È morto ieri a Napoli l'economista Augusto Graziani. Nato il 4 maggio
del 1933, si è spento dopo una lunga malattia nella sua casa, intorno
alle 14. Grazian è stato ordinario di Economia politica
nell'università «La Sapienza» di Roma ed era Accademico dei Lincei. Ha
segnato il pensiero economico italiano insieme a Federico Caffè e
numerosi altri studiosi di formazione marxista. Uno tra i pochi a
guardare in modo critico l'osannata nascista della "moneta comune"
europea.Sulla qualità delle analisi
di Augusto Graziani ci sembra folgorante questo intervento di 30 anni
fa, che - cambiando nomi e formule - sembra scritto per l'oggi.
*****
CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE[1]
Una spregiudicata analisi
della politica economica del nostro Paese
della politica economica del nostro Paese
Augusto Graziani
Manterrò
le mie osservazioni al livello del commento ad eventi che mi sembrano
degni di essere ripercorsi e ricostruiti dell’esperienza italiana di
quest’ultimo decennio. Cercherò di fare una sorta di ricostruzione
logica degli eventi, anche se, come tutte le ricostruzioni logiche,
forse peccherà per mancanza di alcuni elementi interni.
Un
punto di partenza di questa ricostruzione, forse, possiamo trovarlo in
quello che, con un termine un tantino esagerato e drammatico, potremmo
chiamare il capovolgimento della politica valutaria del nostro Paese nel
1979, l’anno dell’adesione al sistema monetario europeo.
Negli
anni precedenti al ‘79, le autorità monetarie italiane avevano seguito
la famosa linea della svalutazione differenziata, approfittando del
regime di cambi flessibili (che tecnicamente consentiva questa manovra),
cercando .di tenere la lira tendenzialmente svalutata rispetto all’area
del marco, in maniera da favorire le esportazioni e cercando, invece,
di ridurre la svalutazione nei confronti del dollaro, per ridurre il
costo delle importazioni. Attraverso questa manovra del cambio, in
quegli anni di cambi flessibili sul piano internazionale e di continua
inflazione che le autorità sembravano disposte ad accordare, si era
messa in moto una spirale di svalutazione e inflazione, di aumenti dei
salari monetari, con probabile riduzione dei salari reali che, in fondo,
favoriva gli esportatori e gli imprenditori in generale.
Dopo
il ‘79, viceversa, con l’adesione al sistema monetario europeo, il
rapporto di cambio con il marco doveva essere tenuto tendenzialmente
stabile e quindi la politica valutaria si è mossa entro vincoli molto
diversi. A partire dall’’80, poi, il dollaro, invece di svalutarsi
rispetto al marco, aveva iniziato la sua corsa ascendente che è durata
fino a poche settimane or sono.
In
questo diverso contesto internazionale, però, anche le autorità
italiane fanno scelte diverse. Se noi osserviamo i fatti come si sono
svolti, ci accorgiamo che le autorità monetarie hanno cercato di tenere
duro rispetto al marco, per cui la svalutazione della lira è stata molto
inferiore rispetto al differenziale dei prezzi interni dei due Paesi e
oggi la lira, in termini reali, si è rivalutata sul marco, in confronto
al 1979. Viceversa, rispetto al dollaro, la lira si è svalutata come
tutte le altre valute mondiali, ma si è svalutata ancora di più di
quello che i prezzi monetari interni dei due Paesi non segnalassero; per
cui attualmente la lira è sottovalutata rispetto al dollaro, a partire
dallo stesso anno di riferimento.
Qual
è il senso di questa politica? Non è, ovviamente, quello di ottenere
degli scopi diretti, perché in questo modo si penalizzano le
esportazioni verso l’area europea. E’ vero che si incoraggiano le
esportazioni verso l’area del dollaro, però questa è un’area nella quale
l’industria italiana stenta ancora ad entrare in massa, anche perché la
rivalutazione del dollaro su tutte le altre valute, così come ha
favorito gli esportatori italiani, ha favorito anche gli esportatori di
altri paesi. Ne deriva che non c’è un vantaggio differenziale specifico
portato unicamente e selettivamente all’economia italiana. Ne consegue
che non ci sono elementi razionali diretti per questo capovolgimento
della politica valutaria; ci sono tuttavia degli elementi razionali
indiretti.
Forzare la ristrutturazione
È
stata una dichiarazione ufficiale dell’allora Ministro del Tesoro
Andreatta ad indicare una linea interpretativa, anche se non completa,
di questo cambiamento di rotta.
Andreatta
dichiarò che l’unico modo per stroncare l’inflazione in Italia era
quello di tenere stabili i cambi esteri, in maniera che gli imprenditori
non potessero più aumentare liberamente i prezzi interni comunque
confidando su una susseguente svalutazione della lira per non perdere i
mercati esteri. Bloccando il cambio estero, così come gli accordi del
sistema monetario europeo consentivano od obbligavano a fare, gli
imprenditori si sarebbero trovati costretti a stabilizzare anche i
prezzi interni.
Veniva
quindi annunciato un cambiamento nella politica valutaria, per
utilizzare la politica valutaria come strumento di stabilizzazione
monetaria interna. In realtà, forse, questa dichiarazione ufficiale di
intenti non solo non era completa, ma non era nemmeno totalmente
veritiera, perché noi oggi vediamo con grande chiarezza come è stata
realizzata questa stabilizzazione rispetto al marco. Come dicevo prima,
la lira si è svalutata rispetto al marco, in questi sei anni, molto meno
di quello che i prezzi interni avrebbero dovuto imporre. Però la
stabilizzazione interna della lira non si è avuta e il differenziale di
inflazione fra Italia e Germania si è ridotto di qualche punto, ma non
si è affatto annullato.
Allora
è evidente che si voleva qualche cosa di diverso. Quello che si voleva
era costringere gli imprenditori italiani in una sorta di morsa fra un
cambio estero tendenzialmente stabile e un’inflazione interna minore di
quella del decennio precedente (anche se il differenziale di inflazione
fra Italia e Germania è tuttora molto sensibile), tale da obbligare gli
imprenditori a una profonda, veloce e radicale manovra di
ristrutturazione per aumentare la produttività del lavoro e
riguadagnare, in termini di produttività, quello che gradualmente
avrebbero perso in termini di competitività di prezzo. Questa manovra
valutaria, che Andreatta aveva annunciato come strumento di politica
monetaria interna, in realtà è stato lo strumento maggiore di politica
industriale che le nostre autorità economiche hanno utilizzato negli
ultimi 5 o 6 anni, a partire dal ‘79. La conseguenza è che nell’economia
italiana anche l’inflazione ha cambiato aspetto e dobbiamo abituarci a
pensare all’inflazione di oggi come a un fenomeno in parte diverso da
quello degli anni ‘70. Negli anni ‘70 l’inflazione era in definitiva
qualcosa di desiderato, sollecitato dalle imprese, perché l’inflazione
consentiva di erodere continuamente i salari reali, veniva seguita
puntualmente dalla svalutazione esterna, non danneggiava cioè dal lato
dei mercati, facilitava i rapporti tra capitale e lavoro, non imponendo
uno scontro diretto sui salari monetari. Le imprese, in definitiva,
erano tendenzialmente inflazioniste. E, infatti, negli anni ‘70 la
grande industria italiana non si opponeva mai ad aumenti del salario
monetario. Il famoso accordo sul punto unico di contingenza, nel ‘75, fu
raggiunto con la benedizione della grande industria, proprio perché in
termini monetari, data la continua spirale salari-prezzi-cambi esteri,
tutto era diventato soltanto una questione di registrazioni.
Oggi,
viceversa, con la politica del cambio esterno stabile, specialmente nei
confronti delle valute europee, l’atteggiamento degli imprenditori
verso l’inflazione si è capovolto. Oggi l’aumento dei prezzi interni non
può più essere trasferito prontamente in una svalutazione della lira e,
quindi, si riflette immediatamente in una perdita di competitività sui
mercati. La grande industria italiana ha immediatamente registrato
questo capovolgimento della situazione e oggi il primo caposaldo della
battaglia della grande industria è contrastare l’aumento dei salari
monetari; e, quindi, abbiamo assistito all’attacco alla scala mobile, e a
tutte le altre battaglie che ruotano intorno alla riduzione del costo
del lavoro. L’inflazione anziché desiderata, è oggi un fenomeno al quale
le imprese guardano con preoccupazione e per il quale cercano rimedi,
come vedremo, in varie direzioni, sia nell’ambito del settore privato,
sia nell’ambito del settore pubblico.
Il nuovo segno dell’inflazione
Che
l’inflazione abbia cambiato non solo la sua funzione, se così possiamo
dire, ma anche le sue fonti, è un dato conosciuto a tutti e, direi, da
tutti accettato. Ormai nessuno attribuisce più l’inflazione alla spinta
salariale; questa si è moderata, i costi del lavoro sono andati
decrescendo, la conflittualità si è ridotta grandemente.
L’inflazione
però, se è diventata un fenomeno sgradito alle imprese, è diventata,
invece, in questi anni, un ingrediente essenziale della politica
economica, perché proprio in questo accoppiamento di inflazione interna e
stabilità del cambio consiste quella tenaglia di cui le autorità
monetarie si servono per la politica industriale: cioè per obbligare le
imprese a una rapida ristrutturazione.
Quindi
non è più un’inflazione salariale; se vogliamo c’è una componente
internazionale che proviene dall’aumento del corso del dollaro. Ma è
anche un’inflazione finanziaria, e su questo ritornerò più in là, perché
deriva anche dagli oneri finanziari crescenti; è anche un’inflazione di
Stato, in parte, perché deriva dall’aumento continuo e regolare dei
prezzi amministrati e dei prezzi controllati. E’ stato proprio il
settore dei prezzi amministrati che, invece di effettuare un’opera di
stabilizzazione, ha assunto un ruolo di leadership nell’aumento dei
prezzi, in piena coerenza con questa impostazione dell’inflazione
interna come arma di politica industriale. Come conseguenza si è avuta
una ristrutturazione velocissima dell’industria italiana, con calo
generale dell’occupazione e un calo ancora più veloce in quella che
l’ISTAT chiama la “grande industria”; un aumento diffuso compensativo
del settore sommerso (lavoro nero, lavoro grigio, lavoro informale,
chiamiamolo come vogliamo), e un aumento compensativo anche
dell’occupazione nel settore terziario; occupazione improduttiva,
dovremmo chiamarla, dovuta ovviamente a ragioni di stabilità, di
consenso. Fin qui ci muoviamo su un terreno noto e molte volte
analizzato. E ovvio, però, che le conseguenze vanno anche più in là. Per
quanto veloce, l’opera di ristrutturazione non è ancora arrivata a
ricollocare l’industria italiana esportatrice nei mercati internazionali
nella misura dovuta. La sopravvalutazione della lira nei mercati
europei si fa sentire e i risultati si vedono nella bilancia
commerciale, che è passiva. Le esportazioni sono costantemente al di
sotto delle importazioni, c’è un disavanzo nella bilancia commerciale.
Ma le autorità sanno benissimo che questo disavanzo è la conseguenza
inevitabile della loro politica monetaria e quindi hanno, con
grandissima flessibilità, effettuato un altro capovolgimento di politica
monetaria, pienamente coerente con quello che ho detto prima. Hanno,
cioè, deciso, ormai da diversi anni, di accettare il disavanzo nella
bilancia commerciale ed hanno provveduto a compensarlo — non
correggerlo, compensarlo — con un avanzo corrispondente nei movimenti di
capitali. Questa è una vera rivoluzione nella politica delle autorità
monetarie, perché tutti noi ricordiamo i discorsi che faceva il
governatore Carli una decina di anni fa, quando nelle sue dichiarazioni
(diciamo pure antisindacali, antisalariali) invocava la politica dei
redditi.
Carli
diceva: non illudiamoci sul fatto che un disavanzo nella bilancia
commerciale possa forse essere compensato da un avanzo nei movimenti di
capitali, perché questa è una linea di politica economica che noi, Banca
d’Italia, non intendiamo seguire. Noi non riteniamo che la bilancia dei
pagamenti debba compensarsi, pareggiarsi nel suo complesso, perché fare
affidamento sulle importazioni di capitali è una mossa rischiosa, è
sempre segno di un’economia malata, significa vivere a spese di altri
Paesi, significa consumare a credito di altri. Per noi, autorità
monetarie, la politica economica sana è quella di un pareggio nella
bilancia commerciale. Noi dobbiamo pagare le merci che importiamo
dall’estero con altre merci vendute, non dobbiamo consumare a credito.
Il mercato finanziario
Oggi,
la politica della Banca d’Italia è radicalmente cambiata. Oggi, le
autorità monetarie assumono come una conseguenza inevitabile il
disavanzo nella bilancia commerciale e fanno una politica di tassi
d’interesse elevati, proprio per attirare capitali dall’estero e per
impedire fughe di capitali — le due cose convergono sullo stesso
obiettivo — che compensano il disavanzo nei movimenti di merci.
L’Italia
è diventata rapidamente uno dei Paesi più indebitati del mondo,
certamente uno dei più indebitati dei Paesi industrializzati. Se questa
sia una politica saggia o no. lo vedremo evidentemente negli anni
futuri. Quello che, però, si può dire è che se l’Italia è riuscita in
questa politica, diciamo pure ardita, di governare un disavanzo nei
movimenti di merci e pilotare al tempo stesso un avanzo equivalente nei
movimenti di capitali, questa operazione non può riuscire soltanto
giocando di speculazione sui tassi d’interesse. Si può realizzare
evidentemente solo nell’ambito di un consenso internazionale Tutti noi
ricordiamo quando, una decina d’anni fa, le grandi banche internazionali
avevano convenuto che l’Italia non fosse più un Paese degno di fiducia:
esisteva un rischio Italia, non si facevano più prestiti all’Italia.
Oggi il clima, diciamo pure il clima politico internazionale che
circonda l’economia italiana, è totalmente cambiato. Con questa ondata
di indebolimento del sindacato, di craxismo, di reaganismo (chiamiamolo
come vogliamo), l’Italia è diventata un Paese per bene. È diventata un
paese al quale si possono confidare i propri capitali finanziari e,
quindi, è vero che, da un lato, le imprese italiane pubbliche e private
vengono incoraggiate a cercare prestiti su mercati esteri; è vero che le
banche italiane vengono incoraggiate ad indebitarsi verso le banche
straniere; però è anche vero che tutte queste richieste di credito
trovano all’estero dei finanziatori pronti e generosi. È altrettanto
vero che i grandi istituti bancari del mondo occidentale sono lietissimi
di aprire crediti al mondo finanziario italiano.
Quindi
questa manovra non solo si muove entro una sua coerenza interna, ma si
muove in un ambito di consenso internazionale, del quale le importazioni
di capitali sono la prova più tangibile, al di là di tutte le manovre
tecniche sui tassi d’interesse. Tuttavia, le manovre sui tassi
d’interesse ci sono: l’Italia ha tassi di interesse elevatissimi. Io
dicevo che il differenziale di inflazione con la Germania occidentale
non si è ridotto di molto, però siccome la Germania occidentale ha quasi
azzerato la sua inflazione (l’aumento dei prezzi all’ingrosso è quasi
zero, o addirittura negativo, mi pare, in uno degli ultimi trimestri),
in corrispondenza anche il tasso assoluto d’inflazione dell’economia
italiana è caduto, ma questo non ha comportato nessuna caduta nei tassi
d’interesse.
Quando
gli imprenditori si lamentano di questi oneri finanziari eccessivi, la
Banca d’Italia risponde inflessibile che questo è necessario per evitare
fughe di capitali, ed ha ragione, perché sostiene la manovra di
importazione di capitali. Ma il risultato è, evidentemente, che gli
oneri finanziari sono diventati un grosso peso per le imprese.
Ma
le nostre autorità monetarie hanno pensato anche a questo. Noi tutti
ricordiamo che, anni addietro, quando vi era un’inflazione ancora più
elevata e vi erano tassi d’interesse assai elevati, gli oneri finanziari
avevano quasi annullato i profitti industriali. Alcuni si lamentavano
molto di questa situazione, altri facevano osservare che, in fondo, il
profitto era sempre lì, solo che gli imprenditori lo avevano fatto
scomparire dalla tasca industriale e lo avevano fatto ricomparire nella
tasca finanziaria; profitti magri per il settore industriale, profitti
grassi per il settore finanziario, nessun motivo di preoccupazione. In
sostanza: avere pieno il cassetto di destra o quello di sinistra non
sposta molto la situazione del grande capitale.
Imprese e disavanzo pubblico
Però,
negli anni successivi, dopo il ‘79, si è fatto qualche cosa di più per
aiutare il settore industriale a ripareggiare i propri conti con le
banche, per ovviare al fatto che, ridottasi l’inflazione, i tassi
d’interesse non sono caduti in maniera proporzionale.
Dal
punto di vista finanziario avremmo dovuto aspettarci un peggioramento
della posizione delle imprese industriali, perché, appunto, i tassi
d’interesse reali sono molto più alti oggi di quello che non fossero
dieci anni fa. E allora come si spiega il fatto che, invece, l’industria
italiana ha ripareggiato i propri conti e non è più gravemente
indebitata verso il settore bancario? Lo si spiega proprio con il
disavanzo del settore pubblico.
Il
settore pubblico, con manovra provvida, ha gestito i propri conti in
enorme e crescente disavanzo, come sappiamo; questa è una delle cose più
note, più dibattute, più deprecate sulla scena economica e politica del
nostro Paese. Ma quando il settore pubblico gestisce il proprio
bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa, cosa
che adesso è difficile da conoscere ed ancor più difficile da giudicare,
c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il
disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una
liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non
comporta il ricorso al sistema delle banche.
Se
il settore pubblico viene gestito in pareggio, e cioè la spesa pubblica
è coperta con le imposte, il settore pubblico non aggiunge e non toglie
una lira di liquidità, si limita a prendere da una parte e a spendere
dall’altra; le imprese ottengono liquidità aggiuntiva soltanto dal
settore bancario con il conseguente indebitamento. Quando invece c’è un
disavanzo nel settore pubblico, finalmente è lo Stato che s’indebita
verso la Banca Centrale, con un allargamento della base monetaria, o si
indebita verso i risparmiatori, aumentando la velocità di circolazione
della moneta.
Ma
in entrambi i casi le imprese ottengono flussi di liquidità che per
loro non sono un debito, liquidità sulla quale non devono pagare
interessi. È stato proprio il disavanzo del settore pubblico che ha
riequilibrato i conti del settore industriale verso il settore
finanziario.
Si
parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa
offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di
continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli
pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane
dal mercato finanziario. Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli
pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali
si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza
che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state
spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di
liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano
profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al
mercato finanziario. Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma
sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti
tali che consentono un comodo autofinanziamento. Si è parlato
giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come
il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così
anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non
voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel
suo insieme coerente. E di questa crisi fiscale dello Stato, dobbiamo a
questo punto dare un giudizio molto più circostanziato e qualificato.
Se apriamo il giornale, noi leggiamo che il disavanzo nel settore
pubblico è dovuto a un eccesso di spesa, al fatto che ci sia stata
un’esplosione della spesa pubblica per sussidi, pensionamenti, cassa
integrazione; altre forme di trasferimenti personali e che, quindi, è
necessario ridurre la spesa pubblica proprio nel settore dei
trasferimenti personali, per riequilibrare le finanze dello Stato. Si è
dato troppo al cittadino utente-consumatore e adesso basta: tagliamo
sulle scuole, tagliamo sulle università, tagliamo sulla sanità, tagliamo
su tutto quello che si può tagliare: sono le spese che vanno tagliate.
Vorrei osservare che certamente per il cittadino utente, consumatore,
sussidiato, beneficiato, quello che conta è il livello della spesa
pubblica. Quando però la spesa pubblica viene gestita in disavanzo, come
avviene negli ultimi anni dell’economia italiana, c’è un altro
beneficiario al di là del consumatore, pensionato, assistito, e questo è
il settore industriale, per le ragioni che dicevo prima. Quindi, il
disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche
e soprattutto, nei confronti del settore industriale. Se parliamo di
settori che hanno tratto vantaggi dal livello della spesa pubblica e dal
fatto che essa sia stata gestita in disavanzo, dobbiamo ricordarci che
il primo ad essere stato avvantaggiato è il settore industriale, ed è
per questa ragione che i progetti di riequilibrare il disavanzo,
eliminare, ridurre, rientrare, come si dice oggi, dal disavanzo del
settore pubblico, sono progetti che riscuotono sicuramente
l’approvazione dell’uomo della strada, perché un debito è sempre una
cosa negativa, ma in definitiva non fanno grande presa sul settore
industriale, che è il più interessato.
La disoccupazione selettiva
Questa
esplosione del disavanzo e della spesa è stata utilizzata con sagacia,
come dicevo prima, e non solo ha avuto l’effetto finanziario di
rimettere a posto i conti delle imprese, ma evidentemente è stata
utilizzata anche per una serie di assunzioni nelle pubbliche
amministrazioni, per allentare ed alleviare la situazione del mercato
del lavoro, che altrimenti sarebbe stata molto più pesante. Infatti se
noi andiamo a guardare il bilancio complessivo del mercato del lavoro,
ci accorgiamo di un’anomalia, a prima vista, che distingue il mercato
del lavoro italiano da quello degli altri Paesi. Ci accorgiamo infatti
che l’Italia, pur essendo il Paese che aveva l’industria più arretrata e
bisognosa di ristrutturazione, il paese che ha un disavanzo nei conti
con l’estero da far rizzare i capelli, il Paese che ha un disavanzo nel
settore pubblico che toglie il sonno e l’appetito ai nostri Ministri
delle Finanze e del Tesoro, tuttavia è il Paese che in fondo ha meno
disoccupazione complessiva di altri Paesi europei.
L’Italia
ha concentrato la sua disoccupazione nel settore industriale, l’ha
ultraconcentrata nel settore della grande industria, ma se facciamo la
somma di tutti i settori e ci mettiamo anche il terziario, e
consideriamo occupati tutti quelli che percepiscono uno stipendio,
l’Italia ha più occupati, in totale, di quelli che aveva nel 1979 e non
ha avuto la brusca ondata di disoccupazione che, invece, ha avuto la
Gran Bretagna e, in parte, anche la Francia. Ma si tratta ancora una
volta di una conseguenza dell’intera manovra, perché proprio questo
aumento del disavanzo nel settore pubblico ha consentito di fare, in
sostanza, questa politica di occupazione improduttiva e di consenso, che
ha alleviato la situazione nel mercato del lavoro.
Tuttavia,
dobbiamo chiederci a che cosa conduce l’insieme di questa manovra;
perché se è vero che conduce ad una profonda ristrutturazione
nell’industria e ad un grado di disoccupazione, tutto sommato,
tollerabile, però conduce a una trasformazione profonda nella struttura
del mercato del lavoro: sempre meno occupati in attività produttive e
sempre più occupati in altre due direzioni. O nel lavoro nero, disperso e
frammentato — i cosiddetti lavoratori indipendenti — oppure nel lavoro
improduttivo, nel settore terziario, dei servizi, banche, assicurazioni,
studi commerciali, consulenti fiscali, aziendali e così via.
Allora
è evidente che dal punto di vista della struttura occupazionale
l’economia italiana sta facendo dei passi indietro, perché si carica
sempre di più, da un lato, di lavoratori non protetti, e quindi di un
settore che socialmente è inaccettabile, e dall’altro di lavoratori
improduttivi, che sul piano normativo e del trattamento sono
privilegiati, ma nel quadro dell’economia nazionale sono comunque un
peso improduttivo.
Aggiornamento o innovazione?
Qual
è allora la strada che si può individuare per contrastare questo
processo? E ovvio che la via di uscita viene indicata concordemente da
tutti proprio nella innovazione tecnologica, nel progresso, che
consentirebbe di ricollocare l’industria italiana nel mercato
internazionale e, per questa via, consentirebbe la ripresa. Io vorrei,
anche senza averne la competenza, e quindi soltanto con lo scopo di
formulare dei punti interrogativi, chiedermi o chiedervi in che cosa
consiste effettivamente questo processo di ristrutturazione, di
innovazione tecnologica che l’industria italiana ha accelerato negli
ultimi anni e si propone di continuare negli anni a venire.
Perché
io ho l’impressione che qui ci sia, non voglio dire una confusione di
concetti, perché sarebbe offensivo, ma certamente una sottile
dissolvenza di definizioni fra due fenomeni che, viceversa, sono
diversi. L’uno è quello del semplice aggiornamento tecnologico.
Aggiornamento tecnologico vuol dire comprare i macchinari più avanzati.
L’aggiornamento tecnologico è quello che faccio io se butto via questo
vecchio orologio a molla di 25 anni fa e lo sostituisco con un moderno
orologio al quarzo. Eccomi aggiornato, in materia di misurazione del
tempo. L’aggiornamento è quello che certamente l’industria italiana sta
facendo, sostituendo macchinari, comprando macchinari dai fabbricanti
più aggiornati e, quindi, presentandosi sui mercati con un
equipaggiamento e una attrezzatura, diciamo pure, d’avanguardia.
L’aggiornamento tecnologico, però, non conferisce alcuna priorità nei
mercati internazionali, perché l’aggiornamento tecnologico è accessibile
a tutti. Chiunque si può aggiornare dall’oggi al domani, buttando una
linea di montaggio nella spazzatura e facendone venire una nuova, non so
se dagli Stati Uniti, o dalla Germania o dai Giappone, questo lo
sceglierà lui. Certamente in tal modo può ridurre i suoi costi, può
avere un po’ di respiro, ma non gli dà alcuna priorità nei mercati
internazionali, perché lo stesso aggiornamento, come lo ha fatto lui, lo
possono fare e lo stanno facendo tutti gli altri. La vera priorità nei
mercati internazionali, quella che davvero rappresenterebbe una via di
uscita, consiste invece in un’operazione di tutt’altra natura, che è
l’innovazione. Non sostituire i propri macchinari comprandone altri più
aggiornati, ma farsi autori di nuove tecnologie; e su questo l’industria
italiana non è stata altrettanto pronta. È vero che esistono alcuni
settori dell’industria meccanica i cui macchinari vengono ordinati da
tutto il mondo; è vero che esistono alcuni comparti, non so se
dell’aeronautica o di altri settori, in cui l’industria italiana vanta
alcune priorità. Ma queste, alcune isole di progresso tecnologico non
caratterizzano la situazione normale dell’industria italiana. E quello
che mi preoccupa è il sospetto che questa enorme manovra di
ristrutturazione, che ha gettato fuori dalle fabbriche decine di
migliaia di lavoratori, non consista, in realtà, in un processo che
conduce a un’innovazione tecnologica autonoma, ma che si tratti soltanto
di una normale manovra di aggiornamento che, come tale, è una manovra
perpetua, perché l’aggiornamento è qualcosa di perpetuo: si deve fare
tutti i giorni, perché tutti lo fanno tutti i giorni. L’innovazione dà
luogo, evidentemente, a posizioni di mercato completamente diverse. Chi
dispone di un prodotto suo o di un metodo di produzione suo, può
vendere, finché non viene imitato, il suo prodotto in regime di
monopolio. E vi sono mille trucchi per prolungare questo monopolio nel
tempo. Inoltre l’innovazione si autoperpetua, si autogenera, ed è
evidente che le industrie dei Paesi leader si affermano nei mercati
internazionali proprio perché chi è portatore di un prodotto nuovo non
ha problemi di prezzo, è lui che impone il prezzo. Se la debolezza
dell’industria italiana è proprio nel settore dell’innovazione e se in
questa direzione l’industria italiana non ha fatto quegli sforzi
capillari e a tappeto che avrebbe dovuto fare, è chiaro che i problemi
si ripropongono. Avremo continuamente il problema dell’aggiornamento,
continuamente il problema della ristrutturazione, continuamente il
problema dei licenziamenti e dell’alleggerimento degli organici di
lavoro.
NOTE
[1] Estratto da AZIMUT n° 19 rivista bimestrale di economia politica e cultura – settembre-ottobre 1985
Presentiamo ampi stralci dell’intervento che il prof Augusto Graziani, dell’Università di Napoli, ha svolto al convegno di Azimut sulla politica economica e l’occupazione,
tenutosi a Milano nei giorni 25 e 26 ottobre 1985. Si avvisano i
lettori che il presente testo non è stato rivisto dal prof. Graziani.
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