Uno spettro si aggira nei Paesi produttori del famigerato – e tanto bramato – oro nero:
il crollo del suo prezzo sui mercati mondiali. Dallo scorso giugno il
prezzo/barile del greggio è caduto di circa il 20 per cento. Non è poco.
A fine settembre 2014 il benchmark mondiale del prezzo del petrolio,
quello del Brent grezzo, è sceso sotto ai 95 dollari il barile,
confermando le previsioni fatte nel 2013 dal Dipartimento dell’energia
americano: «Il costo del barile di greggio si manterrà sotto i 100
dollari nel 2014» (Panorama, 4 aprile 2013).
Ieri Putin ha dichiarato che se il prezzo del petrolio si
stabilizzasse intorno agli 80 dollari il barile per un lungo periodo
l’economia mondiale certamente collasserebbe. Affermando questo il
virile leader russo ha inteso esprimere le preoccupazioni che in questi
giorni travagliano il suo regime, la cui proiezione esterna e la cui stabilità politica interna hanno molto a che fare con il prezzo delle materie prime: in primis petrolio, gas e carbone. In effetti, la soglia minima del prezzo del greggio sotto la quale salta il cosiddetto equilibrio di bilancio
è fissata in Russia intorno ai 104 dollari/barile. Oggi il petrolio
russo si vende sul mercato mondiale a 92 dollari/barile. Il bilancio
statale russo per il 2014 è stato redatto prevedendo un ricavo medio di
117 dollari il barile. Il bilancio del 2015 prevede ricavi medi di 100
dollari al barile.
Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la
rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco
massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la
rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale:
vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato
anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per
l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche
latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di
60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre
per implementare un serio programma di investimenti tesi al
miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può
scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo)
della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe
dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il
Paese dal disastro economico.
Per
non entrare in fibrillazione l’Iran ha bisogno di un prezzo/barile
fissato all’astronomica quota di 140 dollari, ma per «ritornare sul
mercato petrolifero mondiale dopo lunghi e difficili anni di sanzioni,
nonostante i costi finanziari l’Iran si è precipitato a lottare per i
clienti riducendo il prezzo del petrolio di 85 centesimi al barile fino a
quasi 96 dollari. Anche se l’Iran non è interessato ad abbassare il
prezzo sotto i 100 dollari al barile, per non perdere clienti è
costretto a vendere il petrolio al prezzo al quale è disposto a
comprare. Gli affari sono affari». Non c’è dubbio. Si tratterà di vedere
fino a che punto questa strategia sarà efficace e sostenibile dal punto
di vista sociale.
L’Iraq vede nero sotto i 106 dollari. L’Arabia Saudita può resistere
anche con un prezzo/barile fissato a 80 dollari, e il regime saudita ha
dichiarato ufficialmente che il “prezzo giusto” è fra 70 e 80 dollari.
Un prezzo di 80/85 dollari può essere remunerativo anche per i
produttori di shale oil, il petrolio estratto dagli scisti bituminosi
usando la devastante tecnologia fracking.
Ho fatto una veloce ricerca sul costo di estrazione (lifting cost)
del greggio, per farmi un’idea sufficientemente realistica anche sulla
speculazione mondiale che negli ultimi anni si è concentrata sul
petrolio. Rimane inteso che i numeri che ho dato e che darò vanno presi
con le molle, e hanno solo un significato indicativo, giusto per dare
un’idea anche solo approssimativa del problema in oggetto.
Naturalmente il costo di estrazione del greggio varia moltissimo nei
diversi Paesi produttori: si va dai circa 2 dollari al barile
dell’Arabia Saudita, che vanta il costo di estrazione più basso al
mondo, ai 30/50 dollari/barile del Mare del Nord, che invece fissa i
costi di estrazione attualmente più alti. Nonostante i suoi molti
problemi di sicurezza e di instabilità politica, l’Iraq fa registrare un
costo di estrazione molto basso: circa 5 dollari al barile. Altri dati:
Argentina 11 dollari, Venezuela 20/30 dollari, Nigeria 15/30 dollari,
Kazakhstan 12/18 dollari. Per lo stesso Paese i costi variano a seconda
che i pozzi si trovano nell’entroterra oppure offshore. Ma anche il
tempo di sfruttamento del singolo pozzo incide sul costo di estrazione, a
causa della perdita di pressione naturale del greggio, che costringe le
imprese petrolifere a usare pompe di estrazione sempre più potenti a
mano a amano che questa pressione si abbassa. Per “raschiare il fondo”
del pozzo in esaurimento si usano poi i più costosi metodi cosiddetti
terziari, basati su iniezioni di vapore, anidride carbonica e altri gas e
sostanze chimiche. Appare intuitivo che il costo di estrazione del
greggio dipende, in linea generale, dalla facilità/difficoltà di questa
estrazione: più è facile “spillare” oro nero dalle viscere della terra,
più il suo costo risulterà relativamente basso.
L’uso
di tecnologie estrattive sempre più sofisticate ha ridotto il costo di
estrazione del greggio di circa 15 dollari al barile rispetto agli anni
Ottanta; ma d’altra parte i costi tendono a crescere nella misura in cui
queste stesse tecnologie permettono alle multinazionali del petrolio di
estrarre il prezioso liquido in luoghi prima inaccessibili per clima e
struttura geologica (vedi l’attuale corsa all’Artico, che sta provocando
una rapida militarizzazione del circolo polare artico). In alcuni casi
si parla di un costo alla produzione di 80/120 dollari al barile.
Diverso da luogo a luogo è anche il finding cost, ossia il
costo connesso all’esplorazione e allo sviluppo dei nuovi giacimenti: si
va dai circa 5 dollari al barile del Medio Oriente ai 49 dollari
dell’offshore americano, ai 64 dollari dell’offshore brasiliano e ai 61
dollari dell’offshore europeo.
La somma di lifting cost e finding cost dà il cosiddetto break-even, ossia il punto superato il quale inizia la redditività, calcolata come differenza tra il prezzo di mercato del barile e il break-even. La Saudi & Co., ad esempio, fissa il suo break-even sui 30 dollari: tutto il rimanente margine è profitto che cola, per così dire.
La novità tecnologia degli ultimi tempi è il petrolio cosiddetto non
convenzionale, ottenuto trattando sabbie bituminose, oppure materie
prime vegetali (biocarburante), o per frantumazione idraulica delle
rocce porose sedimentarie. Gli specialisti indicano che il costo di
produzione del petrolio di scisto americano è di circa 65 dollari al
barile.
Dove bisogna fissare la soglia del prezzo/barile di mercato più
“naturale”, più corrispondente ai reali prezzi di produzione? Pare che
non esista una risposta univoca. Gli esperti in materia petrolifera
hanno infatti a tal riguardo idee molto diverse tra loro: c’è chi parla
addirittura di 40 dollari, chi di 75/80 dollari. È comunque un fatto che
sotto gli 80 dollari al barile Paesi che vivono di rendita petrolifera
entrano in sofferenza.
Si tratta ora di capire le cause che negli ultimi mesi hanno fatto
declinare considerevolmente il prezzo del petrolio sul mercato mondiale,
mettendo in seria apprensione i Paesi la cui economia fa molto
affidamento alla vendita di quella materia prima. E anche qui le
opinioni sono assai disparate e spesso confliggenti le une con le altre.
Si va da cause puramente economiche, a cause radicate nella
geopolitica. E ovviamente non mancano le teorie complottiste: alcuni
pensano a un complotto contro la Russia (ordito naturalmente dagli Stati
Uniti), altri contro gli Stati Uniti (ad opera soprattutto dell’Arabia
Saudita, che ha aumentato la produzione di petrolio), altri ancora
contro il “socialismo petrolifero” venezuelano, e via discorrendo.
Praticamente ognuno può fabbricare una propria tesi, a seconda delle
proprie simpatie politiche e geopolitiche.
Sta di fatto che le ragioni oggettive del rapido declino del prezzo
del petrolio sono molte e solo il complottista più ottuso può non
vederle. Eccone alcune: perdurante impasse nell’economia europea,
rallentamento dell’economia mondiale (forse la Cina non toccherà il
tasso di sviluppo del 7,5 per cento fissato per quest’anno), produzione
dello shale oil americano a ritmi imprevisti, aumento della produzione
petrolifera in Arabia Saudita, speculazione al ribasso sul petrolio,
magagne geopolitiche di varia natura sparse per il triste mondo. «Nel
2008 il barile era a 150 dollari e la sete di greggio della Cina, in
pieno boom, sembrava infinita. Tutte le compagnie hanno fatto
investimenti enormi in trivellazioni, con la certezza di essere
remunerate. Ma negli idrocarburi ci vogliono 6 o 7 anni prima di
raccogliere i frutti degli investimenti. Dal 2008 a oggi è passato il
tempo giusto a inondare il mercato di nuovo greggio, come sta succedendo
ora. Da qui una concausa del ribasso dei prezzi» (M. Siano, La Stampa,
17 ottobre 2014). A volte le spiegazioni più semplici sono quelle che
più si avvicinano alla realtà. Soprattutto quando si parla di profitti.
Jeremy
Rifkin, saggista di successo, teorico del capitalismo «a costo
marginale zero» e guru del paraguru di Genova (il Beppe nazionale), è
come sempre ottimista: «Non è la fine del petrolio, è il tramonto di
un’era. La società gerarchizzata, fortemente accentrata nel potere e
nelle ricchezze, si sta lentamente sgretolando. E al suo posto comincia a
prendere forma un modello a rete, in cui centinaia di milioni di
persone producono l’energia che serve alle loro case e alle loro
attività. È una rivoluzione sociale, non solo energetica» (Corriere della Sera,
10 ottobre 2014). Più il Capitale ci prende nella sua rete, estendendo
sempre più capillarmente e scientificamente il suo dominio, e più si fa
spesso il velo tecnologico che occulta il processo sociale. Così
crediamo di controllare sempre più facilmente ciò che invece ci
controlla e ci incalza sempre più da vicino. Il feticismo (della merce,
del denaro, della tecnologia) cresce insieme al dominio capitalistico.
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