Il
testo che segue, scritto da Marco Revelli su incarico del Comitato
operativo nazionale, si pone come base di discussione per
l'aggiornamento e il rilancio del progetto dell'Altra Europa. Una
discussione non emendativa ma politica, non gerarchicamente ordinata ma
immediatamente aperta e partecipata al contributo di tutti e tutte.
S'intende così sollecitare un confronto vero sulla fase attuale, non certo fornire “le tesi del nuovo partito”.
E
del resto, il testo di Revelli non approfondisce le questioni relative
all’identità e al programma. Si propone di mettere a fuoco gli aspetti
essenziali del quadro politico maturati dopo il 25 maggio, relativamente
alla situazione europea e soprattutto alla situazione italiana, in
particolare segnata dall'accelerazione di Renzi e dalla mutazione
genetica del PD.
Serve
a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che
fare” nei prossimi mesi su alcune questioni dirimenti, prime fra tutte
il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa, il giudizio sul
“renzismo” e sul PD – vera discriminante del nostro progetto.
Propone
l’avvio di “un processo costituente che abbia come obiettivo la
costruzione di un soggetto politico europeo della sinistra e dei
democratici italiani”. Indica come obiettivo qualificante la formazione
di una lista unitaria e plurale per le prossime elezioni politiche “in
grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa alla
austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana incarnata dal
renzismo”.
Non
è dunque un punto di arrivo ma di partenza della discussione.
Certamente lo si potrà trovare troppo aperto o troppo chiuso, troppo
ampio o troppo sbrigativo, e ne resta consapevolmente sullo sfondo il
presupposto di tutto: il contesto della crisi economica e finanziaria
globale, strutturale e “di sistema”, di cui non s'intravvede soluzione e
da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati
radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorare a fondo tutti
insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme, in una
discussione che da oggi vuole coinvolgere tutti i soggetti collettivi e
individuali interessati, dentro e fuori la nostra esperienza, così
rinnovando e proiettando nel futuro le ragioni del patto fondativo che
ha dato vita al percorso dell'Altra Europa.
L'Altra Europa con Tsipras – Comitato operativo nazionale
Cari tutti,
perché non si coltivino eccessive aspettative su questo testo che, lo ricordo, è solo una bozza ( finalizzata alla nostra discussione attuale), voglio precisare che:
- Non sono le “tesi” del nuovo partito. Non si occupa di tutto ciò che dovrà costituire la nostra identità. Nemmeno del nostro programma (massimo o minimo che dir si voglia) Ha il compito più modesto di mettere a fuoco alcuni aspetti del quadro politico maturati successivamente al 25 maggio (fino ad allora quello che ci univa lo sappiamo) per quanto riguarda la situazione europea creatasi dopo il voto, e la situazione italiana, in particolare segnata dall’accelerazione di Renzi e dalla mutazione genetica del PD.
- Serve a tentare di definire le coordinate della nostra discussione sul “che fare” nei prossimi mesi (non in tutta la nostra vita), in particolare per quanto riguarda alcune questioni dirimenti: il rapporto tra azione in Italia e azione in Europa; il giudizio sul “renzismo”, che considero la vera discriminante tra chi “è dentro” e chi “sta fuori” dal progetto e, connesso a questo, il giudizio sul PD e sulla sua irrecuperabilità come partito a un discorso di sinistra; le tappe del nostro “processo costituente” e il rapporto tra obbiettivi qualificanti (la presentazione di una lista capace di sfidare Renzi alle prossime elezioni politiche nazionali) e passaggi sottoposti a valutazioni tattiche...
- Non è dunque un punto di arrivo. E’ il punto di partenza della discussione. Certamente qualcuno lo troverà troppo aperto (include troppi) e altri troppo chiuso (esclude troppi), troppo ampio (tutto il tormentone sul renzismo) o troppo sbrigativo (manca un programma articolato, c’è poco la complessità delle questioni economiche, c’è poco l’ambiente, c’è poco la politica estera e la guerra). Soprattutto resta qui sullo sfondo – ma è il presupposto di tutto il discorso – il contesto della crisi economica e finanziaria globale: la più grave crisi mai attraversata, crisi strutturale, “di sistema”, di cui nessuno oggi intravvede la soluzione e da cui tutti gli assetti sono destinati ad essere trasformati radicalmente. Sono i temi su cui si dovrà lavorate a fondo tutti insieme, una volta accordatici su come e perché stare insieme.
- Se da questo lavoro scaturisse quanto meno l’uso di un linguaggio comune e l’individuazione delle questioni importanti su cui discutere, allora non sarebbe stato inutile.
Detto questo, buon lavoro a tutti.
Marco Revelli
“Cambiare l’Europa per salvare l’Italia”. Si potrebbe sintetizzare così la proposta che L’altra Europa con Tsipras
aveva posto al centro della scorsa campagna elettorale. Significava che
la partita vera, quella per la quale un paese sopravvive o va giù, si
giocava a quel livello: sulla possibilità di rovesciare l’intero
impianto delle politiche europee sostenute dai paesi forti dell’Unione e
incentrate sull’Austerità. Che senza una modificazione sostanziale e
radicale di quelle politiche comunitarie, l’Italia sarebbe stata
condannata o a un brusco default (in caso di fuoriuscita dall’Euro). O a
una lunga agonia (nel caso di una permanenza nella sua area).
Ora bisogna aggiungere un secondo passo: “Cambiare l’Italia per cambiare l’Europa”.
Perché l’Europa non ha “cambiato verso”. Nonostante che le elezioni
europee abbiano sancito una sostanziale delegittimazione della politica
delle “larghe intese” (Ppe e Pse, i due partiti contraenti di quel
patto, hanno entrambi perso elettori in presenza di un’astensione che
supera di molto il 50% mentre cresce minacciosa l’ondata dei populismi
di destra). E nonostante che un’opposizione ferma e intransigente di
sinistra sia cresciuta soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi, l’asse tedesco Merkel-Schulz è stato riproposto e imposto all’intero continente.
La nuova Commissione non solo replica le linee della precedente, ma le peggiora,
come è stato puntualmente e autorevolmente denunciato dai nostri
parlamentari Eleonora Forenza, Curzio Maltese e Barbara Spinelli, che vi
si sono opposti strenuamente insieme a tutto il gruppo del GUE.
Composta da 13 popolari, 7 socialisti, 5 liberali e un conservatore,
voluta dalla Merkel e posta sotto il controllo dei falchi, non farà che
aggravare una situazione già drammaticamente compromessa. L’Europa
continuerà a funzionare come una grande “macchina imperiale” destinata a
prelevare risorse in basso, nel mondo del lavoro, e nelle periferie, in
particolare nell’area mediterranea, per trasferirle in alto (ai canali
finanziari) e al centro (ai “Paesi forti”).
E’
il modo con cui la crisi viene usata da parte dei poteri -
prevalentemente finanziari - che controllano la politica europea
incarnata dalle “larghe intese”: dal lavoro al capitale. Dal salario al
profitto. Dai paesi fragili a quelli forti. Dall’economia reale al
circuito finanziario, secondo un meccanismo che continua ad aumentare le diseguaglianze già scandalose e l’iniquità.
E’ questa la sostanza delle cosiddette “riforme” che ossessivamente
vengono richieste: attacco al reddito e al potere d’acquisto della
variegata area del lavoro, privatizzazione di ciò che resta del
patrimonio pubblico e che possa essere oggetto di business, riduzione
della spesa pubblica e dell’occupazione nelle pubblica amministrazione,
eliminazione dei vincoli alla spogliazione del patrimonio paesaggistico,
artistico e territoriale e liquidazione del concetto stesso di “bene
comune” in nome dell’utilizzo economico privato. Il memorandum imposto
alla Grecia e ora generalizzato su scala continentale.
Non
solo. Quest’Europa chiusa nei propri egoismi e nelle proprie
diseguaglianze all’interno, mostra un volto indecente, sul piano
politico e su quello morale, anche all’esterno: nell’assenza assoluta
dalla sua agenda – ma anche dall’orizzonte mentale delle scialbe figure
che ne occupano i vertici – dei grandi temi che decidono del destino
dell’umanità intera, come la questione epocale del crescente degrado
ambientale e climatico, la sfida energetica e l’insostenibilità di un
modello fondato su un’impossibile crescita illimitata, la
mercatizzazione integrale delle risorse e delle fonti della vita contro
le esigenze della vita stessa. Per non parlare delle politiche
migratorie, scandaloso esempio di chiusura della Fortress Europe,
sorda, cieca e muta di fronte alla strage permanente che si consuma
lungo i propri confini, testimone-complice di un crimine contro
l’umanità reiterato all’infinito; e di una politica estera che non solo
non è riuscita a prevenire ed evitare la guerra – secondo il mandato
implicito ricevuto nel 1945 di bandire la guerra dalla storia del mondo –
ma l’ha disseminata ovunque intorno a sé con decisioni ottuse e
colpevoli, dall'Ukraina (delicatissimo Paese-ponte tra Est ed Ovest, il
cui equilibrio avrebbe dovuto essere preservato come un bene prezioso e
che invece è stato terremotato da una serie sconclusionata di interventi
destabilizzanti) alla Libia, alla Siria e allo stesso Irak… Quella che
avrebbe dovuto essere, secondo una felice definizione, una “grande
potenza culturale” si è trasformata in un gretto agglomerato di
interessi, chiuso nel cerchio opaco del business e della potenza finanziaria come unico criterio di orientamento delle proprie politiche.
Quel cerchio va spezzato.
Con una mobilitazione dal basso, forte, transnazionale, di dimensione
continentale, che unisca al di là dei confini nazionali (e dei
nazionalismi) gli europei che non accettano questo destino, a cominciare
dalle vittime di questo uso della crisi e di queste politiche. Ma anche
con un’iniziativa che veda protagonisti gli Stati più colpiti,
attraverso una politica di alleanze che crei un fronte alternativo alla
congregazione dei fondamentalisti dell’Austerità e dei custodi di un
Rigore che premia solo i privilegiati, creditori esosi di una massa
d’indebitati che non potrà che crescere su se stessa alimentando
all’infinito il meccanismo della crisi e della diseguaglianza che ne sta
all’origine. Un fronte che abbia al centro i 10 punti che già
affermammo in campagna elettorale. E che sono in frontale antitesi alle
linee su cui muove la politica e l’ideologia delle “larghe intese”, a
cui invece, sciaguratamente, è del tutto interno e subalterno l’attuale
governo, nonostante le promesse elettorali di Matteo Renzi e le
retoriche che avevano accompagnato la kermesse del “semestre italiano”.
Tra
le ragioni del fatidico 40,8% che ne ha certificato la santità come lo
scioglimento del sangue di san Gennaro certifica il miracolo, oltre a
una buona dose di demagogia comunicativa e all’appoggio monopolistico
dei media, c’è anche questa millantata promessa di “farsi sentire” in
Europa. La sceneggiata dei “pugni battuti” sul tavolo a Berlino. Gli
sfracelli dei sei mesi “alla guida” a Bruxelles. La fine della
subalternità montiana, dell’acquiescenza lettiana… Un grande, consapevole imbroglio.
Non solo perché al momento buono Matteo Renzi ha approvato senza colpo
ferire la Commissione Juncker, col suo pieno di rigoristi e di
fustigatori tedeschi e finlandesi, legandosi una macina al collo. E ha
scambiato la primogenitura di un Commissario economico con il piatto di
lenticchie di una propria fedele a capo di una politica estera che non
c’è. Non solo perché si è accucciato buono buono davanti ai diktat della
Banca centrale europea, promettendo e consegnando ai banchieri centrali
lo scalpo del sindacato italiano appena macellato. Ma anche e
soprattutto perché il suo programma è scritto, punto per punto, sul
palinsesto della peggiore Europa. Dal primo decreto Poletti, che
formalizzava la precarietà del lavoro decretandone la svalorizzazione
come destino, al cosiddetto “Sblocca Italia”, giustamente rinominato
“Rottama Italia” dai più prestigiosi esperti del patrimonio
territoriale, fino alla interpretazione della spending review come prevalente piano di privatizzazioni e al Jobs act
come liquidazione della residua civiltà gius-lavoristica moderna. O, in
ultimo, alla Legge di stabilità che simula politiche espansive “in
libera uscita” rispetto ai “controllori” europei ma scarica in realtà i
costi dei “doni” offerti alle imprese sulle amministrazioni locali e
quindi sui servizi ai cittadini più bisognosi, in ossequio
all’intoccabilità di quel 3% che costituisce (quello sì) il vero totem
dell’ideologia tedesca (ed europea) oggi.
Per
questo noi diciamo che Matteo Renzi non è l’alternativa alla Troika, al
suo minacciato commissariamento, secondo il mantra che ha recitato e
che gli ha fruttato la legittimazione. Non è il “male minore”, ultima
spiaggia per scacciare il rischio della totale cessione di sovranità. Matteo Renzi è la Troika interiorizzata.
E’ la forma personalizzata che assume la cessione di sovranità quando
viene camuffata con la retorica del demagogo. Il suo “miracolo” – più
simile al gioco di un prestigiatore che al prodigio di un santo – è di
far apparire Uno ciò che è Trino (o plurimo), presentando come atto
liberatorio ciò che è in realtà una sottomissione servile. Il suo è un
Trasformismo di tipo nuovo, non più quello di Agostino Depretis ancor
tutto sommato interno alla società politica, ma quello, più adatto alla
società dello spettacolo, del “transformer”: dell’illusionista che
trucca le carte e se stesso deviando l’ attenzione del proprio pubblico
con la tecnica del diversivo.
Allo
stesso modo aggiungiamo che Renzi non è la (possibile) soluzione alla
crisi economica e sociale. Non ne ha la forza, nei rapporti
internazionali, privo com’è di una politica delle alleanze. Non ne ha la
cultura e le competenze (la sua squadra di governo, zeppa di figuranti,
sembra pensata più per non far ombra al Capo che per trovare soluzioni a
una situazione drammatica). Non ha una sola idea adeguata, come
dimostra la trovata dell’anticipo in busta del Tfr, sintomo della
disperazione di chi per sopravvivere nel presente si mangia il futuro.
Lungi dal rappresentarne una qualche, sia pur difficile, via di uscita
Renzi è, al contrario, la crisi stessa messa al lavoro in politica. E’
la forma che la crisi assume quando il suo potenziale distruttivo viene
trasferito sul piano politico e applicato alla forma di governo.
L’”energia” di cui appare dotato il “renzismo” nella sua opera di
rottamazione di tutto ciò che si oppone e rallenta il dispiegarsi del
suo potere è la stessa energia con cui la crisi distrugge e liquida
consolidati equilibri sociali, soggetti collettivi, sistemi di garanzia e
di tutela: le forme di mediazione e gli stessi “patti fondamentali” con
cui la società industriale aveva mediato i propri conflitti e costruito
la propria coesione. Senza
la crisi il renzismo non sarebbe neppure concepibile. Senza il renzismo
la crisi non potrebbe essere utilizzata dai poteri che reggono l’Europa
per realizzare il progetto di trasformazione che gli hanno assegnato
come compito, e che costituisce l’effettiva (e occulta) legittimazione
del suo potere. E quando diciamo “senza il renzismo” intendiamo senza la
sua carica torbida di “populismo dall’alto” (o di “populismo di
governo”, che è tra le forme peggiori), senza la sua capacità (polimorfa
e perversa) di mutare la disperazione di massa in speranza tramite
l’espediente dell’illusione, senza la sua tecnica di mutuare linguaggi
ribellistici dentro un progetto reazionario.
Il renzismo non è dunque un punto di caduta temporaneo di una democrazia malata ma ancora vitale.
Non è un incidente di percorso, un’occasionale irruzione di Iksos
fiorentini che attende di essere riassorbita in una qualche normalità
istituzionale romana. Il renzismo porta a compimento la crisi terminale della democrazia rappresentativa.
Non la produce, certo (perché essa è il risultato di un processo lungo
di deterioramento, svuotamento e degrado), ma la “mette in sicurezza”,
per così dire: la certifica e la dichiara normale e definitiva. Anzi,
utilizza spregiudicatamente il discredito e la sfiducia di massa – il
rancore e il risentimento - nei confronti della classe politica e dei
propri “rappresentanti” come leva del proprio consenso personale e del
ruolo demiurgico di esecutore fallimentare del parlamento e del sistema
parlamentare, considerandosene ormai “oltre”. Irreversibilmente “oltre”, in una post-democrazia plebiscitaria
in cui le consolidate istituzioni costituzionali sono poste in disuso
(come, appunto, le auto in attesa di rottamazione), e ciò che ancora ne
resta viene sistematicamente manomesso.
Così
è stato per il principio stesso di rappresentanza, in occasione
dell’indecente battaglia di agosto per la liquidazione del Senato come
istituzione elettiva. Così è per il rapporto tra Potere Legislativo e
Potere Esecutivo – tra Parlamento e Governo -, con l’umiliazione
sistematica del primo e l’assolutizzazione del secondo, umiliato a sua
volta nella sua collegialità e monocratizzato nella figura del Premier
(vera e propria rivoluzione copernicana rispetto a quanto detta la
Costituzione). Così è, d’altra parte, per la natura e il ruolo dei
partiti politici, a cominciare dal suo, il Pd, il quale ha subìto, sotto
l’effetto dell’ elettrochoc renziano, una vera e propria mutazione
genetica trasformandosi, alla velocità della luce, da aggregato
eterogeneo di gruppi d’interesse e di amministratori (“partito di massa”
aveva cessato da tempo di esserlo) in “partito del capo” e,
tendenzialmente, “partito unico della nazione”. Struttura amorfa,
risucchiata d’autorità in alto, fuori dalla società ma anche dal
Parlamento. Appendice del Governo e soprattutto del suo Premier, in
attesa di essere sciolto nel serbatoio bipartisan che già emerge
dall’omologazione antropologica degli elettorati che furono, fino a
ieri, di centro-destra e di centro-sinistra. E che tendono ormai, nei
fatti, a diventare un’unica platea plebiscitaria (e pubblicitaria), dopo
la stipulazione di quel Patto del Nazareno che riconsegna a un leader
squalificato e pregiudicato, in evidente decadenza, il ruolo di partner
costituente. E che ipoteca pesantemente il futuro per quanto attiene
alle più alte cariche dello Stato.
Sotto questa luce, la vicenda parlamentare della mozione di fiducia sul Jobs Act
costituisce un punto di osservazione e di verità straordinario. Una
residua istituzione rappresentativa – uno dei due rami del Legislativo –
costretta ad approvare a forza (con la minaccia mortale della caduta
del Governo e della possibile fine della legislatura) una delega in
bianco (destinata ad essere concretizzata unilateralmente dal Governo)
relativa alla liquidazione (pratica e, cosa ancor più grave, simbolica)
di storiche tutele del lavoro, resa nota la notte precedente il voto,
con un pronunciamento pressoché unanime del partito che dovrebbe avere
nel proprio dna, se non altro per via degli antenati, il riferimento al
movimento dei lavoratori, e con la cooperazione “attivamente passiva”
dei senatori berlusconiani assenti al momento del voto. Se si voleva una
prova lampante del processo di assorbimento del Parlamento dentro (e
sotto) il Governo, e dello “sfondamento” di ogni residuo di autonomia
all’interno dell’ex Partito democratico (dell’impotenza della sua
cosiddetta “sinistra”), qui la si è avuta. Nel giro di un solo giorno si
è potuto assistere pressoché in diretta, alla rappresentazione del
processo di verticalizzazione del potere (e della sua personalizzazione
in chiave plebiscitaria) che sta nel progetto e soprattutto nella
pratica del renzismo e delle forze che senza comparire ne scrivono il
copione. Contemporaneamente, dai brandelli di un dibattito sgangherato e
frettoloso, si è potuto intravvedere, inquietante, il profilo del nuovo
immaginario sociale che avanza, rovesciamento di tutti i valori,
modificazione della costituzione materiale prima che di quella formale,
con il Profitto, il Business, l’Impresa a fondamento di una Repubblica
ormai post-democratica, e il Lavoro, le donne e gli uomini che lo
eseguono, ridotti non solo a variabile dipendente, ma a possibile
minaccia, con i loro diritti considerati blasfemamente “privilegi”, alla
“libertà d’impresa” e all’attrattività degli investimenti.
Rovesciamento simbolico, appunto, e proprio per questo tanto più
devastante del nostro stato di civiltà.
Le conseguenze politiche di tutto questo – se si condivide il quadro analitico – sono evidenti, e terribilmente impegnative: siamo in presenza di una grave “emergenza democratica”
di fronte a un processo che tende a produrre una vera e propria
mutazione genetica dell’assetto politico-istituzionale del Paese e del
sistema del partiti. Esso sconvolge il tradizionale panorama politico
incentrato sulla contrapposizione bipolare
centro-destra/centro-sinistra, categorie travolte ora dalla
trasversalità del progetto e della pratica renziana. Modifica
radicalmente il quadro delle identità politiche, svuotando di
significato e rendendo anzi ambigua e deviante l’attribuzione della
qualifica di “sinistra” (per quello che ancora può significare), al
Partito democratico. E crea un’inedita necessità di mobilitazione capace
di porsi all’altezza della sfida che viene lanciata.
Quando
diciamo “inedita capacità di mobilitazione” intendiamo dire che non si
tratta di un progetto “testimoniale”. Della costruzione di una “piccola
casa” per esuli dalle tante vicende politiche della sinistra. O di
un’asta a cui appendere stinte bandiere. Intendiamo dire ciò che
un’emergenza richiede: il massimo possibile di forza da mettere in campo per invertire una tendenza,
per fermare un’azione di devastazione istituzionale e culturale, per
scongiurare un pericolo che si avverte potenzialmente irreparabile, per
arginare la devastazione di un patrimonio culturale condiviso, e per
contrapporre a tutto ciò un sistema di valori e un modello di pratica
all’altezza dei tempi. Un
fronte più ampio possibile da costruire nella chiarezza su ciò che si
vuole contrastare e nella apertura su ciò che si intende unire.
In
quest’opera è importante la capacità di opposizione ai singoli
passaggi, nelle diverse sedi, dal Parlamento alla piazza, ai luoghi di
lavoro e alle aule scolastiche. Per questo siamo e saremo sempre
solidali con chiunque, in ogni sede, metta pietre d’inciampo al progetto
renziano-berlusconiano che nel pactum sceleris del Nazareno ha trovato
la propria sanzione. Ma ancor più importante, perché da essa dipende la
possibilità di farcela davvero, è l’elaborazione di un’ effettiva alternativa al renzismo.
Di una risposta credibile, adeguata nelle forme e nei contenuti alla
sfida che esso apre, capace di coglierne i punti di forza e di
rovesciarli, non solo svelando l’inganno (che c’è sempre) ma offendo
soluzioni praticabili qui ed ora, e soprattutto offrendo un’immagine di
noi diversa da quella che ci accompagna da tempo e che ciclicamente
ritorna.
Il
principale punto di forza di Renzi è la crisi, come si è detto. La sua
stessa gravità. Di più: la sua apparente insuperabilità senza l’
intervento straordinario di una figura salvifica in cui “credere” (e poi
magari anche obbedire se non combattere). Il mito, appunto,
dell’”ultima spiaggia”, del “dopo di lui il diluvio”, che blocca ogni
smottamento, sutura ogni linea di frattura, sana ogni dissenso interno e
ogni ribellione esterna.
Dobbiamo contrapporgli una linea di uscita, se non dalla crisi – che è
endemica di questo capitalismo globale e in particolare nel modello
europeo – almeno dall’emergenza. Un programma radicalmente
altro rispetto a quello dettato da Bruxelles e da Berlino e fatto
proprio dal “bisbetico domato” Matteo Renzi. Pochi punti, chiari come
facemmo con i 10 punti della Lista, a cominciare dalla questione del
debito e del suo necessario “consolidamento”, dalla rottura dei patti
capestro europei e dal superamento del vincoli del fiscal compact, da un
programma eccezionale per l’occupazione, per la messa in sicurezza del
territorio, per la ristrutturazione energetica, per la rappresentanza
dei lavoratori in fabbrica e il superamento vero, non retorico, della
jungla contrattuale tra gli “atipici”… Da portare e discutere tra la
gente, non tanto o comunque non solo nelle nostre solite assemblee che
radunano troppo spesso i già convinti.
Il secondo punto di forza di Renzi è l’evocazione sistematica, ossessiva, della rottura
– del “nuovo inizio”, del “cambiar verso”, della “rottamazione” appunto
– inserita nel quadro del peggior continuismo (cosa, se non la sintesi
del peggio dell’ultimo quarto di secolo è il Patto del Nazareno?).
L’assunzione dei codici linguistici propri del “populismo di
opposizione” – dei suoi luoghi comuni, dei suoi j’accuse, delle sue domande di tabula rasa
– per far da propellente al suo “populismo di governo”. Il lessico del
ribelle come scrittura del libro del potere. Evocazione retorica,
naturalmente, illusoria, manipolante, ma che affonda le radici in un
cratere di disperazione, nell’impossibilità di vedere un futuro, nella
consapevolezza che “così non si può andare avanti”, che “ci vuole uno
scossone” che se non può più venire dal basso, che almeno venga
dall’alto, nell’affidamento superstizioso all’intervento salvifico di
chi “può”. Quel cratere, che Renzi non può prosciugare, può soltanto
“usare” al proprio fine personale, dovremmo riempirlo noi, almeno in
parte. A quella domanda di rottura giustificatissima dovremmo riuscire a rispondere noi.
Ma
qui intervengono i nostri punti di debolezza. Il primo del quali siamo
noi stessi. La nostra storia deragliata. La nostra antropologia
lesionata. I vizi acquisiti e forse anche quelli originari. La
principale ragione della nostra difficoltà ad attirare tutti quelli che
potenzialmente ci sarebbero, e di trattenere tutti quelli che si
avvicinano, è l’immagine che proiettiamo. Quello che fa fuggire la gente normale lontano da noi è la nostra endemica litigiosità,
il bisogno costante di identificarci per contrapposizione nei confronti
di chi ci sta più vicino, l’incapacità di ascolto degli altri e di
interlocuzione con essi, l’intolleranza, la mania di piantar bandierine,
la frammentazione spinta fino alla scissione dell’atomo, l’assenza di
una visione pragmatica dei processi e la difficoltà a separare
l’essenziale dal secondario, lo strategico dal contingente. Questo ci
rende incerti e insicuri, come l’Amleto della tragedia, in questi “tempi
bolsi e tronfi” in cui ricostruire una prospettiva credibile
richiederebbe in primo luogo un taglio netto con pratiche consuete,
stili di lavoro e di comportamento improponibili, come in qualche modo, e
almeno parzialmente, si era provato a fare nel lancio della Lista la
primavera scorsa. E poi una straordinaria mobilitazione di intelligenza, creatività, spregiudicatezza, conoscenza
perché il nostro pensiero è oggi insufficiente di fronte alle
travolgenti trasformazione della società che vorremmo intercettare: “unire ciò che la crisi e il neoliberismo hanno diviso” è un buon proposito, ma come questo possa essere fatto in presenza di una scomposizione feroce di tutti i soggetti e di tutte le aggregazioni
– alla frantumazione del “diamante del lavoro”, come è stato
felicemente detto – spinta fino al punto di contrapporne le parti fra
loro in una nuova “guerra di tutti contro tutti”, di fronte alla
smaterializzazione dei processi produttivi e dei sistemi di relazioni,
al primato della dimensione finanziaria su quella produttiva, allo
spossessamento dei luoghi tradizionali del conflitto, dobbiamo cercarlo
ancora. Allo stesso modo
la difesa intransigente della democrazia non solo come principio ma
anche come assetto istituzionale, così come è scolpita nella nostra
Costituzione, è opera nobile e necessaria, ma non ci possiamo nascondere il grado e la misura in cui il principio stesso di rappresentanza è stato lesionato da processi reali, per certi versi devastanti e purtroppo irreversibili:
dalla globalizzazione dei processi non solo economici e comunicativi,
ma di comando o come si dice di governance, e dalla totalizzazione di un
sistema mediatico pervasivo, multiforme e integrato, a cui occorre dare
risposte in avanti, non certo nello scioglimento di quella crisi nel
plebiscitarismo del leader più o meno carismatico ma in un di più di partecipazione, sviluppata nei luoghi della vita, al livello territoriale, in
forme già in parte sperimentate là dove si sono aperte linee di
frattura, conflitti radicati nelle “coscienza di luogo” (si pensi alla
Val di Susa) ma che attendono una sistemazione e una riflessione. Per non dire della crisi delle forme organizzative, a cominciare dalla “forma partito”,
delle cui dinamiche dissolutive la mutazione genetica del Partito
democratico è l’esempio più spettacolare perché lì si rappresenta, in
tutta la sua drammaticità. Sarebbe una catastrofe se noi pensassimo di
ricostruire una casa (un “piccola casa”) per gli esuli di quel crollo,
sulle stesse fondamenta e sullo stesso progetto, senza porci il
problema, quello vero, di
cosa si sostituisce al modello organizzativo del “partito di massa” che
ha dominato l’orizzonte politico novecentesco e che con quel secolo si è
inabissato: quale forma di organizzazione della
soggettività politica si può immaginare nell’epoca della scomposizione
delle soggettività, dell’inoperosità della politica al livello della
dimensione nazionale, della crescente difficoltà di ricondurre la
disseminazione degli “Io” autoreferenziali e impotenti all’operatività
di un “Noi” attivo e consapevole.
Per questo noi non proponiamo oggi un “soggetto politico” già bell’e fatto (o pensato), da “prendere o lasciare”. Proponiamo
al contrario un processo – possiamo chiamarlo un “processo costituente”
– di lunga durata in grado di proiettare l’esperienza de L’Altra Europa
oltre la vicenda, felicemente conclusa, di quella Lista elettorale. Un
processo da iniziare subito, questo sì, ma in cui nessuno può pensare
di aver già in mano la Costituzione scritta da imporre agli altri, e
nemmeno i “lavori preparatori” già compiuti: un processo nel quale davvero si avanzi domandando,
forse anche per prove ed errori, e in cui sia ben chiaro il rapporto
tra le tappe intermedie e la meta finale che resta, certamente, la
volontà di creare quello che potremmo definire, per ora, un “SOGGETTO POLITICO EUROPEO DELLA SINISTRA E DEI DEMOCRATICI ITALIANI”,
per sottolinearne la doppia vocazione: la dimensione europea
dell’azione strategica e l’apertura a un’ampia area democratica e di
sinistra italiana.
Per
questo la prima tappa intermedia, da dichiarare subito, senza indugi, è
a sua volta l’obbiettivo di giungere alle prossime elezioni politiche –
quale che sia il momento in cui si terranno – con una
lista in grado di unire tutte le componenti di una sinistra non arresa
alla austerità europea e alla sua versione autoritaria italiana
incarnata dal renzismo, determinata a sfidarlo in modo
credibile sul doppio terreno dell’egemonia e della capacità
d’innovazione nel senso migliore di questo termine, cioè facendo proprio
il bisogno radicale di mutamento dei tanti sacrificati dalla crisi e
dall’austerità. La sfida
elettorale sul livello nazionale è senza dubbio la competizione giusta
per lanciare il processo qui descritto con tutta la forza e l’estensione
rese necessarie dall’importanza della sfida. Alla sua piena
riuscita è necessario commisurare ogni altra nostra mossa. D’altra
parte per il successo dell’iniziativa è fondamentale lo sviluppo di una
proposta programmatica articolata e precisa, con un ventaglio di punti
programmatici completo (dal lavoro e dai diritti, naturalmente, all’
ambiente, alla sanità, ai trasporti, all’ istruzione e ricerca, dalla
politica estera alla questione dei migranti…) per cui abbiamo ottime
basi in quello che abbiamo presentato alle europee ma che deve essere
sviluppato e precisato, senza perdere chiarezza e comprensibilità, in
una discussione collettiva che richiederà per lo meno qualche mese di
lavoro intenso e partecipato per cui è bene che tutti si attrezzino.
In quest’ottica di percorso
(di ampliamento della nostra base e di approfondimento dei nostri
contenuti) il risultato della Lista L'altra Europa con Tsipras il 25
maggio, può essere considerato, sia pur moderatamente, un buon punto di
partenza, date le condizioni in cui era la sinistra italiana, e un
incoraggiamento per il futuro: si è evitato il rischio - il "paradosso"
come l' aveva definito Tsipras - che per la seconda volta la sinistra
italiana non fosse rappresentata in Europa (sono stati portati al PE tre
rappresentanti di alto livello); si è dimostrato che anche la soglia
incostituzionale del 4% poteva essere superata; si è data a 1.103.000
elettori la possibilità di esprimersi con una scelta limpidamente di
sinistra; si è aperta una strada per un percorso che altrimenti, in caso
di fallimento, sarebbe stata irrimediabilmente chiusa. Né va
sottovalutato il ruolo di Alexis Tsipras, che ci ha permesso di dare con
chiarezza al nostro progetto – unico tra tutti - un respiro di
esperienza, di pratica e di organizzazione politica trans-nazionale con
respiro europeo.
Quel
(ancora parziale) successo si è ottenuto con il concorso di diverse
forze e realtà: la rete delle associazioni in lotta per un’alternativa e
parti dei movimenti critici dell’esistente, a cominciare da quello per
l'acqua e i beni comuni; un'area di opinione democratica, impegnata
nella difesa della Costituzione e dei diritti e preoccupata della deriva
autoritaria dei governo Renzi; le diverse realtà organizzate in forma
di partito, fino ad allora divise e talvolta contrapposte; e infine, ma
non meno importante, anzi, un robusto gruppo di intellettuali e di
esponenti del mondo della cultura che hanno "fatto la differenza" per
quanto riguarda l'immagine della lista, oltre al gran numero di persone,
cittadini, attivisti, simpatizzanti che si sono impegnati nei comitati
(e anche fuori di essi, spontaneamente). E'
convinzione condivisa – ed è d’altra parte un dato di fatti evidente -
che nessuna di tali componenti sia stata prevalente, perché tutte sono
state INDISPENSABILI per garantire il superamento della soglia.
Per
questa ragione il percorso oltre l'esperienza elettorale europea per la
nascita di una sinistra italiana deve proporsi di mantenere entro i
limiti del possibile il coinvolgimento di tutti i soggetti e le realtà
che hanno contribuito a quel successo, con l'obbiettivo dichiarato non
solo di consolidarlo ma di ampliarlo. Non ci si nasconde infatti che
quel 1.103.000 elettori è solo una parte, sottile, di elettorato
potenziale: rappresenta un voto ancora prevalentemente d'opinione,
concentrato negli strati più colti e informati di popolazione. Occorrerà lavorare molto per radicarci nei territori e tra gli strati di popolazione più sofferenti per la crisi,
in parte rifugiatisi nell' astensione, in parte convinti dal populismo
grillino, in parte sedotti dalle elemosine di Renzi. Un lavoro
inevitabilmente lungo, perché ogni realtà locale ha la propria storia e
attori politici eterogenei e richiede attenzione alle specificità”di
luogo”, rispetto delle differenti dinamiche di territorio (sfuggendo
allo schema da “partito novecentesco” che imponeva la presentazione
automatica delle proprie liste a ogni livello elettorale e in ogni sede
territoriale), capacità di “governare” il rapporto tra progetto generale
e domanda locale secondo logiche non schematiche e soprattutto con
attenzione intelligente al rapporto “mezzi-fini”.
Siamo
consapevoli che non sarà facile: le condizioni della campagna europea
erano in qualche modo eccezionali e ci favorivano, sia per il
riferimento a Tsipras, sia perché era senso comune che o si faceva come
si è fatto, con una certa forzatura anche verso le forze più organizzate
in forma di partito, o non si sarebbe concluso nulla. Quelle condizioni
non ci sono più: ora bisogna condurre un percorso condiviso, che porti ad una definizione di forme di rappresentanza pienamente legittimate,
e procedere a un complesso lavoro diplomatico di cucitura e
convergenza, rispettoso di tutte le storie e di tutte le identità ma
anche consapevole della necessita di superare distinzioni e
sopravvivenze sempre più parziali e meno riconosciute, consapevoli
dell’insufficienza, sempre più palese, di un approccio affidato alla
vecchia pratica degli accordi tra apparati di partito o frazioni di ceto
politico tanto più dopo che l’attesa di una rottura significativa nei
gruppi dirigenti del PD si è rivelata clamorosamente vana (altro
discorso, naturalmente, riguarda l’elettorato di quel partito e quanto
resta del suo corpo militante).
Per
far questo in condizioni adeguate noi riteniamo che sia necessario,
preliminarmente, iniziare a tracciare il campo dei partecipanti al
processo o, come si è detto, "definire il nostro corpo", attraverso
l’adesione individuale ai punti qualificanti di questo Documento. E, in
connessione con ciò, la proposta che chiediamo di discutere è di aprire
l’Associazione L’Altra Europa con Tsipras, a tutt’oggi rappresentante
legale della Lista, all’adesione individuale di massa, scrivendone lo
Statuto (entro mesi 9 dall’avvio dalla campagna di adesione) in una
chiave partecipativa e democratica e rivolgendoci a tutti coloro che
hanno partecipato alla campagna per le europee, che appartengano o meno a
partiti o a movimenti o ad altre formazioni. Ai soggetti collettivi,
d’altra parte, (partiti, movimenti, associazione) non è richiesto di
sciogliersi come condizione di partecipazione al percorso (ogni
soggettività è titolare delle proprie scelte), ma ne auspichiamo
l’impegno convinto e l’assunzione dell’obbiettivo finale (la necessità e
l’urgenza di dar vita a una forma di rappresentanza unitaria nella
scena politica nazionale), così come è stato per le elezioni europee.
D’altra
parte, intorno a noi, c’è un mondo di donne e di uomini che ogni giorno
si sbatte per resistere e per cambiare, o comunque che “non ci sta”:
c’è una “sinistra fuori dalla sinistra”, che non trova sponda in ciò che
c’è (o che si vede) e che meriterebbe una rappresentanza politica degna
di questo nome. E’ con loro che dobbiamo camminare.
Ci
saranno senza dubbio tensioni e difficoltà, lungo questo cammino, ma
siamo convinti che la forza del progetto generale, come nel modello
tracciato da Syriza, sarà più forte.
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