Nuccio Ordine, studioso di fama internazionale della filosofia di
Giordano Bruno e del Rinascimento, ha pubblicato per Bompiani “L’utilità
dell’inutile”, un saggio che è un prezioso manifesto di resistenza
culturale contro la logica utilitaristica del liberismo. Lo abbiamo
intervistato.
"L’utilità dell’inutile" di Nuccio Ordine (Bompiani editore), è un saggio intenso che spazia tra i più diversi ambiti del sapere per tessere l’elogio della cultura contro la disgregazione sociale indotta dall’idolatria mercatista, che vuole individui ossequiosi e obbedienti: utili ingranaggi per l’usa e getta del capitalismo selvaggio.
Eppure al di là di quanto ci si vorrebbe far credere, l’esigenza di cultura sembra resistere e lo dimostra l’inaspettato successo editoriale europeo di questo libro del professor Ordine: in Italia è adesso nella classifica stilata da Arianna al terzo posto nel settore della saggistica (8 edizioni in tre mesi), in Spagna è al secondo posto nella classifica di ABC nel settore dei tascabili (tre edizioni in 4 settimane), in Francia è giunto alla quarta edizione. E traduzioni sono in corso in Grecia, in Corea, in Germania, in Romania. Un apprezzamento di pubblico, oltre che di critica: ad esempio Fernando Savater e Francisco Calvo Serraller (già direttore del Museo del Prado) hanno firmato su El Pais due dei quattro articoli dedicati al libro, e su Le Monde des Livres, la lusinghiera recensione porta la firma del direttore Jean Birnbaum.
Insomma, il mondo salvato dalla cultura? Ebbene sì, sostiene Nuccio Ordine, studioso di fama internazionale della filosofia di Giordano Bruno e del Rinascimento. Gli brillano gli occhi quando parla dei corsi tenuti ad Harvard, Yale, Parigi, Berlino, e gli si illuminano di una luce particolare quando si sofferma sulle lezioni ai suoi allievi dell’Università di Calabria, dove è ordinario di Letteratura italiana. E proprio dall’amore per la cultura senza padroni e dalla passione etico-civile dell’insegnante nasce il suo saggio resistenziale. Come ci racconta in questa intervista.
"L’utilità dell’inutile" è un libro politico, un manifesto contro l’aggressività del liberismo selvaggio che riduce tutto a un grande supermercato di consumo, cultura compresa. Un libro per invogliare alla resistenza attiva?
Ormai è sotto gli occhi di tutti il fatto che ogni singolo aspetto della vita degli uomini sia inquinato dall’utilitarismo, dal bisogno sfrenato di ricavare profitto. Qualsiasi gesto compiuto o da compiere e qualsiasi parola pronunciata o da pronunciare vengono messi al servizio di un guadagno, di un beneficio personale. Ecco perché ogni cosa ha un prezzo e tutto si può comprare. Basta avere i soldi e tutte le strade si aprono. Ma si tratta di una deriva che sta corrompendo e disumanizzando l’umanità a tal punto da considerare l’uomo stesso e i suoi sentimenti come merce di scambio. La logica nefasta dell’utilitarismo è arrivata anche a invadere ambiti dove non dovrebbe avere nessun accesso: si pensi all’istruzione (le scuole e le università ridotte ad aziende e gli studenti a clienti), alla sanità (dove anche i malati vengono considerati clienti, puri numeri al servizio di bilanci da far quadrare e di interessi lobbistici da continuare a foraggiare), agli eventi culturali (la promozione delle cosiddette “bellezze facili”, quelle bellezze superficiali che non richiedono sforzi e perdite di tempo). Questo libro è un grido di allarme contro un fenomeno dilagante che sta invadendo le nostre vite. Un tentativo di riabilitare parole come “gratuito” e “disinteressato” che sono ormai sparite dal nostro lessico quotidiano.
Utile/inutile, ribaltamenti prospettici per rimettere al centro l'essere umano e il suo diritto alla dignità...
Ho cercato di far parlare i classici per invitare i lettori ad ascoltare la loro voce. Da Platone a Italo Calvino – filosofi, letterati, scienziati – hanno tessuto, nei secoli, un elogio dei saperi inutili, di quei saperi cioè che non producono profitto, che non producono guadagni e che, quindi, vengono considerati inutili in una società in cui contano solo i soldi e il profitto. Ma questi grandi pensatori ci ricordano soprattutto che gli uomini hanno bisogno proprio di ciò che viene considerato inutile: perché la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la ricerca scientifica di base sono necessarie per nutrire lo spirito, per farci diventare migliori, per rendere più umana l’umanità. Il libro, insomma, aiuta a riflettere sull’utilità dell’inutile e, naturalmente, sull’inutilità dell’utile (quante cose che ci vengono spacciate per utilissime si rivelano invece perfettamente inutili?). Solo all’interno di un universo lontano da ogni forma di utilitarismo è facile comprendere che la dignità dell’uomo non si misura sulla quantità di denaro che si possiede, ma si misura esclusivamente sui grandi valori che animano la nostra vita: l’amore per il bene comune, per la giustizia, per la solidarietà umana, per la tolleranza, per la libertà, per ogni forma di pluralismo (politico, linguistico, culturale, religioso, etc.).
L’arte della cerimonia del tè di Okakura, i pesciolini d’oro del colonnello Buendìa in "Cent’anni di solitudine", la scoperta della passione per la storia e l’arte di Jim Hawkins ne "L’isola del tesoro". Tutto però riconducibile a un’unica techne (ηξις νου – hèxis voû), come insegnava Platone: essere proprietari della propria mente e della propria vita. Sviluppiamo questo aspetto?
Lei cita passaggi di classici che hanno attirato la mia attenzione e che ho riutilizzato per esemplificare i concetti di inutile e gratuito attraverso facce diverse di uno stesso prisma. Kakuzo Okakura, per esempio, individua il passaggio dalla feritas all’humanitas in un doppio gesto inutile: l’uomo che raccoglie un fiore (pianta inutile) per regalarlo alla sua compagna (gesto inutile) scopre, per la prima volta, l’essenza dell’arte. Così come l’esperienza di artigiano-orafo del celebre Aureliano Buendía, in "Cent’anni di solitudine", mette in crisi la logica utilitaristica della madre Ursula: il colonnello, infatti, costruisce pesciolini d’oro, guadagna monete d’oro che poi rifonde per costruire altri pesciolini d’oro in un circolo vizioso senza fine dove ciò che conta non è il profitto ma la gioia autentica del lavoro per il lavoro. Lo stesso discorso vale per Jim che – dopo aver rischiato più volte la vita per impossessarsi del tesoro del famoso pirata Flint – una volta ritrovato il bottino finisce per essere attratto dal valore artistico e storico delle monete (i volti dei re, i disegni incisi, gli stemmi e gli emblemi) e non dal loro valore materiale. Qui contano gesti e parole, immagini e cose che sfuggono al dominio del profitto, del guadagno, dell’utile per l’utile. Si tratta di uomini, per riprendere la metafora di Platone, che non sono schiavi della necessità e che inseguono invece liberamente la loro curiositas.
Il libro è uno scrigno di ricerca sapienziale. Vi si spazia dall’arte alla letteratura, dalla filosofia alla scienza, ed è certamente risultato di studi di una vita. Vogliamo parlare di questa sua fatica e gioia personale, e di quanto vi ha inciso la sua passione per l'insegnamento?
È vero: questo mio ultimo libro documenta gioie, speranze, sofferenze di un professore che ha cercato – in 24 anni di insegnamento – di far capire ai suoi studenti che è sbagliato iscriversi all’università per superare un esame o per conseguire una laurea, così come non si frequenta un liceo per ottenere un diploma. La scuola e l’università dovrebbero essere occasioni che la società ci offre soprattutto per diventare migliori, per diventare uomini liberi, capaci di ragionare criticamente con la propria mente. Se gli studenti – purtroppo – non sposano questo punto di vista non è colpa loro: è colpa, principalmente, della società utilitaristica, delle scuole e delle università trasformate sempre più in aziende: in aziende in cui conta solo la quantitas, mentre gli studenti vengono degradati a clienti. Insistere eccessivamente sull’aspetto professionalizzante degli studi (le scuole e le università concepite come luoghi dove si sfornano diplomati e laureati da immettere nel mondo del mercato) ha finito per far perdere di vista completamente il valore universale della funzione educativa dell’istruzione. Da studente (prima) e da professore (poi) ho capito che un buon insegnante può cambiare la vita di uno studente. E si diventa buoni professori soprattutto insegnando con passione e amore. E per insegnare con passione e amore è necessario conoscere ciò che si insegna. Un vero professore può sedurre i suoi studenti solo se conosce a fondo i classici di cui parla. Una conoscenza manualistica di un poema o di un romanzo non permetteranno a chi insegna di amare ciò che insegna. Purtroppo l’assurdo sistema di reclutamento in Italia umilia i meriti e perpetua la precarietà dei professori: come può insegnare con passione una classe docente invecchiata, fatta di precari che a 50 anni non sanno ancora se potranno avere una chance per sistemarsi definitivamente? Se si continueranno a proporre concorsoni ogni dieci anni (indipendentemente dal sistema di reclutamento) avremo solo effetti negativi. Mi si consenta di formulare una provocazione: il peggiore dei metodi di reclutamento applicato ogni anno farà meno danni del miglior sistema di reclutamento applicato ogni dieci anni. Senza una classe insegnante motivata, colta, appassionata non sarà possibile formare giovani in grado di amare disinteressatamente la letteratura, la filosofia, l’arte, la musica, tutti quei saperi considerati inutili.
Nella cultura greca le radici dell’unitarietà del sapere, contro la dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica. Tra gli esempi sulla bellezza di questa unitarietà da recuperare lei riporta le affascinanti considerazioni di Poincaré a proposito di matematica ed estetica...
Spesso noi umanisti commettiamo l’errore di considerarci gli unici difensori dei saperi inutili. Invece le cose non stanno così.
La ricerca pura, la ricerca di base, la ricerca fondata sulla curiositas ha svolto un ruolo importante, nel corso dei secoli, anche per difendere la scienza dall’utilitarismo. Per queste ragioni ho voluto inserire in appendice al libro il bellissimo saggio di Abraham Flexner, uno dei fondatori dell’Institute for Advanced Study di Princeton. Proprio in questo famosissimo Istituto – dove hanno lavorato Einstein e altri grandi scienziati – gli studiosi possono lavorare liberi da ogni condizionamento utilitaristico. Del resto, lo stesso Flexner svela l’importanza fondamentale della ricerca “inutile”: senza gli studi teorici di Maxwell e Hertz sulle onde elettromagnetiche, sarebbero state impensabili le invenzioni di Marconi. Non a caso Poincaré – oltre a mostrare i punti di contatto che, attraverso il concetto di bellezza e armonia, uniscono la letteratura alla matematica – ha insistito molto sul fatto che uno scienziato non può studiare la natura per scopi utilitaristici. Separare le scienze umane e le scienze della natura significherebbe uccidere un fecondo rapporto che durante molti secoli ha dato frutti straordinari. Ecco perché l’appello del premio Nobel Ilya Prigogine a costruire una “nuova alleanza” è oggi sempre più fondamentale.
Non c’è cultura senza l’autonomia della conoscenza e della ricerca. È questa autonomia il liquido amniotico per la libertà dell’intellettuale. Eppure come già denunciava Giordano Bruno – di cui lei cita un formidabile passo del "De Immenso et innumerabili bus" – l’orgia del possesso e della ricchezza corrompono. Allora, il problema prima che culturale non è etico?
Bruno – con la chiarezza e con la forza che caratterizzano il suo pensiero – insiste a più riprese nel distinguere il vero filosofo (che ha il coraggio di tradurre la sua filosofia in una maniera di vivere) dal falso filosofo (che mette il suo pensiero al servizio dei potenti e del profitto). Bruno sa bene che il vero filosofo deve combattere ogni forma di dogmatismo e ogni forma di asservimento alla forza corruttrice del potere e del danaro.
Tutta la seconda parte del suo saggio è dedicata alle dissennate politiche di smantellamento della scuola statale e del suo cardine formativo, il pensiero analitico critico…
Lo Stato non può continuare a tagliare i finanziamenti per la scuola, per le università, per la ricerca scientifica di base. Non si possono tagliare i fondi all’istruzione pubblica e continuare a destinare denaro all’istruzione privata. Le scuola private hanno il diritto di esistere ma devono sopravvivere con propri finanziamenti. Su questi temi le pagine del grande Calamandrei sono ancora attualissime. Purtroppo le briciole destinate recentemente all’istruzione pubblica (pur segnando un’inversione di tendenza) non possono neanche lontanamente compensare i numerosi tagli operati dai diversi governi in questi ultimi decenni.
La scuola e l’università dovrebbero formare eretici: studenti in grado di contestare l’ortodossia, di saper prendere le distanze da ogni forma di dogmatismo. E, invece, le scuole e le università tendono a favorire il conformismo. Sabotare la scuola pubblica e le università significa sabotare il futuro del paese e dell’umanità. Ho dedicato nel mio libro ampio spazio a un discorso che Victor Hugo ha tenuto a Parigi nel 1848: di fronte ai tagli alla cultura prospettati dal governo francese, il grande romanziere obietta che proprio nei momenti di crisi bisogna raddoppiare i fondi per la cultura. Aprire una scuola significa chiudere una prigione. L’unica maniera per combattere l’ignoranza e la corruzione morale che dilaga, assieme al più bieco egoismo, è quella di educare le nuove generazioni all’amore per la conoscenza e per il bene comune.
Lei ha dichiarato più volte che è ingiusto far pagare la crisi alle classi più deboli e a quelle istituzioni che si occupano dell’istruzione e della cultura in generale.
Non è vero che in tempo di crisi tutto è permesso. La Corte dei conti ha rivelato che noi spendiamo 150 miliardi all’anno a causa della corruzione. Abbiamo alcuni politici e alcuni funzionari che rapinano le casse dello Stato per accumulare denaro e per arricchire se stessi e i propri familiari. Basterebbe frenare la corruzione per evitare di far pagare alle classi più deboli una crisi determinata soprattutto dalle banche e dalla finanza. Ho usato la bellissima metafora di Shakespeare per spiegare che oggi i governi chiedono la libbra di carne viva di cittadini innocenti che vengono espropriati di ogni diritto e di ogni dignità umana. Quando l’uomo è costretto a pagare il debito con la carne viva significa che gli esseri umani sono diventati merce e che l’umanità si disumanizza sempre più. Lo stesso discorso vale per il mondo dell’imprenditoria. Non è possibile tollerare la politica di molte aziende che hanno privatizzato i profitti e socializzato le perdite. Come possono fare appello alla solidarietà della classe operaia e dei dipendenti quegli imprenditori che, dopo aver depredato le loro aziende truccando bilanci per trasferire illecitamente denaro nei paradisi fiscali, ora licenziano senza pietà centinaia di innocenti lavoratori?
Sono commoventi i discorsi di Adriano Olivetti quando rivendicava tra gli scopi principali di un’azienda quello di creare libertà, bellezza, felicità, istruzione, cultura e benessere per tutti.
Nel libro c’è anche spazio per una riflessione su amore e possesso. Un legame perverso (e di cogente attualità: si pensi al femminicidio) che ottunde il cervello e neppure consola. Dopo aver spaziato tra Ariosto, Virgilio, Cervantes, Diderot, lei scrive che "abbandonare la pretesa del possesso, saper convivere col rischio della perdita significa accettare la fragilità e la precarietà dell’amore. Significa rinunciare all’illusione di una garanzia di indissolubilità del legame amoroso", e infine cita Rainer Maria Rilke.
L’amore, nella sua forma più autentica, coincide con la gioia del donarsi. Proprio questo sentimento gratuito e disinteressato dovrebbe porsi agli antipodi di qualsiasi logica utilitaristica. Ma quando l’amore diventa possesso si distrugge la sua vera essenza. Quando un uomo arriva a considerare la moglie o la fidanzata un oggetto di sua proprietà fino al punto di sentirsi padrone della loro vita significa che ogni forma di umanità si è spenta, lasciando posto solo alla follia omicida di un bruto che si sente libero di distruggere ciò di cui crede di essere proprietario. Gli esempi letterari che ho citato servono a svelare il delirio della gelosia, il delirio di chi crede che amare significhi rendere schiavo chi gli sta vicino. L’amore, come dice in maniera straordinariamente persuasiva e poetica il grande Rilke, può vivere autenticamente solo in una mano aperta. Stringere la mano significa soffocare l’amore, ucciderlo una volta per sempre.
Mi pare che lo stesso discorso si possa fare a proposito della verità. Penso al tema della verità assoluta che ogni religione crede di possedere. Lei ne parla diffusamente nell’ultima parte del terzo capitolo. Che interesse può avere per il dialogo chi ritiene di possedere già tutta la Verità?
Boccaccio e Lessing, in prosa e in versi, hanno spiegato benissimo che nessun essere umano può presumere di possedere la verità, neanche in ambito religioso. Bruno diceva che il destino del filosofo è quello di andare a caccia della verità e non di possederla. Chi ritiene di possedere la verità non la cerca, non ha bisogno del dialogo, non ha bisogno del confronto con l’altro. Chi ritiene di possedere la verità assoluta la uccide una volta per tutte. Non a caso gli estremi si toccano: il dogmatico e il nichilista (per eccesso e per difetto) seppelliscono entrambi la verità: dire esiste una sola verità e dire non esiste nessuna verità sul piano epistemologico produce gli stessi effetti. Solo chi ama la verità la insegue per tutta la vita sapendo di non poterla mai afferrare. Anche in questo caso, possedere la verità significa ucciderla una volta per tutte.
Allora, per concludere, possiamo indicare il sapere-ricerca aperta come unica forma di opposizione e resistenza alla logica distruttiva del guadagno e del profitto?
Con i soldi, come dicevo prima, si può comprare ogni cosa: dai giudici ai parlamentari, dal successo ai grandi appalti. Ma il sapere non si può comprare. Neanche il più potente magnate potrebbe diventar colto staccando un assegno in bianco. Il sapere è frutto di una conquista personale, di uno sforzo eccezionale che nessuno può fare al nostro posto. Lo ricorda Socrate ad Agatone: il sapere non si versa da una coppa piena a una coppa vuota. Così come il sapere è in grado di distruggere la logica dominante del mercato: in ogni scambio commerciale c’è una perdita e un acquisto. Se compro un orologio prendo l’orologio e perdo i soldi. Chi mi vende l’orologio prende i soldi e perde l’orologio. Nella trasmissione del sapere invece si crea un circolo virtuoso che permette a chi dona e a chi riceve di arricchirsi: posso insegnare ai miei allievi il teorema di Euclide senza perderlo e, nello stesso tempo, trarre profitto dai miei studenti mentre insegno. Perciò è un crimine uccidere l’insegnamento e tutto ciò che è cultura. Senza coltivare l’inutile l’umanità diventerà sempre più corrotta e disumana, inseguendo l’infelicità e la violenza.
"L’utilità dell’inutile" di Nuccio Ordine (Bompiani editore), è un saggio intenso che spazia tra i più diversi ambiti del sapere per tessere l’elogio della cultura contro la disgregazione sociale indotta dall’idolatria mercatista, che vuole individui ossequiosi e obbedienti: utili ingranaggi per l’usa e getta del capitalismo selvaggio.
Eppure al di là di quanto ci si vorrebbe far credere, l’esigenza di cultura sembra resistere e lo dimostra l’inaspettato successo editoriale europeo di questo libro del professor Ordine: in Italia è adesso nella classifica stilata da Arianna al terzo posto nel settore della saggistica (8 edizioni in tre mesi), in Spagna è al secondo posto nella classifica di ABC nel settore dei tascabili (tre edizioni in 4 settimane), in Francia è giunto alla quarta edizione. E traduzioni sono in corso in Grecia, in Corea, in Germania, in Romania. Un apprezzamento di pubblico, oltre che di critica: ad esempio Fernando Savater e Francisco Calvo Serraller (già direttore del Museo del Prado) hanno firmato su El Pais due dei quattro articoli dedicati al libro, e su Le Monde des Livres, la lusinghiera recensione porta la firma del direttore Jean Birnbaum.
Insomma, il mondo salvato dalla cultura? Ebbene sì, sostiene Nuccio Ordine, studioso di fama internazionale della filosofia di Giordano Bruno e del Rinascimento. Gli brillano gli occhi quando parla dei corsi tenuti ad Harvard, Yale, Parigi, Berlino, e gli si illuminano di una luce particolare quando si sofferma sulle lezioni ai suoi allievi dell’Università di Calabria, dove è ordinario di Letteratura italiana. E proprio dall’amore per la cultura senza padroni e dalla passione etico-civile dell’insegnante nasce il suo saggio resistenziale. Come ci racconta in questa intervista.
"L’utilità dell’inutile" è un libro politico, un manifesto contro l’aggressività del liberismo selvaggio che riduce tutto a un grande supermercato di consumo, cultura compresa. Un libro per invogliare alla resistenza attiva?
Ormai è sotto gli occhi di tutti il fatto che ogni singolo aspetto della vita degli uomini sia inquinato dall’utilitarismo, dal bisogno sfrenato di ricavare profitto. Qualsiasi gesto compiuto o da compiere e qualsiasi parola pronunciata o da pronunciare vengono messi al servizio di un guadagno, di un beneficio personale. Ecco perché ogni cosa ha un prezzo e tutto si può comprare. Basta avere i soldi e tutte le strade si aprono. Ma si tratta di una deriva che sta corrompendo e disumanizzando l’umanità a tal punto da considerare l’uomo stesso e i suoi sentimenti come merce di scambio. La logica nefasta dell’utilitarismo è arrivata anche a invadere ambiti dove non dovrebbe avere nessun accesso: si pensi all’istruzione (le scuole e le università ridotte ad aziende e gli studenti a clienti), alla sanità (dove anche i malati vengono considerati clienti, puri numeri al servizio di bilanci da far quadrare e di interessi lobbistici da continuare a foraggiare), agli eventi culturali (la promozione delle cosiddette “bellezze facili”, quelle bellezze superficiali che non richiedono sforzi e perdite di tempo). Questo libro è un grido di allarme contro un fenomeno dilagante che sta invadendo le nostre vite. Un tentativo di riabilitare parole come “gratuito” e “disinteressato” che sono ormai sparite dal nostro lessico quotidiano.
Utile/inutile, ribaltamenti prospettici per rimettere al centro l'essere umano e il suo diritto alla dignità...
Ho cercato di far parlare i classici per invitare i lettori ad ascoltare la loro voce. Da Platone a Italo Calvino – filosofi, letterati, scienziati – hanno tessuto, nei secoli, un elogio dei saperi inutili, di quei saperi cioè che non producono profitto, che non producono guadagni e che, quindi, vengono considerati inutili in una società in cui contano solo i soldi e il profitto. Ma questi grandi pensatori ci ricordano soprattutto che gli uomini hanno bisogno proprio di ciò che viene considerato inutile: perché la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la ricerca scientifica di base sono necessarie per nutrire lo spirito, per farci diventare migliori, per rendere più umana l’umanità. Il libro, insomma, aiuta a riflettere sull’utilità dell’inutile e, naturalmente, sull’inutilità dell’utile (quante cose che ci vengono spacciate per utilissime si rivelano invece perfettamente inutili?). Solo all’interno di un universo lontano da ogni forma di utilitarismo è facile comprendere che la dignità dell’uomo non si misura sulla quantità di denaro che si possiede, ma si misura esclusivamente sui grandi valori che animano la nostra vita: l’amore per il bene comune, per la giustizia, per la solidarietà umana, per la tolleranza, per la libertà, per ogni forma di pluralismo (politico, linguistico, culturale, religioso, etc.).
L’arte della cerimonia del tè di Okakura, i pesciolini d’oro del colonnello Buendìa in "Cent’anni di solitudine", la scoperta della passione per la storia e l’arte di Jim Hawkins ne "L’isola del tesoro". Tutto però riconducibile a un’unica techne (ηξις νου – hèxis voû), come insegnava Platone: essere proprietari della propria mente e della propria vita. Sviluppiamo questo aspetto?
Lei cita passaggi di classici che hanno attirato la mia attenzione e che ho riutilizzato per esemplificare i concetti di inutile e gratuito attraverso facce diverse di uno stesso prisma. Kakuzo Okakura, per esempio, individua il passaggio dalla feritas all’humanitas in un doppio gesto inutile: l’uomo che raccoglie un fiore (pianta inutile) per regalarlo alla sua compagna (gesto inutile) scopre, per la prima volta, l’essenza dell’arte. Così come l’esperienza di artigiano-orafo del celebre Aureliano Buendía, in "Cent’anni di solitudine", mette in crisi la logica utilitaristica della madre Ursula: il colonnello, infatti, costruisce pesciolini d’oro, guadagna monete d’oro che poi rifonde per costruire altri pesciolini d’oro in un circolo vizioso senza fine dove ciò che conta non è il profitto ma la gioia autentica del lavoro per il lavoro. Lo stesso discorso vale per Jim che – dopo aver rischiato più volte la vita per impossessarsi del tesoro del famoso pirata Flint – una volta ritrovato il bottino finisce per essere attratto dal valore artistico e storico delle monete (i volti dei re, i disegni incisi, gli stemmi e gli emblemi) e non dal loro valore materiale. Qui contano gesti e parole, immagini e cose che sfuggono al dominio del profitto, del guadagno, dell’utile per l’utile. Si tratta di uomini, per riprendere la metafora di Platone, che non sono schiavi della necessità e che inseguono invece liberamente la loro curiositas.
Il libro è uno scrigno di ricerca sapienziale. Vi si spazia dall’arte alla letteratura, dalla filosofia alla scienza, ed è certamente risultato di studi di una vita. Vogliamo parlare di questa sua fatica e gioia personale, e di quanto vi ha inciso la sua passione per l'insegnamento?
È vero: questo mio ultimo libro documenta gioie, speranze, sofferenze di un professore che ha cercato – in 24 anni di insegnamento – di far capire ai suoi studenti che è sbagliato iscriversi all’università per superare un esame o per conseguire una laurea, così come non si frequenta un liceo per ottenere un diploma. La scuola e l’università dovrebbero essere occasioni che la società ci offre soprattutto per diventare migliori, per diventare uomini liberi, capaci di ragionare criticamente con la propria mente. Se gli studenti – purtroppo – non sposano questo punto di vista non è colpa loro: è colpa, principalmente, della società utilitaristica, delle scuole e delle università trasformate sempre più in aziende: in aziende in cui conta solo la quantitas, mentre gli studenti vengono degradati a clienti. Insistere eccessivamente sull’aspetto professionalizzante degli studi (le scuole e le università concepite come luoghi dove si sfornano diplomati e laureati da immettere nel mondo del mercato) ha finito per far perdere di vista completamente il valore universale della funzione educativa dell’istruzione. Da studente (prima) e da professore (poi) ho capito che un buon insegnante può cambiare la vita di uno studente. E si diventa buoni professori soprattutto insegnando con passione e amore. E per insegnare con passione e amore è necessario conoscere ciò che si insegna. Un vero professore può sedurre i suoi studenti solo se conosce a fondo i classici di cui parla. Una conoscenza manualistica di un poema o di un romanzo non permetteranno a chi insegna di amare ciò che insegna. Purtroppo l’assurdo sistema di reclutamento in Italia umilia i meriti e perpetua la precarietà dei professori: come può insegnare con passione una classe docente invecchiata, fatta di precari che a 50 anni non sanno ancora se potranno avere una chance per sistemarsi definitivamente? Se si continueranno a proporre concorsoni ogni dieci anni (indipendentemente dal sistema di reclutamento) avremo solo effetti negativi. Mi si consenta di formulare una provocazione: il peggiore dei metodi di reclutamento applicato ogni anno farà meno danni del miglior sistema di reclutamento applicato ogni dieci anni. Senza una classe insegnante motivata, colta, appassionata non sarà possibile formare giovani in grado di amare disinteressatamente la letteratura, la filosofia, l’arte, la musica, tutti quei saperi considerati inutili.
Nella cultura greca le radici dell’unitarietà del sapere, contro la dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica. Tra gli esempi sulla bellezza di questa unitarietà da recuperare lei riporta le affascinanti considerazioni di Poincaré a proposito di matematica ed estetica...
Spesso noi umanisti commettiamo l’errore di considerarci gli unici difensori dei saperi inutili. Invece le cose non stanno così.
La ricerca pura, la ricerca di base, la ricerca fondata sulla curiositas ha svolto un ruolo importante, nel corso dei secoli, anche per difendere la scienza dall’utilitarismo. Per queste ragioni ho voluto inserire in appendice al libro il bellissimo saggio di Abraham Flexner, uno dei fondatori dell’Institute for Advanced Study di Princeton. Proprio in questo famosissimo Istituto – dove hanno lavorato Einstein e altri grandi scienziati – gli studiosi possono lavorare liberi da ogni condizionamento utilitaristico. Del resto, lo stesso Flexner svela l’importanza fondamentale della ricerca “inutile”: senza gli studi teorici di Maxwell e Hertz sulle onde elettromagnetiche, sarebbero state impensabili le invenzioni di Marconi. Non a caso Poincaré – oltre a mostrare i punti di contatto che, attraverso il concetto di bellezza e armonia, uniscono la letteratura alla matematica – ha insistito molto sul fatto che uno scienziato non può studiare la natura per scopi utilitaristici. Separare le scienze umane e le scienze della natura significherebbe uccidere un fecondo rapporto che durante molti secoli ha dato frutti straordinari. Ecco perché l’appello del premio Nobel Ilya Prigogine a costruire una “nuova alleanza” è oggi sempre più fondamentale.
Non c’è cultura senza l’autonomia della conoscenza e della ricerca. È questa autonomia il liquido amniotico per la libertà dell’intellettuale. Eppure come già denunciava Giordano Bruno – di cui lei cita un formidabile passo del "De Immenso et innumerabili bus" – l’orgia del possesso e della ricchezza corrompono. Allora, il problema prima che culturale non è etico?
Bruno – con la chiarezza e con la forza che caratterizzano il suo pensiero – insiste a più riprese nel distinguere il vero filosofo (che ha il coraggio di tradurre la sua filosofia in una maniera di vivere) dal falso filosofo (che mette il suo pensiero al servizio dei potenti e del profitto). Bruno sa bene che il vero filosofo deve combattere ogni forma di dogmatismo e ogni forma di asservimento alla forza corruttrice del potere e del danaro.
Tutta la seconda parte del suo saggio è dedicata alle dissennate politiche di smantellamento della scuola statale e del suo cardine formativo, il pensiero analitico critico…
Lo Stato non può continuare a tagliare i finanziamenti per la scuola, per le università, per la ricerca scientifica di base. Non si possono tagliare i fondi all’istruzione pubblica e continuare a destinare denaro all’istruzione privata. Le scuola private hanno il diritto di esistere ma devono sopravvivere con propri finanziamenti. Su questi temi le pagine del grande Calamandrei sono ancora attualissime. Purtroppo le briciole destinate recentemente all’istruzione pubblica (pur segnando un’inversione di tendenza) non possono neanche lontanamente compensare i numerosi tagli operati dai diversi governi in questi ultimi decenni.
La scuola e l’università dovrebbero formare eretici: studenti in grado di contestare l’ortodossia, di saper prendere le distanze da ogni forma di dogmatismo. E, invece, le scuole e le università tendono a favorire il conformismo. Sabotare la scuola pubblica e le università significa sabotare il futuro del paese e dell’umanità. Ho dedicato nel mio libro ampio spazio a un discorso che Victor Hugo ha tenuto a Parigi nel 1848: di fronte ai tagli alla cultura prospettati dal governo francese, il grande romanziere obietta che proprio nei momenti di crisi bisogna raddoppiare i fondi per la cultura. Aprire una scuola significa chiudere una prigione. L’unica maniera per combattere l’ignoranza e la corruzione morale che dilaga, assieme al più bieco egoismo, è quella di educare le nuove generazioni all’amore per la conoscenza e per il bene comune.
Lei ha dichiarato più volte che è ingiusto far pagare la crisi alle classi più deboli e a quelle istituzioni che si occupano dell’istruzione e della cultura in generale.
Non è vero che in tempo di crisi tutto è permesso. La Corte dei conti ha rivelato che noi spendiamo 150 miliardi all’anno a causa della corruzione. Abbiamo alcuni politici e alcuni funzionari che rapinano le casse dello Stato per accumulare denaro e per arricchire se stessi e i propri familiari. Basterebbe frenare la corruzione per evitare di far pagare alle classi più deboli una crisi determinata soprattutto dalle banche e dalla finanza. Ho usato la bellissima metafora di Shakespeare per spiegare che oggi i governi chiedono la libbra di carne viva di cittadini innocenti che vengono espropriati di ogni diritto e di ogni dignità umana. Quando l’uomo è costretto a pagare il debito con la carne viva significa che gli esseri umani sono diventati merce e che l’umanità si disumanizza sempre più. Lo stesso discorso vale per il mondo dell’imprenditoria. Non è possibile tollerare la politica di molte aziende che hanno privatizzato i profitti e socializzato le perdite. Come possono fare appello alla solidarietà della classe operaia e dei dipendenti quegli imprenditori che, dopo aver depredato le loro aziende truccando bilanci per trasferire illecitamente denaro nei paradisi fiscali, ora licenziano senza pietà centinaia di innocenti lavoratori?
Sono commoventi i discorsi di Adriano Olivetti quando rivendicava tra gli scopi principali di un’azienda quello di creare libertà, bellezza, felicità, istruzione, cultura e benessere per tutti.
Nel libro c’è anche spazio per una riflessione su amore e possesso. Un legame perverso (e di cogente attualità: si pensi al femminicidio) che ottunde il cervello e neppure consola. Dopo aver spaziato tra Ariosto, Virgilio, Cervantes, Diderot, lei scrive che "abbandonare la pretesa del possesso, saper convivere col rischio della perdita significa accettare la fragilità e la precarietà dell’amore. Significa rinunciare all’illusione di una garanzia di indissolubilità del legame amoroso", e infine cita Rainer Maria Rilke.
L’amore, nella sua forma più autentica, coincide con la gioia del donarsi. Proprio questo sentimento gratuito e disinteressato dovrebbe porsi agli antipodi di qualsiasi logica utilitaristica. Ma quando l’amore diventa possesso si distrugge la sua vera essenza. Quando un uomo arriva a considerare la moglie o la fidanzata un oggetto di sua proprietà fino al punto di sentirsi padrone della loro vita significa che ogni forma di umanità si è spenta, lasciando posto solo alla follia omicida di un bruto che si sente libero di distruggere ciò di cui crede di essere proprietario. Gli esempi letterari che ho citato servono a svelare il delirio della gelosia, il delirio di chi crede che amare significhi rendere schiavo chi gli sta vicino. L’amore, come dice in maniera straordinariamente persuasiva e poetica il grande Rilke, può vivere autenticamente solo in una mano aperta. Stringere la mano significa soffocare l’amore, ucciderlo una volta per sempre.
Mi pare che lo stesso discorso si possa fare a proposito della verità. Penso al tema della verità assoluta che ogni religione crede di possedere. Lei ne parla diffusamente nell’ultima parte del terzo capitolo. Che interesse può avere per il dialogo chi ritiene di possedere già tutta la Verità?
Boccaccio e Lessing, in prosa e in versi, hanno spiegato benissimo che nessun essere umano può presumere di possedere la verità, neanche in ambito religioso. Bruno diceva che il destino del filosofo è quello di andare a caccia della verità e non di possederla. Chi ritiene di possedere la verità non la cerca, non ha bisogno del dialogo, non ha bisogno del confronto con l’altro. Chi ritiene di possedere la verità assoluta la uccide una volta per tutte. Non a caso gli estremi si toccano: il dogmatico e il nichilista (per eccesso e per difetto) seppelliscono entrambi la verità: dire esiste una sola verità e dire non esiste nessuna verità sul piano epistemologico produce gli stessi effetti. Solo chi ama la verità la insegue per tutta la vita sapendo di non poterla mai afferrare. Anche in questo caso, possedere la verità significa ucciderla una volta per tutte.
Allora, per concludere, possiamo indicare il sapere-ricerca aperta come unica forma di opposizione e resistenza alla logica distruttiva del guadagno e del profitto?
Con i soldi, come dicevo prima, si può comprare ogni cosa: dai giudici ai parlamentari, dal successo ai grandi appalti. Ma il sapere non si può comprare. Neanche il più potente magnate potrebbe diventar colto staccando un assegno in bianco. Il sapere è frutto di una conquista personale, di uno sforzo eccezionale che nessuno può fare al nostro posto. Lo ricorda Socrate ad Agatone: il sapere non si versa da una coppa piena a una coppa vuota. Così come il sapere è in grado di distruggere la logica dominante del mercato: in ogni scambio commerciale c’è una perdita e un acquisto. Se compro un orologio prendo l’orologio e perdo i soldi. Chi mi vende l’orologio prende i soldi e perde l’orologio. Nella trasmissione del sapere invece si crea un circolo virtuoso che permette a chi dona e a chi riceve di arricchirsi: posso insegnare ai miei allievi il teorema di Euclide senza perderlo e, nello stesso tempo, trarre profitto dai miei studenti mentre insegno. Perciò è un crimine uccidere l’insegnamento e tutto ciò che è cultura. Senza coltivare l’inutile l’umanità diventerà sempre più corrotta e disumana, inseguendo l’infelicità e la violenza.
E' l'ultimo editoriale di Luigi Pintor, è stato scritto nel 2003, ma sembra pensato l'altro ieri. Una frase tra le altre: "Non
ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità
divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in
due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora
di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e
stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra
sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine"
SENZA CONFINI
Luigi Pintor
La
sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si
apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo
sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione
rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita
secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e
una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno
raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche
della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro
internazionale e interno.
Non
credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli
dirigenti. Dall'89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro
riferimenti e sono passati dall'altra parte. Con qualche sfumatura.
Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che
questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l'opinione
maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di
elettorato un intralcio più che l'unica risorsa disponibile. Si sono
gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non
la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si
fanno dell'Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è
aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è
solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un
manifesto, l'anima non c'è da tempo e ora non c'è la faccia e una
fisionomia politica credibile. E' una constatazione non una polemica.
Noi
facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno
spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala
internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri
comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica
delle cose, rispetto all'attualità e alle prospettive.
Non
ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità
divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in
due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora
di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e
stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra
sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine.
Anche
la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere
un'opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una
concezione del mondo e dell'esistenza quotidiana. Non una bandiera e
un'idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi
dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne
farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e
la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo
versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che
andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non
un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha
importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica,
religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi
d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro
microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro
circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere
domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è
reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai
viste.
- See more at: http://fondazionepintor.net/manifesto/senzaconfini/#sthash.Hgu7yhdq.mxG5VyKq.dpuf
E' l'ultimo editoriale di Luigi Pintor, è stato scritto nel 2003, ma sembra pensato l'altro ieri. Una frase tra le altre: "Non
ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità
divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in
due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora
di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e
stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra
sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine"
SENZA CONFINI
Luigi Pintor
La
sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si
apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo
sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione
rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita
secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e
una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno
raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche
della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro
internazionale e interno.
Non
credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli
dirigenti. Dall'89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro
riferimenti e sono passati dall'altra parte. Con qualche sfumatura.
Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che
questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l'opinione
maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di
elettorato un intralcio più che l'unica risorsa disponibile. Si sono
gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non
la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si
fanno dell'Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è
aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è
solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un
manifesto, l'anima non c'è da tempo e ora non c'è la faccia e una
fisionomia politica credibile. E' una constatazione non una polemica.
Noi
facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno
spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala
internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri
comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica
delle cose, rispetto all'attualità e alle prospettive.
Non
ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità
divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in
due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora
di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e
stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra
sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine.
Anche
la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere
un'opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una
concezione del mondo e dell'esistenza quotidiana. Non una bandiera e
un'idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi
dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne
farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e
la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo
versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che
andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non
un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha
importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica,
religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi
d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro
microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro
circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere
domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è
reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai
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