“Ma secondo voi, nel mondo di domani, o di oggi, dove va un
territorio che pretende di essere sviluppato, di guardare al mondo, di
avere relazioni culturali, economiche, sociali con l’Europa e mi insulta
un ministro perché è nero? Ma dove va? Dove va Milano? Dove va la
Lombardia?”.
Sono le parole di Pier Luigi Bersani alla festa del Partito
democratico di Cornaredo (Mi), dopo la battuta razzista del
vicepresidente del senato Roberto Calderoli sulla ministra
dell’integrazione Cécile Kyenge. Domande retoriche sacrosante che l’ex
segretario del Pd dovrebbe rivolgere prima di tutto a se stesso.
Due anni e mezzo fa, nel febbraio del 2011, cioè prima che la Lega
nord cappottasse sotto gli scandali dei figli di Bossi e del tesoriere
Belsito, e che fosse costretta ad arroccare in Lombardia (appunto),
Bersani rilasciava una celebre intervista a La Padania. Rileggerla oggi
fa una discreta impressione (per chi ancora riesce a impressionarsi,
certo). Eccola qui.
In quella intervista Bersani tendeva la mano alla Lega per
convincerla a mollare Berlusconi, titillandone le aspirazioni
federaliste e sostenendo che il Pd e la Lega erano gli unici due partiti
sinceramente autonomisti dell’arco parlamentare. Quanto al problemuccio
del razzismo, Bersani affermava: “Non ho bisogno che qualcuno mi
spieghi che la Lega non è razzista. Lo so”. E metteva poi in guardia:
“Dico che la Lega non è razzista, ma attenzione: a incoraggiare certe
pulsioni il razzismo si può produrlo”.
Interessante circonvoluzione semantica: si può non essere razzisti
incoraggiando pulsioni razziste. Ah, sì? Come se il razzismo fosse
un’etichetta che uno si sceglie e non, appunto, una serie di
comportamenti che rispondono a determinate pulsioni, sulle quali la Lega
lombarda prima e la Lega nord poi hanno costruito un intero percorso
politico. Come se il razzismo non fosse da secoli un modo di pensare
funzionale al mantenimento di un sistema di sfruttamento e
discriminazione.
Forse, se invece di lanciarsi in opportunistici non sensi logici da
furbini del deserto, i sedicenti democratici avessero combattuto i
razzisti dall’inizio e senza quartiere, oggi non ce li ritroveremmo bel
belli dentro le istituzioni. Ma il punto è che non potevano farlo,
perché quando si dismette il piano della battaglia per l’affermazione
dei diritti e delle istanze sociali, e ci si dedica anima e corpo alla
gestione dello status quo, tocca poi gestirlo con chi c’è. “È
quest’acqua qua”, direbbe Crozza/Bersani. Acqua putrida, di fogna, in
cui si cerca di varare una nave, o piuttosto una zattera, per stare a
galla, invece di costruire un depuratore.
Come ancora rilevava Bersani in quell’intervista, la Lega nord ha
prosperato a lungo sul terreno perso dalla sinistra e quindi non poteva
essere tanto male: “Io ricordo Bossi che girava il nord nei primi anni
ottanta, lo andavo a osservare. Vidi fin d’allora che lì c’era qualcosa
di interessante: una radice autonomista, antiburocratica e
moralizzatrice dal punto di vista della serietà dell’azione
amministrativa. Così fino ai primi anni novanta: non direi costola della
sinistra, ma certo tanta gente di sinistra divenne leghista, e io non
ritenevo che fosse andata del tutto… ‘fuori casa’”.
Con questi nuovi amministratori “seri” e “antiburocratici” si
potevano costruire buone relazioni: “Pensavo e penso, ad esempio, che
l’Emilia-Romagna debba sviluppare potenzialità e relazioni con le
regioni vicine. Chiamiamolo Nord. Volete chiamarla Padania? Come
preferite”.
Mica vorremmo che le relazioni culturali, economiche, sociali si
fermino davanti a questioni nominali, no? E davanti a una battuta
razzista?
This is the world that we live in, cantavano i Killers in una hit di
qualche anno fa. Non si vorrà essere ancora così ideologici da
pretendere di cambiarlo questo mondo?
Il ventennio berlusconiano, che forse volge al tramonto, ha visto
salire alla ribalta e radicarsi nei centri di potere politico e
istituzionale gente non necessariamente peggiore sul piano morale di
quella della prima repubblica, ma che senz’altro non si è più posta il
problema di salvare le apparenze. Quindi ha potuto incoraggiare – o
meglio, istigare – determinate idee, reazioni, comportamenti, senza
alcuna remora. Con questa gente – fossero ex picchiatori fascisti,
autoimprenditori xenofobi nordisti, mammasantissima sudisti, o
fancazzisti del bar sport in cerca di primo impiego parlamentare – i
sedicenti democratici hanno costruito un’inverosimile ipotesi di
normalizzazione del paese. Continuando intanto a pretendere di essere
migliori.
Migliori. Due anni e mezzo fa il Pd cercava di sganciare la Lega da
Berlusconi, adesso è il Pd a essere al governo con Berlusconi. Con buona
pace di Bersani che si chiede dove vadano Milano e la Lombardia…
Sic transit ignominia mundi.
La normalizzazione forzosa e l’abbattimento delle dogane filosofiche e
culturali servono ai buoni affari, agli appalti, alle grandi opere,
alle colate di cemento sui territori e sulla testa delle popolazioni, ma
nuocciono ad altri aspetti, che toccano altrettanto la sostanza della
vita civile e le sorti collettive.
Del resto, il Partito democratico si fonda precisamente su due
equivoci culturali, quelli che lo rendono ab origine una forza politica
del tutto inservibile per qualsivoglia riforma (e tutt’al più utile per
alcune controriforme): la pretesa di essere al tempo stesso liberisti e
socialdemocratici, da un lato; e quella di essere laici e
filoconfessionali, dall’altro. Questo determina l’impasse, poi
l’immobilità, via via fino al rigor mortis.
La vicenda dei reiterati insulti alla ministra Kyenge per il fatto di
essere nera e donna (qualcuno infatti ha anche inneggiato allo stupro,
ma così, tanto per scherzo…) è una perfetta cartina al tornasole.
Il governo del non-fare, che in questo momento occupa la plancia del
Titanic facendo finta di pilotare, ha in organico una ministra la cui
designazione può significare una cosa sola: ius soli. Ma lo ius soli non
potrà mai essere finché si ha la necessità di abbozzare con gli alleati
di governo e di normalizzare certi avversari impresentabili. Di stare
cioè tutti insieme appassionatamente sul transatlantico.
Così come non si potrà mai avere una legge decente sulla fecondazione
eterologa, né i matrimoni gay ormai approvati in tutto il mondo
occidentale, né l’attuazione della legge 194 sull’interruzione di
gravidanza (attualmente disattesa grazie alla presenza dell’80 per cento
di obiettori di coscienza negli ospedali italiani), né la riduzione dei
finanziamenti alle scuole private paritarie confessionali in favore del
rifinanziamento della scuola pubblica… se si deve tenere buona la
propria componente confessionalista cattolica.
I sedicenti democratici non possono scegliere tra gli operai e
Marchionne, tra lo stato laico e la chiesa, tra la libertà e la
discriminazione, perché hanno deciso che tutto si può tenere assieme,
che il conflitto può essere negato, e di questa negazione hanno fatto la
propria ragione sociale. Ma è una ragione sociale fallata, che infatti
ha prodotto una débâcle clamorosa. Un partito che era nato con tre
obiettivi: sconfiggere Berlusconi, diventare maggioritario, fare le
riforme, è riuscito a mancarli tutti. Date le premesse, le cose non
sarebbero potute andare diversamente.
Bersani e i suoi sodali meritano il paese che hanno contribuito a
costruire. Un paese dove una ministra viene sfottuta e insultata da un
rappresentante delle istituzioni perché è nera. Dove solo una donna su
due ha un impiego. Dove le donne povere hanno ripreso ad abortire
clandestinamente. Dove il monte ore di cassa integrazione sembra
l’Everest e i lavoratori di qualunque età vivono in bilico tra
precarietà e disoccupazione. Dove solo un bambino su dieci ha un posto
all’asilo nido. Dove i cittadini stranieri sono sottoposti al ricatto
dei datori di lavoro per avere il permesso di soggiorno, senza il quale
rischiano di essere espulsi, dopo essere transitati per le prigioni
etniche (istituite dalla legge Turco-Napolitano nel 1998). Dove i
movimenti sociali che cercano di opporsi all’avanzata del peggio vengono
manganellati e repressi.
Certo è chiedere troppo che i sedicenti democratici si rendano conto
di essere ormai il principale ostacolo politico alla rinascita di una
sinistra che possa dirsi tale. Tuttavia potrebbero almeno risparmiarci
lo spettacolo ipocrita della loro chiassosa indignazione per le battute
dei razzisti che fino a ieri consideravano buoni interlocutori.
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