Il conflitto sindacale o politico è una droga potentissima:
fa concentrare l'attenzione dei protagonisti sull'assoluto presente. Si
sta attenti a cosa si può vincere o perdere in questa battaglia
concreta. È necessario, se si vuole “stare sul pezzo”, attaccare e
difendersi in tempo reale. E si perde inevitabilmente di vista il lungo
periodo, i cambiamenti strutturali che intervengono, specie se investono
sfere al di fuori del nostro controllo immediato. Occorre sempre uno
sforzo soggettivo incredibile per “fare il punto” ad ogni stazione
rilevante di questo cammino, per accumulare l'esperienza collettiva,
fissarla in organizzazione stabile, ma reattiva agli inevitabili
cambiamenti. È esattamente il contrario di quel che predicavano, decenni
orsono, certi sciagurati che facevano “l'elogio dell'assenza di
memoria”, inventandosi il bizzarro principio per cui, se non si sa nulla
delle sconfitte passate, si procede più risolutamente sulla via del
conflitto. Ricominciando ogni volta da sciame, folla, plebe, racaille,
“massa” consapevole soltanto dei propri bisogni e del proprio numero.
Senza progetto, storia, futuro. Ovvero quel che più desidera qualsiasi
potere, diciamolo: un avversario incompetente.
“Come
siamo arrivati a questo incrocio?” è invece la domanda che ogni
viaggiatore è costretto a porsi se vuole procedere oltre, verificando se
davanti ci sono strade già tracciate o sentieri incerti. Per scegliere
ogni volta – soppesando certezza e scommessa – il cammino da qui in poi.
Per questo motivo libri come quello di Giorgio Cremaschi sono indispensabili. Necessari.
Magari non saranno precisi come un saggio scientifico (né, giustamente,
pretendono di esserlo), certo saranno discutibili in questo o quel
giudizio, su questo o quel passaggio storico. La loro necessità non
dipende dal quantitativo di “verità” che ogni affermazione possiede, ma
dalla verità intrinseca di un percorso ultraquarantennale
all'interno del più grande sindacato d'Europa, vissuti “al fronte”,
nella trincea da cui i metalmeccanici hanno spesso guidato offensive
travolgenti e in cui sono stati più volte ricacciati. Fino al baratro
odierno, per tutto il movimento operaio.
Si può arrivare alla fine di questa cavalcata in una posizione
minoritaria di fatto pur senza nutrire alcuna passione per il
minoritarismo, per il restare “pochi ma buoni”. Si sfugge a questa
trappola ponendosi sempre i problemi dal punto di vista generale,
tenendo conto della “grandi masse” dei lavoratori – quelli veri, capaci
di rabbia e paura, di solidarietà eroiche e di rese vergognose, animati
da slanci rivoluzionari e inchiodati a mutui da pagare – e non solo
della “linea giusta” sul piano astratto.
Lavoratori come farfalle. La resa del più grande sindacato d'Europa
(Jaca Book) ha questo respiro; non si accontenta di ribadire un punto
di vista storicamente eccentrico rispetto al compassato corpaccione del
funzionariato Cgil, ma ricostruisce il come e il perché di tanti
conflitti, scontri, attacchi, rese; viviseziona un lento ma colossale
cedimento culturale che ha accompagnato (a volte seguendo, a volte
precedendo) le sconfitte degli ultimi 35 anni. A partire naturalmente da
quell'autentico big bang negativo che fu l'esito dei “35 giorni di
occupazione alla Fiat”, preceduto non per caso dalla “svolta dell'Eur”,
nel '77, e dall'adozione di una linea strategica “compatibilista”, di
accettazione dei “sacrifici per salvare il paese”. Per arrivare infine
al presente “cambio d'epoca”, segnato dal trasferimento delle decisioni
politiche centrali dentro un reticolo di istituzioni sovranazionali,
politicamente irresponsabili e programmaticamente sottratte alla
verifica democratica.
Il titolo parla del futuro, non del passato. Quando i lavoratori saranno farfalle solo
alla fine di un lunghissimo percorso analogo a quello che – dallo stato
di larva - porta a spiegare le ali solo alla fine della vita. E poi si
muore. È la sintesi metaforica del “contratto a tutele crescenti”, la
vecchia idea di Ichino che questo governo ha fatto sua: da apprendista a
precario, lungo una scala infinita di ricatti e licenziamenti, in cui
la meta della “certezza della non licenziabilità” (sempre che l'azienda
resti in piedi tutto quel tempo...) verrà toccata un attimo prima della
pensione. Di breve durata, naturalmente, perché “agganciata alle
aspettative di vita”.
Lo sguardo di Cremaschi è decisamente empatico con la condizione del
lavoratore dipendente, con l'”operaio”; ma è questa volta uno sguardo
dall'alto, per individuare appunto la strada oltre il baratro presente, e
i contorni della soggettività che dovrà essere in grado di prendere il
posto di quelle tramontate senza neanche un gesto di dignitosa
ribellione finale. Inizia con la “scoperta” che la condizione di oggi è
quasi esattamente la stessa che aveva trovato da giovanissimo, quando i
volantini chiedavano di “l’abolizione dell’apprendistato e dei
contratti a termine, perché, si scriveva, servivano solo a pagare di
meno e a sfruttare di più”. Un apprendistato, per la precisione, che “durava due settimane per un operaio, poco più di un mese per un impiegato”,
ossia il periodo che in effetti serve per apprendere le funzioni base
della mansione per cui verrai pagato. Altro che i tre anni (rinnovabili)
dell'anticipo di Jobs Act approvato in giugno!
Stessa condizione, oggi, ma senza più tutte le altre. Ovvero
un'economia in espansione, un mondo diviso in due (con una “alternativa
di sistema”, anche se discutibilissima), un sindacato generale, un
Partito capace di scontrarsi, contare i morti in piazza e gli arrestati,
un mondo da conquistare, sia in versione sol dell'avvenire che –
riformisticamente – come “accesso alla società del benessere”. Non c'è
un futuro roseo, davanti agli occhi delle generazioni che hanno 20 o 30
anni. E nemmeno una nutrita schiera di difensori dei più deboli. E
neanche più una cultura condivisa, di massa, sul diritto ad avere una
“vita dignitosa”.
Il pregio del lavoro di Giorgio, lo ripetiamo, sta nel non darsi
ragione a prescindere, come avviene a tanti protagonisti della storia,
quelli che “se mi avessero dato retta in quell'occasione...”. La storia
va come va, ci sono ragioni infinitamente più potenti dei singoli
ìndividui a spingerla in un senso o nell'altro. E anche le
organizzazioni che dovrebbero “esercitare la soggettività alternativa”
sono al dunque condizionate – favorite o ostacolate, supportate o
bombardate – dai rapporti di forza sociali, dallo sviluppo storico,
dalla collocazione geopolitica, ecc.
La situazione attuale, per quanto attiene sia alla cultura che
all'organizzazione concreta “della classe”, è un autentico “buco nero”,
che solo l'ottimismo della volontà riesce a rappresentare come “una
prateria da occupare”. Ma conoscere la Storia serve a sapere che è la
durezza della condizione oggettiva che costringe il pensiero a diventare
“forte”, altettanto duro e impietoso, anche con se stessi. Non ci sono
soluzioni indolori, bacchette magiche, “pensate creative” che ci possano
permettere di ribaltare in due mosse lo squilibrio delle forze in
campo.
Siamo di fronte a un potere padronale organizzato su scala quantomeno
continentale, in cui le decisioni fondamentali di politica economica
sono sottratte a ogni verifica democratica. Sul piano della
rappresentanza si è di fatto privi di strumenti all'altezza della sfida.
Sul piano sindacale, la rappresentanza stessa è blindata dall'accordo
del gennaio di quest'anno, una sorta di “patto di palazzo Vidoni” che
vieta – nei fatti, se non nella norma – l'esistenza di una soggettività
non “compatibilizzata” con le esigenze del sistema. Cosa si fa, in
questa situazione? Il “conflitto a km zero”? Si moltiplica il pulviscolo
sperando che prima o poi si addensi in una massa critica di qualche
rilevanza?
Oppure si prende atto che “lo scambio vincente” offerto dal capitalismo negli ultimi trenta anni - “niente più garanzie socialiste (diritti, keynesismo, costituzione, ecc), ma crescita economica infinita che produce benessere per tutti” - è a fine corsa, fallito disastrosamente? Che, quindi, il conflitto deve darsi nuovamente una prospettiva di cambiamento generale?
La risposta implica un salto di qualità, una rottura con la
cultura sindacale e politica dominante dall'89 in poi (ma nata molto
prima, spiega bene Giorgio). Anche perché “il nemico” non si accontenta
di aver vinto, ma vuole stravincere: “Le persone devono essere
educate alla paura e all’arte di arrangiarsi individualmente,
cancellando anche nell’immaginario la possibilità dell’azione collettiva
e del conflitto. I sindacati devono invece accettare la resa
incondizionata, ridursi a entità corporative e complici nelle imprese, a
burocrazie di servizio nella società”.
In questo eccesso – implicito nella natura stessa del capitale, che non conosce né ammette limiti al
proprio avanzare – sta anche la possibilità di rimettere il conflitto
sociale con i piedi per terra. Sapendo da dove si viene, di come si dà
battaglia, si vince e si perde, facendo scienza dell'esperienza accumulata nel tempo. Ricordando per fare meglio, senza nostalgie.
* dal blog Tempo Reale
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