Più volte è stato
evocato il rischio dell'esplosione di una nuova bolla finanziaria sui
mercati, nel prossimo futuro di questa infinita crisi. E' del tutto
evidente che le politiche economiche e monetarie messe in atto in questi
anni sono state tutte quante mirate a ripristinare il captialismo
finanziarizzato che ci ha messi nei guai. Di fatto, l'intero corpo delle
politiche monetarie e sul mercato creditizio è stato mirato a ripulire i
portafogli bancari dagli asset più tossici, a restituire liquidità che
stava drammaticamente venendo meno (la massa di M3 nell'area-euro cresce
del 3,9% fra 2011 e terzo trimestre 2013, M2, nel mercato monetario
statunitense, cresce addirittura del 13,7% fra gennaio 2012 e dicembre
2013, grazie alle misure di espansione moentaria messe in piedi dalla
Fed), a ripristinare credibilità delle banche sui mercati, anche tramite
regolamenti molto più prudenziali del passato (Basilea 3) e
nell'insieme a coprire il sistema bancario da un tracollo sistemico,
anche tollerando una stretta creditizia senza precedenti (basti pensare
che, nell'area-euro, il totale del credito è sceso del 2% fra 2009 e
terzo trimestre del 2013).
Le stesse politiche di
austerity dei bilanci pubblici nazionali e le famigerate "riforme
strutturali" dei mercati nazionali del lavoro, dei sistemi formativi,
del livello di intervento pubblico in economia, servono, da un lato, a
ripristinare il valore delle quotazioni dei titoli del debito pubblico
in pancia alle banche, riducendo il rollover risk e dolorose
svalutazioni patrimoniali, e dall'altro, a ripristinare condizioni di
ripresa, sia pur momentanea, del tasso di profitto generale, al fine di
far ripartire la domanda di investimenti e di credito, oggi ancora
languente, evitando che il valore azionario e finanziario superi di
troppi multipli il valore reale sottostante di imprese e produzioni,
facendo quindi ripartire la grande giostra dell'investimento
finanziario.
Ciò
ha di fatto replicato il sistema che ha creato la crisi, senza (quasi)
aggiustamenti (se non alcune marginali correzioni di rotta rispetto ad
un maggior monitoraggio preventivo dei rischi sistemici sui mercati, ad
una maggiore trasparenza dei dati dei mercati over-the-counter, ad una
maggiore informazione per il piccolo risparmiatore, a regole più
coordinate di vigilanza bancaria transnazionale, ad una modesta e poco
ambiziosa lotta ai paradisi fiscali e bancari, a qualche minimo
ripensamento sulla confusione fra attività commerciale e speculativa
delle banche, che per ora riguarda solo gli USA, a qualche inefficace
rivendicazione di inefficaci tasse sulle transazioni finanziarie). Credo
che basti un dato solo: secondo la Banca dei Regolamenti
Internazionali, l'ammontare totale del valore dei derivati scambiati su
mercati over-the counter, nel 2012, raggiunge i 633 mila miliardi di
dollari (circa 9 volte il PIL totale mondiale) superando l'ammontare che
circolava all'inizio della crisi (che a fine 2007 era di 600 mila
miliardi).
E quindi la probabilità
di una nuova disastrosa bolla finanziaria, che ci riporterà indietro di
altri cinquant'anni nel benessere collettivo, è pari al 100%. Rimane
solo da capire quando arriverà. Io credo che non arriverà subito. Gli
indici di borsa, benché sotto tensione per via dei rapidi incrementi
registrati su tutte le principali piazze finanziarie occidentali in
questi ultimi mesi, sono ancora entro livelli normali. Ad esempio, il
Dow Jones, al 17 gennaio, registra ancora una variazione negativa
(-0,7%) sull'anno precedente, nonostante i recenti rapidi rialzi; il
Nasdaq, tipicamente mercato molto speculativo, è cresciuto solo dello
0,5% annuo, Londra dell'1,2%, Zurigo del 3,4%, Tokyo è ancora in calo
dello 0,7%. Inoltre, è del tutto prevedibile che il tapering messo in
programma dai nuovi vertici della Fed ridurrà la velocità di crescita
delle transazioni finanziari, riducendo la liquidità. Infine, se è vero
che il valore totale dei derivati Otc è leggermente superiore a quello
di inizio crisi, l'esposizione creditizia lorda, cioè il rischio
sistemico di default unilaterale fra le controparti di un contratto
derivato, è in discesa, dal 23% dei valori di mercato lordi di metà
2007, al 15% a fine 2012.
Ci vorrà quindi ancora
qualche tempo prima che un'altra grossa bolla esploda (provo a buttarla
lì "nasometricamente": forse altri 10 anni? Sicuramente non meno di 5
anni). Vi sono però rischi molto più immediati, che potrebbero
verificarsi molto prima, e vanificare quella sorta di mini-ripresa, più
simile ad una malinconica stagnazione, che si sta materializzando
nell'area-euro, ed azzerare la ben più robusta ripresa economica degli
USA e la vitale, anche se per alcuni versi rallentante, crescita
giapponese. Molto sinteticamente tali rischi (che possono ovviamente
combinarsi l'uno con l'altro simultaneamente, oltre che presentarsi
singolarmente) sono:
- l'esplosione del
problema del bilancio federale degli USA: benché l'accordo bipartisan
conceda agli USA, per il 2014 ed il 2015, una elevazione consistente del
tetto del debito federale, oramai il debito pubblico aggregato (ovvero
comprensivo di agenzie federali, statali e locali) raggiunge il 125,5%
del PIL, è in crescita sempre più rapida ed è probabile che, dal 2017,
una nuova amministrazione repubblicana intenda mettere mano alla
questione, con effetti devastanti, perché il debito privato è pari al
250% del PIL, quindi non c'è risparmio privato mobilizzabile per
compensare il debito pubblico, e quindi l'ombra di una austerity a
Stelle e Strisce, con effetti recessivi per l'intera economia mondiale,
non è tanto incoraggiante. Alcuni assaggi di ciò che significherebbe ci
sono già stati: lo shutdown, con migliaia di dipendenti pubblici a casa
senza salario, la dichiarazione di bancarotta di una grande metropoli
come Detroit, con il taglio diretto di servizi pubblici essenziali:
- il riaggiustamento,
già in atto, del disavanzo commerciale USA, condito anche dal tapering,
che già sta avendo effetti devastanti su numerose economie emergenti,
che in questi anni hanno funzionato da "buffer di sicurezza" per le
economie europee alle prese con il calo della domanda interna, con i
lrischio di produrre un calo del commercio internazionale che si
sovrappone, in Europa, ad una domanda domestica ancora languente; senza
contare gli effetti di un dollaro rafforzato, per via della stretta
monetaria incombente, sui prezzi delle materie prime energetiche;
- l'esplosione del
mercato bancario europeo. Nonostante anni di politiche di sostegno, il
sistema bancario europeo manifesta ancora rischi di tipo sistemico
irrisolti. Un recente studio indipendente del Ceps rivela che il sistema
bancario europeo avrebbe bisogno di 50-60 miliardi di nuove
ricapitalizzazioni, in linea con quanto afferma la Bce, solo nel caso in
cui non si verificassero nuovi shock. Se, ad esempio, le attuali
sofferenze bancarie dovessero essere classificate fra i crediti
irrecuperabili, tale esigenza supererebbe di gran lunga i 200 miliardi,
arrivando, nel caso estremo, fino a 435 miliardi. Se poi vi fosse un
nuovo calo degli indici di borsa, l'esigenza di capitalizzazione
arriverebbe a quasi 580 miliardi, in caso di calo del 40% in sei mesi.
Si tratta di cifre non recuperabili dai mercati o dagli esistenti
strumenti finanziari della Ue.
Di fronte a tale
rischio, l'attuale meccanismo di unione bancaria appare largamente
inadeguato, perché ritarda in modo insopportabile la creazione del fondo
europeo di backstop, lasciando per altri 10 anni la questione nelle
mani delle meno ingenti e meno efficaci finanze nazionali, perché affida
la guida del sistema di risoluzione delle crisi bancarie ai veti
reciproci nazionali del Consiglio europeo, perché esclude dal suo raggio
di intervento importanti spezzoni del sistema bancario europeo, ad
esempio il sistema delle Sparkassen tedesche, che ha effetti sistemici
sull'intero mercato creditizio. In fondo, si è rinunciato a perseguire
la strada delle nazionalizzazioni dei sistemi bancari, che, attraverso
operazioni di M&A e fusioni oculate fra banche in crisi e banche in
attivo, sotto la guida del decisore pubblico, avrebbe condoto ad una
ristrutturazione complessiva del sistema bancario europeo, l'unica
strada perseguibile per uscire dal rischio, ancora presente, di collasso
sistemico, con effetti devastanti, nemmeno lontanamente immaginabili.
In conclusione, ci
troviamo di fronte ad una situazione ancora esplosiva, densa di minacce,
costituita dal fatto che non è stato fatto alcun significativo
progresso strutturale per risolvere i nodi gordiani di una crecita
alimentata dalla finanza, e non possiamo in alcun modo considerarci "in
uscita" dal tunnel. Questi anni di pesanti sofferenze sociali rischiano
di essere stati spesi invano.
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