Una volta quando sfilava un corteo di lavoratori, disoccupati, senza
casa, studenti, donne, c’era sempre qualcuno in cappotto di cammello,
una signora col cappellino e la pelliccetta, indispettiti perché i
manifestanti ostacolavano il loro affaccendarsi, che gridavano: ma
andate a lavorare! Andate a casa, sfaticati!
Se ieri, andando verso Piazza San Giovanni, non li abbiamo visti né
sentiti è perché erano a Firenze, alla Leopolda. Se non c’erano
fisicamente, erano abbondantemente rappresentati da quel palco e da quel
parterre che fa spallucce a un milione di persone – illusione ottica,
che con sovrano disprezzo dice che l’ascolterà – dopo aver deciso per
noi quello che è meglio per loro, che ammette a malincuore che la piazza
è un’espressione di democrazia – ed è per quello che loro stanno
dall’altra parte, con un senato di nominati infilato in quella
costituzione che ormai serve solo a rendere legale l’illegittimità, a
ufficializzare la perdità di sovranità di Stato e popolo, con riforme
dettate da una cupola extra e sovranazionale e da un vecchio pagliaccio
cui cola il belletto ma ancora protervo e presente sul palcoscenico.
Il professionista in cappotto di cammello, la signora in pelliccetta,
quella che una volta si chiamava maggioranza silenziosa ma che ha
sempre gridato più forte con le ragioni dello sfruttamento, della
sopraffazione, delle regole manomesse o dettate per garantire i loro
interessi e privilegi, ha trovato casa, ancora più comoda di quella del
grande costruttore di Milano 2, 3, dell’Aquila 4 e 5. I loro
ambasciatori sono quelli che Renzi e i suoi pappagallini ammaestrati ci
mostrano come in una sacra ostensione: gente che crea lavoro, gente
operosa, gente che muove lavoro e ricchezza, gente che dialoga e ragiona
sul necessario shock che rimetterà in moto il Paese – potenza degli
ossimori – con una legge di stabilità, gente che fa il muso duro ai
cattivi dell’Europa come in un western all’italiana.
Per i pochi che non hanno voluto vedere, per i pochi che hanno
preferito non sapere, per i pochi che hanno creduto di avvantaggiarsi
stando a casa, assistendo indifferente alla conversione di un’elite, di
un ceto in marmaglia barbara, in cosca dedita all’espropriazione e poi
alla liquidazione di beni, diritti, certezze, unicamente interessata
alla conservazione delle proprie rendite di posizione, può darsi che la
convention della Leopolda, i suoi business plan, le sue esposizioni del
brand del partito della nazione, le sue tecniche di marketing servano.
Perché anche chi non lo desidera dovrà prima o poi interrogarsi su
quanto e che lavoro attivi come un potente catalizzatore un finanziere
che gestisce fondi, quindi non produce nulla se non transazioni aeree,
immateriali e opache, magari dalle Cayman.
Prima o poi dovrà chiedersi
che sindaco è quello che si ostina a realizzare un’alta velocità sotto
un prezioso e vulnerabile centro storico di una città d’arte,
giustificando l’improvvida prosecuzione di un ancor più improvvido
progetto, con l’impossibilità di sospendere dannosi lavori e smantellare
pericolosi cantieri per via delle inevitabili multe e sanzioni, creando
così un esempio trasferibile a Messina, in Val di Susa, a Venezia.
Prima o poi dovrà chiedersi se quello che si propone come organismo
liquido e nazionalpopolare darà la tessera richiesta a un ingombrante ma
utile finanziatore che dal palco del suo stato generale spara la sua
invettiva contro il diritto di sciopero.
Prima o poi dovrà chiedersi
che quoziente di intelligenza ancor prima che di civiltà possiedano degli
amministratori locali che invece di risolvere i problemi li relega in
bus differenziati, li circoscrive dietro alti muri, li condanna
all’eterna discriminazione, anticamera di pogrom, esclusione,
deportazione, processi peraltro avviati con successo dal primo
fondatore, quel Veltroni che della cultura Usa ha mostrato di amare
oltre al cinema e alla Coca Cola, l’indole all’apartheid, il radicamento
del razzismo e della xenofobia anche in via amministrativa.
Prima o poi
dovrà chiedersi che Made in Italy promuove un imprenditore che sfrutta i
suoi lavoratori, che propaganda tutti i più triti stereotipi cari ai
master chef, come se la globalizzazione prima e l’abuso criminale del
territorio non producesse parmesan con caglio di chissà dove, pomodori
della terra dei fuochi, e come se a rilanciare l’immagine del Paese
bastasse portare le guglie del Duomo in America.
Prima o poi dovrà chiedersi con che quattrini, che sostegni, che
favori e voti di scambio, su che tessuto di colpe e con che humus di
misfatti contro il bene comune si siano creati questi imperi economici e
politici, sia cresciuta questa generazione di vassalli e valvassori che
hanno rimesso indietro l’orologio, altro che ora legale, riportandoci a
un feudalesimo buio e spaventoso.
Se il loro futuro è solo l’inizio,
allora vien voglia di un po’ di passato, quando abbiamo avuto la forza
del riscatto.
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