Il fatto
Il 14 novembre scorso - davanti alla
platea degli esperti del Fondo Monetario Internazionale, riunito per la
sua 14 riunione annuale, – Larry Summers, uno dei più scaltri e
influenti economisti americani, ex Segretario del Tesoro, ha pronunciato
un discorso per molti versi eccezionale in cui, per la prima volta in
contesto ufficiale, si è parlato esplicitamente di "stagnazione
secolare" o come qualcuno l'ha ribattezzata di “Grande stagnazione": a
cinque anni dalla Grande Recessione - dice Summers - nonostante il
panico si sia dissolto e i mercati finanziari abbiano ripreso a salire,
non c'è alcuna evidenza di una ripresa della crescita in Occidente. Il
discorso di Summers è stato ripreso da varie testate economiche
(Financial Times, Forbs, e in Italia da Micromega e la Repubblica) oltre
che dal premio Nobel Paul Krugman, che già da qualche tempo andava
sostenendo tesi assai simili dal suo blog sul New York Times.
Nonostante il discorso
di Summers e la conferma di Krugman abbiano ovviamente provocato molte
reazioni, le loro affermazioni non hanno ricevuto sostanziali smentite,
soprattutto da parte dei responsabili delle istituzioni economiche
americane e occidentali. Insomma, la notizia è ufficiale: l'età della
crescita potrebbe essere davvero finita e parlarne non è più eresia.
Come ex-eretico, dunque, sento l'urgenza di intervenire su un tema che
avevo anticipato nel mio ultimo libro La grande transizione seppure partendo da premesse molto diverse da quelle di Summers e Krugman.
L'analisi del problema
Chiariamo per
cominciare come Summers e Krugman giungono alle loro conclusioni. Va
detto innanzitutto che, nonostante qualche cenno al rallentamento
dell'innovazione e della crescita demografica, le ragioni profonde del
declino delle economie occidentali avanzate restano sullo sfondo. Il
punto di partenza di Summers è pragmatico. Poichè i flussi finanziari
rappresentano ormai le interconnessioni indispensabili al funzionamento
del sistema economico, il collasso della finanza del 2007 ha comportato
una sostanziale paralisi del sistema. È un po come se, argomenta
Summers, in un sistema urbano venisse d'improvviso a mancare l'80% della
corrente elettrica. Tutte le attività ne risulterebbero paralizzate.
Quando tuttavia la corrente elettrica viene ripristinata, ci si
aspetterebbe un ripresa dell'attività economica su livelli maggiori di
quelli anteriori alla crisi: questa ripresa non c'è stata. Come si
spiega questa ripresa deludente? Secondo Summers e Krugman, le
trasformazioni strutturali del sistema hanno portato il tasso di
interesse naturale, cioè il tasso che mantiene in equilibrio i mercati
finanziari e garantisce condizioni prossime alla piena occupazione, a
divenire stabilmente negativo. Per quanto incredibile possa sembrare, i
due grandi economisti ci stanno dicendo che, per convincere le imprese
ad investire in misura sufficiente da garantire la piena occupazione,
bisognerà non solo offrire loro denaro a costo zero, ma addirittura far
sì che possano renderne meno di quanto è stato prestato.
In altre parole,
dunque, Summers e Krugman ci stanno dicendo che le condizioni
strutturali del sistema economico sono tali per cui le imprese si
aspettano mediamente che il valore di ciò che viene prodotto e venduto
sia inferiore al costo di produzione (una volta dedotto una sorta di
profitto normale). Naturalmente questo potrebbe sembrare un problema
innanzitutto delle imprese, se non fosse che viviamo ormai in una
“società di mercato” e dunque i redditi nelle loro diverse forme, e con
essi la nostra vita materiale in quasi ogni sua forma, dipendono ormai
interamente dalla possibilità che la macchina economica continui a
funzionare.
La tentazione tecnocratica
Anche il non economista
potrà a questo punto intuire che qualcosa di potenzialmente molto
pericoloso si intravede in questa rappresentazione del prossimo futuro.
La possibilità di realizzare investimenti profittevoli è infatti la
molla fondamentale dell'attività capitalistica e dire che per convincere
gli imprenditori ad investire sarà necessario offrire loro tassi di
interesse negativi, sostenendo inoltre che questo non è uno spiacevole e
temporaneo inconveniente ma “un inibitore sistemico dell'attività
economica”, significa riconoscere implicitamente che il capitalismo è
ormai un sistema entrato nel reparto geriatrico e che per mantenerlo
attivo è necessario offrirgli dosi di droga finanziaria almeno costanti
(ma di fatto crescenti).
Su questo ultimo punto
Krugman è esplicito: “Ora sappiamo che l'espansione del 2003-2007 era
sostenuta da una bolla speculativa. Lo stesso si può dire della crescita
della fine degli anni '90 (legata alla bolla della new-economy). Nello
stesso modo anche la crescita degli ultimi anni dell'Amministrazione
Reagan fu guidata da una ampia bolla nel mercato immobiliare privato”.
La conclusione è chiara: “no buble no growth” cioè senza
speculazione finanziaria non c'è più crescita, e lo stesso Summers
avverte che i provvedimenti presi per regolamentare i mercati finanziari
potrebbero essere controproduttivi, rendendo ancora più alti i costi di
finanziamento per le imprese.
Naturalmente Krugman e
Summers si guardano bene dal trarre conclusioni pessimistiche sulla
salute di lungo termine del capitalismo, come evitano con cura di
allargare l'analisi sulle cause del malessere economico fino a
comprendere tutti quei costi sociali ed ambientali che non rientrano nel
calcolo degli indicatori economici tradizionali.
Tuttavia, anche
limitando l'analisi a questi aspetti economici, lo scenario presentato è
estremante serio e foriero di conseguenze. Questo quadro si chiarisce ulteriormente analizzando le proposte di intervento pensate dai due economisti, che indicano come
sarebbe concretamente possibile rianimare un'economia nelle nuove
condizioni di tasso di interesse naturale stabilmente negativo.
La prima proposta suona come una revisione in salsa tecnocratica dei tradizionali incentivi keynesiani alla spesa. Secondo Krugman si potrebbe decidere, ad esempio, di dotare tutti gli impiegati di Google Glass (una sorta di occhiale multimediale) e altri strumenti che consentono di essere
perennemente connessi ad internet. Anche se poi ci si accorgesse che si
tratta di una spesa inutile, questa decisione politica sarebbe comunque
positiva in quanto costringerebbe le imprese ad investire... Ovviamente
sarebbero preferibili spese
“produttive”, ma nello scenario attuale non si può andare tanto per il
sottile: anche spese improduttive sono meglio di niente.
Ma questo evidentemente
non può bastare. Di fronte a un tasso di interesse naturale stabilmente
negativo occorre spingersi oltre. Per Krugman un modo ci sarebbe: “si
potrebbe ricostruire l'intero sistema monetario, eliminare la
cartamoneta e pagare tassi di interesse negativi sui depositi.”
Traducendo per i non economisti questo significherebbe niente meno che
togliere la possibilità ai cittadini di comprare e vendere attraverso la
moneta cartacea (che per definizione non costa nulla) e rendere forzose
la transazioni con carta di credito, appoggiata necessariamente su
conti correnti sui quali sarebbe tecnicamente possibile un prelievo
forzoso di alcuni punti percentuali l'anno. In questo modo si
costringerebbe la gente a spendere di più (la ricchezza infatti si
deprezza restando immobilizzata su un conto in cui si paga un interesse
invece di riceverlo) consentendo inoltre di allettare, con il ricavato,
le imprese recalcitranti ad effettuare nuovi investimenti. Un'altra
soluzione proposta prevede di alimentare un tasso di inflazione
crescente che porterebbe agli stessi risultati, riducendo
progressivamente il potere di acquisto dei cittadini in modo ancora più
subdolo e surrettizio.
Se
queste sono le idee che sorgono alla “coscienza di un liberale” (per
riprendere il titolo della rubrica di Krugman) per far fronte
all'incapacità ormai cronica del capitalismo di crescere, non è
difficile immaginare cosa, a partire dalla stessa lettura della realtà,
potrebbe venire in mente a chi, per tradizione, ha sempre auspicato
risposte tecnocratiche e autoritarie alle crisi del capitalismo. E'
evidente che, una volta imbracciata questa logica, tutto si giustifica, e
anche le normali libertà, come quella di decidere come e dove impiegare
i propri risparmi, divengono sacrificabili sull'altare di qualche punto
percentuale di PIL. La prospettiva è chiara: tutti, volenti o nolenti,
credendoci o meno, si dovrà partecipare al nutrimento forzoso – per via
finanziaria – della macchina capitalista.
Quanto
detto è sufficiente a capire su quale sentiero si potrebbe incamminare
il “riformismo neo-keynesiano” (con l'appoggio degli ex neoliberisti
alla Summers) nell'era dei rendimenti decrescenti. Il tutto è tanto più
serio in quanto ci troviamo di fronte non ad una crisi congiunturale,
per quanto grave, ma ad un processo di rallentamento strutturale e,
sopratutto, progressivo. E qui veniamo al secondo punto fondamentale.
Rendimenti decrescenti e l'impossibile ritorno al passato
Anche
se si decidesse che il funzionamento della macchina economica è
l'interesse supremo cui tutto è sacrificabile, dove ci porterebbe questa
scelta? Cosa dire della base materiale ed energetica su cui fondare il
rilancio della crescita? Su questo naturalmente i due economisti non
spendono una sola parola. Perché è evidente che per quanto affidato
alla finanza, un ritorno della crescita significa nuove risorse naturali
da utilizzare, prodotti da vendere per poi gettare rapidamente, tutto
per tenere in movimento - da una bolla speculativa all'altra - la
macchina economica globale.
Qui si evidenzia la differenza incolmabile tra il keynesismo terminale
di Krugman e il rilancio del sistema industriale immaginato, (peraltro
con ben altre finalità) negli anni Trenta da Keynes. Quello che gli
economisti tardo keynesiani sembrano non capire è quanto il contesto sia
completamente mutato rispetto all'età della crescita: dove possiamo
oggi costruire case o infrastrutture per rilanciare occupazione e
consumi, dove trovare nuove risorse energetiche e materie prime a buon
mercato, come creare nuovi consumatori offrendo loro modelli di vita
capaci di trasformare in pochi anni intere società?
Se, come credo, le
economie capitalistiche avanzate sono entrate già da quaranta anni in
una fase di rendimenti decrescenti questo non dipende solo dalla
riduzione nella produttività degli investimenti delle multinazionali.
Siamo di fronte ad un fenomeno di ben più vasta portata che comprende la
riduzione della produttività dell'energia (EROEI), dell'estrazione
mineraria, dell'innovazione, delle rese agricole, dell'efficienza
dell'attività della pubblica amministrazione (sanità, ricerca,
istruzione), oltre che di una sostanziale riduzione della produttività
legata al passaggio da un'economia industriale a una fondata
sostanzialmente sui servizi. E sopratutto, cosa che manca completamente
nell'analisi di Summers e Krugman, si tratta di un fenomeno evolutivo e
dunque incrementale.
I rendimenti
decrescenti, inoltre, non comportano solo una riduzione dei rendimenti
dell'attività economica quanto, piuttosto, un generale aumento del
malessere sociale, e questo a causa dell'aumento di svariati costi, di
natura sociale ed ambientale, legati sopratutto alla crescente
complessità della megamacchina tecnoeconomica, che ricadono come
“esternalità” sulle famiglie e sulle comunità e che non rientrano nel
calcolo degli indici economici. Occorrerà dunque ragionare in termini
ben più ampi, non solo in termini di PIL, ma della capacità delle
politiche di generare benessere e occupazione stabili (e in condizioni
di sostenibilità ecologica e non solo economica).
In conclusione, benché
sia un fatto di per sé eccezionale che i sostenitori dello status quo
(sia di ispirazione neoliberista che keynesiana) siano disposti ad
ammettere, pragmaticamente, la “fine della crescita”, questi non sono
disposti a riconoscere che le loro proposte per tenere in vita il
sistema sono ormai entrate in rotta di collisione con la libertà
democratica (oltre che, da tempo, con la sostenibilità ecologica).
Insomma dove il capitalismo è una cosa seria, come negli Stati Uniti, si
riconoscere pragmaticamente il problema, e ci si attrezza per
affrontarlo. Credo tuttavia che il problema dovrebbe cominciare ad
interessare anche quelli che, nella vecchia Europa come in Italia (e
sono moltissimi, a sinistra, ma anche nelle reti e nell'associazionismo
di base) credono ancora alla possibilità di un capitalismo
addomesticato, ad un modello di "mercato regolato" che dovrebbe produrre
insieme occupazione, giustizia sociale e sostenibilità ambientale.
Dal nostro punto di
vista il passaggio non traumatico dalla “grande stagnazione” ad una
società sostenibile richiede un ripensamento ben più profondo e radicale
dei valori e delle regole di funzionamento della nostra società, una
“grande transizione” che si lasci alle spalle questo modello economico e
i problemi – sociali, ecologici, economici – creati dall'ineliminabile
dipendenza del capitalismo dalla crescita.
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