai parametri artificiali di Maastricht. Terzo, c'è stato un ingente trasferimento da debito pubblico a privato avvenuto nella prima fase della crisi tra il 2008 e il 2009. Secondo le cifre pubblicate dalla Bank of England pubblicate alla metà del 2009 gli Stati europei e gli Stati Uniti, insieme, avevano speso in garanzia o in prestito alle banche la cifra complessiva di 1400 miliardi di euro, pari al 50 per cento del prodotto interno lordo di tutti questi paesi messi assieme. E' ovvio che una cifra di questa entità non può che far peggiorare il bilancio pubblico. Quarto, motivo fondamentale ma a lungo trascurato, quando è iniziata la crisi i paesi del Nord Europa che avevano prestato soldi a quelli del Sud, non per beneficenza ma perché sfruttavano tassi superiori in una situazione che si riteneva esente da rischi, hanno cominciato a riportare a casa i soldi. Un po' per una maggiore preoccupazione nei confronti di questi paesi, un po' perché avevano problemi a casa da tamponare. In particolare, credo si continui a sottovalutare il rischio che tuttora corre il sistema bancario tedesco, molto più verosimile di quanto si pensi e si dica. Avrebbe bisogno di un'ingente ricapitalizzazione. Per questo motivo sono stati riportati a casa molti di quei soldi. Ed è per questo che la Germania sta di fatto impedendo l'unione bancaria. Da una parte, il numero delle banche che possono essere controllate dalla Bce è ridotto a pochissime banche che hanno asset, impieghi e portafogli superiori ai trenta miliardi di euro. Il sistema bancario tedesco è ancora poco concentrato. Dall'altra, si cerca di dilazionare il più possibile l'avvio della supervisione da parte della Bce. Il motivo è molto semplice. Le banche tedesche vogliono evitare che qualcuno che guardi i loro bilanci in maniera più disinteressata. Se è vero allora che il debito pubblico non è all'origine della crisi, tutta la terapia che è stata impostata, è stata sbagliata. Esattamente come avvenne negli anni Trenta, quando si affrontò la crisi con restrizioni di bilancio insensate. Allora le cose non andarono molto bene. La parte peggiore della crisi si manifestò dopo il '29 a causa di queste manovre in tutti i paesi. In Germania la ripresa arrivò più tardi con il riarmo e, poi, con la guerra. Ovviamente non si possono fare parallelismi meccanici, ma non va trascurato il fatto che siano già in atto guerre valutarie, che ci sia una ripresa del protezionismo e, soprattutto, una sempre maggiore aggressività del capitale, sia all'esterno sotto forma di interventi militari, sia all'interno nei confronti del lavoro. Come dice il miliardario americano Warren Buffett, “la lotta di classe esiste ancora e l'abbiamo vinta noi". L'ideologia post-89 secondo cui il mercato risolve tutto, si è diffusa paradossalmente in questa crisi. Purtroppo è diventata una cultura di massa. Se guardiamo alle forze presenti in parlamento sono pochissime quelle che non condividono l'idea che lo Stato debba ridurre il suo ruolo. Da questa crisi non si esce se non aumenta il potere di investimento e di coordinazione delle attività economiche da parte del settore pubblico. Oggi il mercato è in grado solo di peggiorare la situazione.
Tonino Bucci, Liberazione.it

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