La Nato, fondata il 4 aprile 1949, comprende
durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio,
Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia,
Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna,
Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro
dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel
confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14
maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica,
Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca,
Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968).
Dalla guerra fredda al dopo guerra fredda
Il 9 novembre 1989 avviene il «crollo del Muro di
Berlino»: è l’inizio della riunificazione tedesca che si realizza
quando, il 3 ottobre 1990, la Repubblica Democratica si dissolve
aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Il 1° luglio 1991 si
dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell’Europa centro-orientale che
ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Il 26 dicembre
1991, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato
se ne formano quindici.
La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze
crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione
geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione
dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la
Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con
quella statunitense.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che,
nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non
motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del
comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi
militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella
del Vietnam, dall’invasione di Grenada all’operazione contro il
Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza
militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove si
concentra gran parte delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso
tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile
messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States
(Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento
con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia.
«Nonostante l’emergere di nuovi centri di potere –
sottolinea il documento a firma del presidente – gli Stati Uniti
rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in
ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali.
Nel Golfo abbiamo dimostrato che la leadership americana deve includere
la mobilitazione della comunità mondiale per condividere il pericolo e
il rischio. Ma la mancanza di altri nell’assumersi il proprio onere non
ci scuserebbe. In ultima analisi, siamo responsabili verso i nostri
stessi interessi e la nostra stessa coscienza, verso i nostri ideali e
la nostra storia, per ciò che facciamo con la potenza in nostro
possesso. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo,
non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
Il nuovo concetto strategico della Nato
Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati
Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della
massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso
dell’Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il
dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica,
viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha
tenuto finora coesa la Nato sotto l’indiscussa leadership statunitense:
vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte
divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova
situazione geopolitica creatasi nella regione europea.
Il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo,
a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con
sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi
della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo
concetto strategico dell’Alleanza». «Contrariamente alla predominante
minaccia del passato – afferma il documento – i rischi che permangono
per la sicurezza dell’Alleanza sono di natura multiforme e
multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare.
Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e
perfino a conflitti armati, che potrebbero coinvolgere potenze esterne o
espandersi sin dentro i paesi della Nato». Di fronte a questi e altri
rischi, «la dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore
essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un
concetto ampio di sicurezza». Definendo il concetto di sicurezza come
qualcosa che non è circoscritto all’area nord-atlantica, si comincia a
delineare la «Grande Nato».
Il «nuovo modello di difesa» dell’Italia
Tale strategia è fatta propria anche dall’Italia
quando, sotto il sesto governo Andreotti, essa partecipa alla guerra del
Golfo: i Tornado dell’aeronautica italiana effettuano 226 sortite per
complessive 589 ore di volo, bombardando gli obiettivi indicati dal
comando statunitense. E’ la prima guerra a cui partecipa la Repubblica
italiana, violando l’articolo 11, uno dei principi fondamentali della
propria Costituzione.
Subito dopo la guerra del Golfo, durante il settimo
governo Andreotti, il ministero della difesa italiano pubblica,
nell’ottobre 1991, il rapporto Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni ’90.
Il documento riconfigura la collocazione geostrategica dell’Italia,
definendola «elemento centrale dell’area geostrategica che si estende
unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero,
collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d’Africa e il
Golfo Persico». Considerata la «significativa vulnerabilità strategica
dell’Italia» soprattutto per l’approvvigionamento petrolifero, «gli
obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano
nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di
tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli
interessi che «direttamente incidono sul sistema economico e sullo
sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per
la conservazione e il progresso dell’attuale assetto politico e sociale
della nazione».
Nel 1993 – mentre l’Italia sta partecipando
all’operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo
Amato subentra quello Ciampi – lo Stato maggiore della difesa dichiara
che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere
ovunque gli «interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il
benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di
rifornimento dei prodotti energetici e strategici».
Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato
maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la
funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per
assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto
internazionale».
Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto
viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi
della difesa. «La politica della difesa – afferma il generale Angioni –
diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della
politica estera».
Viene in tal modo istituita una nuova politica
militare e, contestualmente, una nuova politica estera la quale, usando
come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale,
affermato dall’Articolo 11, che «l’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali». Questa politica,
introdotta attraverso decisioni apparentemente tecniche, viene di fatto
istituzionalizzata passando sulla testa di un parlamento che, in
stragrande maggioranza, se ne disinteressa o non sa neppure che cosa
precisamente stia avvenendo.
Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo
concetto strategico» viene messo in pratica nei Balcani. Nel luglio 1992
la Nato lancia la sua prima operazione di «risposta alle crisi», la
Maritime Monitor, per imporre l’embargo alla Jugoslavia. Nei Balcani,
tra l’ottobre ’92 e il marzo ’99, conduce undici operazioni: Deny
Flight, Sharp Guard, Eagle Eye e altre. Il 28 febbraio 1994, durante la
Deny Flight in Bosnia, la Nato effettua la prima azione di guerra nella
sua storia. Viola così l’art. 5 della sua stessa carta costitutiva,
poiché l’azione bellica non è motivata dall’attacco a un membro
dell’Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta
sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri di
Washington corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in
corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della
maggioranza albanese (un milione e 800 mila persone, in confronto a 200
mila serbi, oltre 100 mila rom e goranci). Attraverso canali sotterranei
in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra
la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’Uck (Esercito
di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista
kosovaro-albanese. Eppure, ancora nei primi mesi del 1998, il
Dipartimento di stato Usa, per bocca dell’inviato Gelbart, definisce
l’Uck una organizzazione terroristica. Agenti della Cia dichiareranno
successivamente di «essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste
di osservatori dell’Osce incaricati di verificare il cessate il fuoco,
stabilendo collegamenti con l’Uck e dandogli manuali statunitensi di
addestramento militare e consigli su come combattere l’esercito
iugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps,
così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con
la Nato e Washington». L’Uck può così scatenare un’offensiva contro le
truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e
rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze iugoslave e quelle
dell’Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna
politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale
all’intervento della Nato, presentato come l’unico modo per fermare la
«pulizia etnica» serba in Kosovo. A tale scopo viene fatta fallire
l’opera di mediazione della Organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa (Osce) che, nell’autunno 1998, invia una sua
missione in Kosovo con il compito di vagliare le possibilità di pace e
fermare la guerra denunciando le violazioni. E’ a questo punto che, alla
metà di gennaio 1999, viene fuori a Racak, zona controllata dall’Uck,
l’«eccidio» di 45 «civili albanesi»: sono, dimostreranno in seguito i
medici legali di una commissione indipendente finlandese, combattenti
albanesi vittime negli scontri, non civili indifesi. Dando
immediatamente per buona la versione dell’eccidio di civili, il capo
della missione Osce, lo statunitense William Walzer (già agente della
Cia in Salvador negli anni Ottanta), ritira la missione internazionale. I
serbi vengono accusati di «pulizia etnica», nonostante che un rapporto
Onu del gennaio 1999 valuti il numero di sfollati, sia albanesi che
serbi e rom, in circa 60 mila, e la stessa missione Osce non abbia
parlato sino a quel momento, nei suoi rapporti, di pulizia etnica. Vi
sono evidentemente degli eccidi, commessi dall’una e dall’altra parte,
non però la «pulizia etnica» che serve a motivare l’intervento armato
degli Stati Uniti e dei loro alleati.
La guerra, denominata «Operazione forza alleata»,
inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei di Stati Uniti e altri paesi
della Nato sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il
presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo
due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo
la possibilità di lasciare ai nostri figli un’Europa libera, pacifica e
stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell’Italia: il governo
D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a
completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri
paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il
diritto d’ingerenza umanitaria».
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi
italiane, 1.100 aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila
bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle
bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è
anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence (C3I)
attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2.000 obiettivi
colpiti in Serbia dagli aerei della Nato – documenta successivamente il
Pentagono – 1.999 vengono scelti dall’intelligence statunitense e solo
uno dagli europei».
Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le
strutture e infrastrutture della Serbia e del Kosovo, provocando vittime
soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e
l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo
fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di
sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio).
Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato
di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei
italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati
dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo
agli Usa. … L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire
dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del
consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base
di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è
stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione
iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai
bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu,
che assume i contenuti della pace firmata a Kumanovo in Macedonia,
«autorizza stati membri e rilevanti organizzazioni internazionali a
stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, come
disposto nell’annesso 2.4». L’annesso 2.4 dispone che la presenza
internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed
essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti
il comando lo ha già chiarito il giorno prima il presidente Clinton,
sottolineando che l’accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una
forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che
significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato
affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dal
«Tribunale per i crimini nella ex Iugoslavia» oltre 60 agenti dell’Fbi
statunitense, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da
giustificare l’accusa di «pulizia etnica». Il Kosovo, divenuto una sorta
di protettorato della Nato, viene di fatto distaccato dalla Federazione
Iugoslava. Gli Usa, in aperto disprezzo degli accordi di Kumanovo,
costruiscono presso Urosevac, Camp Bondsteel, la più grande base
militare statunitense di tutta l’area, destinata a rimanervi per sempre.
Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex Uck
terrorizza ed espelle dal Kosovo oltre 260mila serbi, rom, albanesi
«collaborazionisti» ed ebrei.
Il superamento dell’articolo 5 e la conferma della leadership Usa
Mentre è in corso la guerra contro la Iugoslavia,
viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice della
Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: nasce «una nuova
Alleanza più grande, più capace e più flessibile, impegnata nella difesa
collettiva e capace di intraprendere nuove missioni, tra cui l’attivo
impegno nella gestione delle crisi, incluse le operazioni di risposta
alle crisi». Da alleanza che, in base all’articolo 5 del trattato del 4
aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza
armata il paese membro che sia attaccato nell’area nord-atlantica, essa
viene trasformata in alleanza che, in base al nuovo «concetto
strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di
risposta alle crisi non previste dall’articolo 5, al di fuori del
territorio dell’Alleanza».
A scanso di equivoci, il presidente democratico
Clinton chiarisce che gli alleati nord-atlantici «riaffermano la loro
prontezza ad affrontare, in appropriate circostanze, conflitti regionali
al di là del territorio dei membri della Nato». Alla domanda di quale
sia l’area geografica in cui la Nato è pronta a intervenire, «il
Presidente si rifiuta di specificare a quale distanza la Nato intende
proiettare la propria forza, dicendo che non è questione di geografia».
In altre parole, la Nato intende proiettare la propria forza militare al
di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche in altre
regioni.
Ciò che non cambia, nella mutazione genetica della
Nato, è la gerarchia all’interno dell’Alleanza. La Casa Bianca dice a
chiare lettere che «la Nato, come garante della sicurezza europea, deve
svolgere un ruolo dirigente nel promuovere un’Europa più integrata e
sicura» e che «noi manterremo in Europa circa 100 mila militari per
contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami
transatlantici e conservare la leadership degli Stati uniti nella Nato».
Dunque, un’Europa stabile sotto la Nato e una Nato stabilmente sotto
gli Stati Uniti.
Inizia contemporaneamente l’espansione della Nato
nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. Nel
1999 essa ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia,
Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri
sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria,
Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già
parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell’aprile
2008, viene deciso l’ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di
Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene
inoltre preparato l’ingresso nell’Alleanza dell’ex repubblica iugoslava
di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell’Urss. Si afferma
infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad
altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato.
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento:
sovrapporre a un’Europa basata sull’allargamento della Ue un’Europa
basata sull’allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi
dell’Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell’ex Urss, vengono
a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che
mantengono nell’Alleanza una posizione predominante. Basti pensare che
il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto
ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che
tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal
Pentagono.
Per di più, i nuovi paesi membri devono
riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli
standard Nato: ciò avvantaggia l’industria bellica statunitense, dato
che l’acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale
condizione per l’ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti si
assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi
politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all’interno
della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché
Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania,
Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e
il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione
all’interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte
politiche e strategiche.
La Nato in Afghanistan
La costituzione dell’Isaf (Forza internazionale di
assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza
dell’Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è
quello di assistere l’autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni.
Secondo l’art. VII della Carta delle Nazioni unite, l’impiego delle
forze armate messe a disposizione da membri dell’Onu per tali missioni
deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato
di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri
permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non
esiste, l’Isaf resta fino all’agosto 2003 una missione Onu, la cui
direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia,
Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l’11 agosto 2003, la Nato
annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell’Isaf, forza con
mandato Onu». E’ un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione
del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership,
ossia il comando, dell’Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659
del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo
impegno della Nato nel dirigere l’Isaf».
A guidare la missione, dall’11 agosto 2003, non è
più l’Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito
nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i
generali da mettere a capo dell’Isaf. Come sottolinea un comunicato del
giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell’Isaf
nell’agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell’area
euro-atlantica nella storia della Nato». E poiché il «comandante supremo
alleato» è sempre un generale statunitense, la missione Isaf viene di
fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa
catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all’Isaf,
insieme a elicotteri e aerei, compresi i Tornado.
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in
Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione
dell’Afghanistan dai talebani, che erano stati addestrati e armati in
Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il
potere a Kabul, ma l’occupazione dell’Afghanistan, area di primaria
importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi
permanenti che hanno qui installato, tra cui quelle aeree di Bagram,
Kandahar e Shindand. A queste basi se ne aggiungeranno probabilmente
altre nove.
Per capire il perché basta guardare la carta
geografica: l’Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia
centrale, meridionale e orientale. In quest’area (nel Golfo e nel
Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano
tre grandi potenze – Cina, Russia e India – la cui forza complessiva
sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il
Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità
che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di
risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l’Afghanistan per disporre
senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli
Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato
sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.
Il sostegno Nato a Israele
Nell’aprile 2001 Israele firma al quartier generale
della Nato a Bruxelles l’«accordo di sicurezza», impegnandosi a
proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della
cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la
fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in
collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi
Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe
aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire
simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con
quello israeliano un memorandum d’intesa per la cooperazione nel settore
militare e della difesa, che prevede tra l’altro lo sviluppo congiunto
di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato
atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene
addestrato all’uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la
Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si
aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni ’90.
Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco
nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar
Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato
compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime
autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima
esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo
navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina
italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al
senato e alla camera, il memorandum d’intesa italo-israeliano diviene
legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri
della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l’«importazione,
esportazione e transito di materiali militari», l’«organizzazione delle
forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell’Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per
la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge
in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana
partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare
una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali
Nato».
Nell’ottobre 2006, Nato e Israele concludono un
accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al
programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla
sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si
accordano sulle modalità del contributo israeliano all’operazione
marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation,
16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l’attacco e
l’invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a
quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia
di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella
operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel
Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale
elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme
marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare
centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per
«contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima
dell’attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di
cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di
campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»:
controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di
intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato;
cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni
militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella
lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica
potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di
non-proliferazione).
La Nato «a caccia di pirati» nell’Oceano Indiano
Nell’ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo
Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez,
entrando nell’Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia,
Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il
successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la
forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato
in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui
comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle
tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è
permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che
comanda le Forze navali Usa in Europa. L’area in cui opera lo Snmg2 non
ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della
«Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per
qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2
nell’Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le
coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti
alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo
umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con
l’operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio che,
dietro questa missione Nato, vi sia ben altro. In Somalia, la politica
statunitense sta subendo un nuovo scacco: le truppe etiopiche, qui
inviate nel 2006 dopo il fallimento del tentativo della Cia di
rovesciare le Corti islamiche sostenendo una coalizione
«anti-terrorismo» dei signori della guerra, sono state costrette a
ritirarsi dalla resistenza somala.
Washington prepara quindi altre operazioni militari
per estendere il proprio controllo alla Somalia, provocando altre
disastrose conseguenze sociali. Esse sono alla base dello stesso
fenomeno della pirateria, nato in seguito alla pesca illegale da parte
di flotte straniere e allo scarico di sostanze tossiche nelle acque
somale, che hanno rovinato i piccoli pescatori, diversi dei quali sono
ricorsi alla pirateria. Nella strategia statunitense e Nato, la Somalia è
importante per la sua stessa posizione geografica sulle coste
dell’Oceano Indiano. Per controllare quest’area è stata stazionata a
Gibuti, all’imboccatura del Mar Rosso, una task force statunitense.
L’intervento militare, diretto e indiretto, in questa e altre aree si
intensifica ora con la nascita del Comando Africa degli Stati uniti. E’
nella sua «area di responsabilità» che viene inviato il gruppo navale
Nato.
Esso ha però anche un’altra missione ufficiale:
visitare alcuni paesi del Golfo persico (Kuwait, Bahrain, Qatar ed
Emirati arabi uniti), partner Nato nel quadro dell’Iniziativa di
cooperazione di Istanbul. Le navi da guerra della Nato vanno così ad
aggiungersi alle portaerei e molte altre unità che gli Usa hanno
dislocato nel Golfo e nell’Oceano Indiano, in funzione anti-Iran e per
condurre, anche con l’aviazione navale, la guerra aerea in Afghanistan.
La guerra contro la Libia
Il 19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale
della Libia, formalmente «per proteggere i civili». In sette mesi,
l’aviazione Usa/Nato effettua 30mila missioni, di cui 10mila di attacco,
con impiego di oltre 40mila bombe e missili. Vengono inoltre infiltrate
in Libia forze speciali, tra cui migliaia di commandos qatariani
facilmente camuffabili. Venhono finanziati e armati i settori tribali
ostili al governo di Tripoli e anche gruppi islamici fino a pochi mesi
prima definiti terroristi. L’intera operazione,chiarisce l’ambasciatore
Usa presso la Nato, viene diretta dagli Stati uniti: prima tramite il
Comando Africa, quindi tramite la Nato sotto comando Usa. Viene così
demolito lo stato libico e assassinato lo stesso Gheddafi, attribuendo
l’impresa a una«rivoluzione ispiratrice» che gli Usa sono fieri di
sostenere, creando «una alleanza senza eguali contro la tirannia e per
la libertà».
Se ne vedono presto i risultati. Lo stato unitario
comincia a disgregarsi. La Cirenaica – dove si trovano i due terzi del
petrolio libico – si autoproclama di fatto indipendente. E vuol essere
indipendente anche il Fezzan, dove sono altri importanti giacimenti.
Alla Tripolitania restano solo quelli davanti alle coste della capitale.
Così le grandi compagnie petrolifere, cui la Libia di Gheddafi
concedeva ristretti margini di guadagno, potranno ottenere dai capi
locali, l’uno contro l’altro, condizioni ottimali. Intanto il Consiglio
di sicurezza dell’Onu estende la sua «missione di appoggio in Libia»,
complimentandosi per «i positivi sviluppi» che«migliorano le prospettive
di un futuro democratico, pacifico e prospero». Non può però evitare di
esprimere «preoccupazione» per «le continue detenzioni illegali,
torture ed esecuzioni extragiudiziarie». Opera delle milizie armate,
alimentate dalla politica del «divide et impera» del nuovo impero. Usate
per accendere focolai di guerra in altri paesi, come dimostra il fatto
che a Tripoli c’è un campo di addestramento dei «ribelli siriani». In
Libia le prime vittime sono gli immigrati dall’Africa subsahariana che,
perseguitati, sono costretti a fuggire. Molti, spinti dalla
disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa.
Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra con
cui la Nato ha demolito lo Stato libico.
La guerra contro la Siria
Nell’ottobre 2012 il Consiglio atlantico denuncia
«gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della
Nato», pronto a far scattare l’articolo 5 che impegna ad assistere con
la forza armata il paese membro «attaccato», la Turchia. Ma è già in
atto il «non-articolo 5» – introdotto durante la guerra alla Iugolavia e
applicato contro l’Afghanistan e la Libia – che autorizza operazioni
non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza.
Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati
con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di
professionisti della guerra infiltrati. Circa 200 specialisti delle
forze d’élite britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily Star – operano in
Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.
La forza d’urto è costituita da una raccogliticcia
armata di gruppi islamici (fino a poco prima bollati da Washington come
terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri
paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato del
Guardian ad Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere
tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e
altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità Cia), i
combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai,
confinante con la Siria, dove la Cia ha aperto centri di formazione
militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar che,
come in Libia, fornisce anche forze speciali.
Il comando delle operazioni è a bordo di navi Nato
nel porto di Alessandretta. Intanto, sul monte Cassius a ridosso della
Siria, la Nato sta costruendo una nuova base di spionaggio elettronico,
che si aggiunge a quella radar di Kisecik e a quella aerea di Incirlik. A
Istanbul è stato aperto un centro di propaganda dove dissidenti
siriani, formati dal Dipartimento di stato Usa, confezionano le notizie e
i video che vengono diffusi tramite reti satellitari. La guerra Nato
contro la Siria è dunque già in atto, con la motivazione ufficiale di
aiutare il paese a liberarsi dal regime di Assad. Come in Libia, si è
infilato un cuneo nelle fratture interne per far crollare lo stato,
strumentalizzando la tragedia delle popolazioni travolte.
Lo scopo è lo stesso: Siria, Iran e Iraq hanno
firmato nel luglio 2011 un accordo per un gasdotto che, entro il 2016,
dovrebbe collegare il giacimento iraniano di South Pars, il maggiore del
mondo, alla Siria e quindi al Mediterraneo. La Siria, dove è stato
scoperto un altro grosso giacimento presso Homs, può divenire un hub di
corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri
percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee. Per
questo si vuole colpire e occupare.
Gli Stati uniti, mentre sono impegnati a Ginevra a
denuclearizzare l’Iran, nuclearizzano l’Europa potenziando le armi
mantenute in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia. Sono circa 200
bombe B-61, che si aggiungono alle oltre 500 testate nucleari francesi e
britanniche pronte al lancio. Secondo una stima al ribasso, in Italia
ve ne sono 70-90, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre. Ma ce ne potrebbero
essere di più, anche in altri siti. Tantomeno si conosce quante armi
nucleari sono a bordo delle unità della Sesta flotta e altre navi da
guerra che approdano nei nostri porti. Quello che ufficialmente si sa è
che ora le B-61 vengono trasformate da bombe a caduta libera in bombe
«intelligenti» che, grazie a un sistema di guida satellitare e laser,
potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo. Le nuove
bombe nucleari B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in
8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, avranno una potenza media di
50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima).
Altri aspetti, emersi da una audizione della
sottocommissione del Congresso sulle forze strategiche (29 ottobre),
gettano una luce ancora più inquietante sull’intera faccenda. Washington
ribadisce che «la Nato resterà una alleanza nucleare» e che, «anche se
la Nato si accordasse con la Russia per una riduzione delle armi
nucleari in Europa, avremmo sempre l’esigenza di completare il programma
della B61-12». La nuova arma sostituirà le cinque varianti dell’attuale
B61, compresa la bomba penetrante anti-bunker B61-11 da 400 kiloton, e
la maxi-bomba B83 da 1200 kiloton. In altre parole, avrà la stessa
capacità distruttiva di queste bombe più potenti.
Allo stesso tempo la B61-12 «sarà integrata col
caccia F-35 Joint Strike Fighter», fatto doppiamente importante perché
«l’F-35 è destinato a divenire l’unico caccia a duplice capacità
nucleare e convenzionale delle forze aeree degli Stati uniti e di molti
paesi alleati». Quella che arriverà tra non molto in Italia e in altri
paesi europei, non è dunque una semplice versione ammodernata della
B-61, ma un’arma polivalente che svolgerà la funzione di più bombe,
comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico,
distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture
sotterranee in un first strike nucleare. Poiché le bombe anti-bunker non
sono oggi schierate in Europa, l’introduzione della B61-12, che svolge
anche la loro funzione, potenzia la capacità offensiva delle forze
nucleari Usa/Nato in Europa.
I piloti italiani – che vengono addestrati all’uso delle B-61 con i caccia Tornado, come è stato fatto nell’esercitazione «Steadfast Noon»
svoltasi ad Aviano e Ghedi nella seconda metà di ottobre, saranno tra
non molto addestrati all’attacco nucleare con gli F-35 armati con le
B61-12. In tal modo l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione che
la impegna a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il
controllo su tali armi direttamente o indirettamente». E gli Stati uniti
lo violano perché si sono impegnati a«non trasferire a chicchessia armi
nucleari né il controllo su tali armi».
Il nuovo confronto militare Ovest-Est
Mosca si oppone allo «scudo antimissile», che
permetterebbe agli Usa di lanciare un first strike nucleare sapendo di
poter neutralizzare la ritorsione. È contraria all’ulteriore espansione
della Nato ad est e al piano Usa/Nato di demolire la Siria e l’Iran nel
quadro di una strategia che mira alla regione Asia/Pacifico. Tutto
questo viene visto a Mosca come un tentativo di acquisire un netto
vantaggio strategico sulla Russia (oltre che sulla Cina). Sono solo
«vecchi stereotipi della guerra fredda», come sostiene il presidente
Obama? Non si direbbe, visto il programma annunciato dalla Nato nel
2013. Esso prevede «più ambiziose e frequenti esercitazioni militari» a
ridosso della Russia. Tra queste la «Brilliant Arrow», effettuata in
Norvegia con cacciabombardieri Nato (anche italiani) a duplice capacità
convenzionale e nucleare; la «Steadfast Jazz», con lo spiegamento di
cacciabombardieri Nato in Polonia, Lituania e Lettonia, al confine
russo; la «Brilliant Mariner», effettuata da navi da guerra Nato nel
Mare del Nord e nel Mar Baltico.
Gli Usa e gli alleati Nato stanno accrescendo la
pressione militare sulla Russia la quale, ovviamente, non si limita a
quella che Obama definisce «retorica anti-americana». Dopo che gli Usa
hanno deciso di installare uno «scudo» missilistico anche sull’isola di
Guam nel Pacifico occidentale, il Comando delle forze strategiche russe
ha annunciato che sta costruendo un nuovo missile da 100 tonnellate «in
grado di superare qualsiasi sistema di difesa missilistica». Ed è già in
navigazione il primo sottomarino nucleare della nuova classe Borey,
lungo 170 m, capace di scendere a 450 m di profondità, armato di 16
missili Bulava con raggio di 9mila km e 10 testate nucleari multiple
indipendenti, in grado di manovrare per evitare i missili intercettori.
Su questo e altro i media europei, in particolare
quelli italiani campioni di disinformazione, praticamente tacciono. Così
la stragrande maggioranza ha l’impressione che la guerra minacci solo
regioni «turbolente», come il Medio Oriente e il Nordafrica, senza
accorgersi che la «pacifica» Europa sta divenendo di nuovo, sulla scia
della strategia Usa, la prima linea di un confronto militare non meno
pericoloso di quello della guerra fredda.
L’operazione Nato in Ucraina
L’operazione condotta dalla Nato in Ucraina inizia
quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione
Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati
europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova
situazione geopolitica. L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila
km2 fa da cuscinetto tra Nato e Russia ed è attraversato dai
corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella Nato, come hanno
fatto altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far
parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della
«Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di
«peacekeeping» nei Balcani.
Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione
Nato-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire
alla Nato. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione», il
presidente Yushchenko viene invitato al summit Nato a Bruxelles. Subito
dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione
dell’Ucraina a divenire membro della Nato» e nel 2008 il summit di
Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo
che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le
forze Nato in Afghanistan. Ormai l’adesione alla Nato sembra certa ma,
nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur
continuando la cooperazione, l’adesione alla Nato non è nell’agenda del
suo governo.
Nel frattempo però la Nato è riuscita a tessere una
rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali
partecipano da anni a corsi del Nato Defense College a Roma e a
Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze
armate ucraine con quelle Nato. Nello stesso quadro si inserisce
l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova
«facoltà multinazionale» con docenti Nato. Notevolmente sviluppata anche
la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per
facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione
delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida
Nato.
Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di
informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella
propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la Nato
istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e
seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al
quartier generale di Bruxelles.
E poiché non esiste solo ciò che si vede, è
evidente che la Nato ha una rete di collegamenti negli ambienti militari
e civili molto più estesa di quella che appare. Lo conferma il tono di
comando con cui il segretario generale della Nato si rivolge il 20
febbraio alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali»,
pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». La Nato si
sente ormai sicura di poter compiere un altro passo nella sua espansione
ad Est, inglobando l’Ucraina o una sua parte, mentre continua la sua
campagna contro «i sorpassati stereotipi della guerra fredda».
Questa strategia viene confermata dalla riunione
dei ministri Nato della difesa, svoltasi il 26-27 febbraio 2014 al
quartier generale di Bruxelles. Primo punto all’ordine del giorno
l’Ucraina, con la quale – sottolineano i ministri nella loro
dichiarazione – la Nato ha una «distintiva partnership» nel cui quadro
continua ad «assisterla per la realizzazione delle riforme». Prioritaria
«la cooperazione militare» (grimaldello con cui la Nato è penetrata in
Ucraina). I ministri «lodano le forze armate ucraine per non essere
intervenute nella crisi politica» (lasciando così mano libera ai gruppi
armati) e ribadiscono che per «la sicurezza euro-atlantica» è
fondamentale una «Ucraina stabile» (ossia stabilmente sotto la Nato).
I ministri trattano quindi il tema centrale della Connected Forces Initiative,
la quale prevede una intensificazione dell’addestramento e delle
esercitazioni che, unitamente all’uso di tecnologie militari sempre più
avanzate, permetterà alla Nato di mantenere un’alta «prontezza operativa
ed efficacia nel combattimento». Per verificare la preparazione, si
svolgerà nel 2015 una delle maggiori esercitazioni Nato «dal vivo», con
la partecipazione di forze terrestri, marittime e aeree di tutta
l’Alleanza. La prima di una serie, che l’Italia si è offerta di
ospitare.
Viene allo stesso tempo potenziata la «Forza di
risposta della Nato» che, composta da unità terrestri, aeree e marittime
fornite e rotazione dagli alleati, è pronta ad essere proiettata in
qualsiasi momento in qualsiasi teatro bellico. Nell’addestramento dei
suoi 13mila uomini, svolge un ruolo chiave il nuovo quartier generale
delle Forze per le operazioni speciali che, situato in Belgio, è
comandato dal vice-ammiraglio statunitense Sean Pybus dei Navy SEALs.
La preparazione di queste forze rientra nel nuovo
concetto strategico adottato dall’Alleanza, sulla scia del
riorientamento strategico statunitense. Per spiegarlo meglio interviene a
Bruxelles il segretario alla difesa Chuck Hagel, che ha da poco
annunciato un ridimensionamento delle forze terrestri Usa da 520mila e
circa 450mila militari. Ma, mentre riduce le truppe, il Pentagono
accresce le forze speciali da 66mila a 70mila, con uno stanziamento
aggiuntivo di 26 miliardi di dollari per l’addestramento. Gli Usa,
spiega Hagel, «non intendono più essere coinvolti in grandi e prolungate
operazioni di stabilità oltremare, sulla scala di quelle dell’Iraq e
l’Afghanistan». È il nuovo modo di fare la guerra, condotta in modo
coperto attraverso forze speciali infiltrate, droni armati, gruppi
(anche esterni) finanziati e armati per destabilizzare il paese, che
preparano il terreno all’attacco condotto da forze aeree e navali.
Il ruolo dell’Italia nella Nato
«Amore per il popolo italiano»: lo dichiara il
presidente Obama nel febbraio 2013, ricevendo alla Casa Bianca il
presidente Napolitano. Perché tanto amore? Il popolo italiano «accoglie e
ospita le nostre truppe sul proprio suolo». Accoglienza molto
apprezzata dal Pentagono, che possiede in Italia (secondo i dati
ufficiali 2012) 1485 edifici, con una superficie di 942mila m2,
cui se ne aggiungono 996 in affitto o concessione. Sono distribuiti in
37 siti principali (basi e altre strutture militari) e 22 minori. Nel
giro di un anno, i militari Usa di stanza in Italia sono aumentati di
oltre 1500, superando i 10mila. Compresi i dipendenti civili, il
personale del Pentagono in Italia ammonta a circa 14mila unità.
Alle strutture militari Usa si aggiungono quelle
Nato, sempre sotto comando Usa: come il Comando interforze, col suo
nuovo quartier generale di Lago Patria (Napoli). «Ospitando» alcune
delle più importanti strutture militari, l’Italia svolge un ruolo
cardine nella strategia Usa/Nato che, dopo la guerra alla Libia, non
solo mira alla Siria e all’Iran ma va oltre, spostando il suo centro
focale verso la regione Asia/Pacifico per fronteggiare la Cina in
ascesa.
Il Comando della forza congiunta alleata a Napoli
(Jfc Naples) è tenuto ufficialmente in «standby», ossia pronto in
qualsiasi momento a entrare in guerra. Il nuovo quartier generale a Lago
Patria, costruito per uno staff di oltre 2mila militari ed espandibile
per «la futura crescita della Nato», è in piena attività. Avamposto
delle operaziont militari del Jfc Naples è la Turchia, dove la Nato ha
oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico. A queste è
stato aggiunto uno dei più importanti comandi Nato: il Landcom,
responsabile di tutte le forze terrestri dei 28 paesi membri, attivato a
Izmir (Smirne). Lo spostamento del comando delle forze terrestri
dall’Europa alla Turchia – a ridosso del Medio Oriente (in particolare
Siria e Iran) e del Caspio – indica che, nei piani Usa/Nato, si prevede
l’impiego anche di forze terrestri, soprattutto europee, in quest’area
di primaria importanza strategica.
Il Jfc Naples è agli ordini di un ammiraglio
statunitense, che è allo stesso tempo comandante della Forza congiunta
alleata a Napoli, delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali
del Comando Africa. Un gioco strategico delle tre carte, che permette al
Pentagono di mantenere sempre il comando. E l’Europa? Essa è importante
per gli Usa geograficamente, chiarisce il Comandante supremo alleato:
le basi in Europa non sono residui «bastioni della guerra fredda», ma
«basi operative avanzate» che permettono agli Usa di sostenere sia il
Comando Africa che il Comando centrale nella cui area rientra il Medio
Oriente. Sono quindi essenziali per «la sicurezza del 21° secolo»,
garantita da una «potente e capace alleanza» diretta dagli Usa, che
possiede «24mila aerei da combattimento, 800 navi militari oceaniche, 50
aerei radar Awacs».
Una alleanza (questo non lo dice) la cui spesa
militare ammonta a oltre 1000 miliardi di dollari annui, equivalenti al
57% del totale mondiale. A fare da locomotiva della spesa militare
mondiale, salita nel 2012 a 1753 miliardi di dollari, sono ancora gli
Stati uniti, con 682 miliardi, equivalenti a circa il 40% del totale
mondiale. Quella italiana (documenta il Sipri) ammonta su base annua a
circa 34 miliardi di dollari, pari a 26 miliardi di euro. Il che
equivale a 70 milioni di euro al giorno, spesi con denaro pubblico in
forze armate, armi e missioni militari all’estero. Per mantenere sempre
pronti alla guerra i comandi, come quello di Napoli, città con un numero
record di disoccupati, tenuti in«standby» nella vana attesa di un posto
di lavoro.
La relazione riprende il saggio pubblicato nel
volume ‘SE DICI GUERRA.. Basi militari, tecnologie e profitti’ (A cura
di G. Piccin e con i contributi di G. Alioti, G. Casarrubea, R. De
Simone, T. Di Francesco, M. Dinucci, A. Mazzeo, A. Pascolini), Kappa Vu
Edizioni, Udine, 2014.
Questo saggio di Manlio Dinucci ha fatto da base
documentale per il suo intervento al convegno ‘Come uscire dal Patto
Atlantico’ (Roma, 11 ottobre 2014)
Fonte: http://megachip.globalist.it/
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