La lunga recensione
al mio ultimo libro, firmata da Benedetto Vecchi sulle pagine del
“Manifesto”, mi offre l’opportunità di ribadire le critiche di metodo,
prima ancora che di merito, che da qualche anno rivolgo alle teorie
neo/post operaiste.
Tralascio tutta la prima parte dell’articolo, che contiene critiche
marginali o idee simili alle mie, per concentrarmi sul finale laddove
Vecchi, riferendosi all’importanza strategica da me attribuita alle
lotte della classe operaia cinese e di altri Paesi in via di sviluppo,
sostiene: 1) che le fabbriche cinesi sono molto più simili alle nostre
di quanto io non pensi (nel senso che anche laggiù le tecnologie
produttive fordiste sono affiancate/integrate da quelle postfordiste);
2) che l’esistenza di crescenti masse operaie nei Paesi emergenti non
implica automaticamente lo sviluppo di una coscienza di classe
antagonista; 3) che anche in quei Paesi ciò che più conta per il
capitale è appropriarsi dei nuovi livelli di cooperazione sociale
consentiti dalle tecnologie reticolari; 4) che il mio lavoro, nella
misura in cui non tiene conto di quanto ai punti precedenti, approda a
una rappresentazione statica dello sviluppo capitalistico.
Ignoro su quali elementi Vecchi fondi le critiche di cui ai punti 1) e
3), visto che nel mio libro si dice in più punti che nei processi
produttivi dei Paesi in via di sviluppo il plusvalore assoluto e il
plusvalore relativo convivono, fondandosi su un mix di vecchi e nuovi
modelli organizzativi (aggiungendo, il che mi pare più importante, che
la classe operaia di quei Paesi usa le nuove tecnologie anche per
organizzare le proprie lotte!); così come si ripete fino alla nausea che
i flussi finanziari e le tecnologie di rete operano come una macchina
globale che si appropria delle nuove e differenti forme di cooperazione
sociale che si sviluppano in tutto il mondo.
Quanto alla critica di cui al punto 2) mi pare che sfiori francamente
il ridicolo: quella secondo cui non sono sufficienti le contraddizioni
oggettive a far sorgere automaticamente una coscienza antagonista è appunto la tesi centrale del mio lavoro,
tesi che oppongo all’immanentismo metafisico dei post operaisti i quali
ritengono, al contrario, che l’antagonismo sia “consustanziale” ai
rapporti di produzione postfordisti.
Ciò detto veniamo al nodo reale del dissenso. La ragione di fondo per
cui valorizzo le lotte del proletariato dei Paesi in via di sviluppo –
non solo quelle cinesi, ma anche quelle in America Latina, Sud Africa,
Bangladesh fino alle recentissime rivolte operaie in Cambogia – consiste nel fatto che in questi Paesi esiste una concentrazione massiva di
corpi messi al lavoro (realtà del tutto sparita in Occidente) a
prescindere dalle tecnologie e dai modelli organizzativi con cui vengono
sfruttati/disciplinati (si va dal lavoro servile a domicilio al post
taylorismo).
Questa inedita concentrazione è condizione necessaria ancorché insufficiente
per una coscienza antagonista che, a mio parere, per svilupparsi
richiede adeguati livelli di organizzazione politica (condizione da
tempo rimossa dalla cultura tardo operaista). Purtroppo la visione degli
amici che restano appesi ai dogmi degli anni Settanta (a proposito di
visione statica…) continua a privilegiare la composizione tecnica
come unico criterio di giudizio per misurare le prospettive di ripresa
della lotta di classe contro ogni evidenza empirica (dove sono le lotte
dei lavoratori della conoscenza, esaltati come avanguardia “naturale”?
Del resto questa idiosincrasia per l’analisi sociologica concreta di
culture pratiche e comportamenti è un antico vizio che già Raniero
Panzieri rimproverava ai “filosofi” Tronti e Negri).
Infine due parole sulla visione statica del capitalismo. Il discorso
di Marx era una ontologia dell’essere sociale che coglieva la totalità
delle determinazioni concrete (economiche, ideologiche, politiche,
antropologiche) nel loro movimento dinamico, distinguendo fra elementi
di continuità e discontinuità (senza ripetizione non esiste differenza).
Viceversa la metafisica di Negri e allievi (che si ispira a Spinoza,
Foucault e Deleuze, sicuramente non a Marx) ignora completamente la
storicità dei processi, per cui appare immersa in un eterno presente in
cui l’annuncio della fine del capitalismo è sempre attuale. Preferisco
essere un ottimista della volontà, come mio definisce Vecchi, di un
ottimista della grazia divina (cioè di un capitalismo che si autosupera
per raggiunta maturità delle forze produttive).
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