Non si sa chi sia, il regista delle due
manifestazioni contemporanee della scorsa settimana, piazza San Giovanni
e Leopolda. Di certo è un grande talento. Il contrasto tra lo scenario
dei due eventi non poteva venire realizzato in modo più efficace. Da un
lato un gran sole, il cielo azzurro, uno spazio amplissimo, una folla
sterminata, brevi discorsi su temi concreti. Dall’altra un garage
semibuio dove non si riusciva a vedere al di là di una decina di metri,
un centinaio di tavoli dove si parlava di tutto, un lungo discorso del
presidente del Consiglio in cui spiccavano acute considerazioni
sull’iPhone e la fotografia digitale, e non più di sei-settemila persone
— giusto 140 volte meno che a San Giovanni.
Il duplice scenario e la composizione dei partecipanti sono stati
quanto mai efficaci per chiarire che a Roma sfilava un variegato popolo
rappresentante fisicamente e culturalmente la sinistra, sebbene del
tutto privo di un partito che interpreti e difenda le sue ragioni.
Mentre a Firenze sedeva a rendere omaggio al principe un gruppo della
borghesia medio-alta orientato palesemente a destra — a cominciare dal
Principe stesso. Vi sono due condizioni che fanno, oggi come ieri, la differenza tra destra e sinistra. Una è la scelta della parte sociale da cui stare: in politica, nell’economia, nella cultura. Il che significa o sostenere che le disuguaglianze non hanno alcun peso nei rapporti sociali, o magari negare che esistano; oppure darvi il peso che moralmente e politicamente meritano, e adoperarsi per ridurle. L’altra condizione è la capacità di capire in che direzione si sta evolvendo la situazione economica e sociale del momento. Perché se non lo capisce uno sta uscendo, senza rendersene conto, dal corso della storia.
Nel caso della prima condizione la differenza tra Roma e Firenze era evidente. Alla manifestazione di Roma non c’erano (o erano poche) le persone che dovevano scegliere se stare o no dalla parte dei deboli, degli svantaggiati, delle classi inferiori di reddito, di quelli il cui destino dipende sempre da qualcun altro. Erano loro stessi, la massa dei partecipanti, a essere deboli, svantaggiati, poveri, perennemente in balia del parere e della volontà di qualcun altro. Collocati, in altre parole, al fondo delle classifiche delle disuguaglianze di reddito, di ricchezza, di potere politico ed economico; disuguaglianze il cui scandaloso aumento negli ultimi vent’anni, nel nostro paese come in altri, accompagnato dalla scomparsa del tema stesso nel discorso delle socialdemocrazie, ha fatto parlare più di uno studioso di nuovo feudalesimo.
Invece nel garage semibuio di Firenze c’erano soprattutto persone a cui l’idea di stare dalla parte dei più deboli e magari di dichiararlo appariva semplicemente repellente, o quanto meno fastidiosa, non meno che mettersi a parlare “in un mondo che è cambiato” di lotta alle disuguaglianze. Al massimo i più deboli si possono aiutare a soffrire di meno, non certo a diventare meno deboli, o a salire un gradino nella scala delle disuguaglianze, grazie a un sindacato o un partito. Per non dire che la parola “partito” significa appunto “aver preso parte” — idea demolita a Firenze dall’idea di un partito-nazione (ma l’ha detto qualcuno a Renzi che la parola “nazione” o “nazionale” figuravano tempo addietro nel nome di un paio di partiti che molti guai procurarono all’Italia e all’Europa?).
Anche per l’altra condizione non c’era confronto tra i partecipanti di piazza San Giovanni e quelli della Leopolda. Per i primi era evidente che quello che sta succedendo da parecchi anni è una “guerra dell’austerità”, per usare la dizione di un noto economista americano. Una guerra di classe in cui la destra si prefigge di distruggere le conquiste sociali degli anni 60 e 70, che furono un tentativo riuscito di sottoporre il capitalismo a una ragionevole dose di controllo democratico. Le misure imposte da Bruxelles, di cui il governo Renzi, a parte qualche battuta, è fedele esecutore, sono precisamente espressione di tale guerra o conflitto di classe, nella quale le classi dominanti hanno negli ultimi decenni conseguito una grande vittoria. Equivalente a una dolorosa sconfitta per i manifestanti romani.
A Firenze l’interpretazione predominante della crisi è stata quella canonica delle destre europee: lo stato ha un debito troppo alto, dovuto all’eccesso di spesa; il problema è il costo eccessivo del lavoro; per rilanciare la crescita bisogna ridurre le tasse alle imprese; i dettati di Bruxelles sono onerosi, ma bisogna pur mantenere gli impegni, ecc. Ciascuno di questi slogan è falso quanto dannoso — e si noti che a dirlo sono ormai dozzine di economisti, compresi perfino alcuni esponenti delle dottrine neoliberali. A parte l’interpretazione ortodossa della crisi, che non sta in piedi, chi vi aderisce non si rende conto che ci si avvicina a un momento in cui o si modificano i trattati europei e si adottano politiche economiche opposte a quelle del governo Renzi (che sono poi quelle degli ultimi tre o quattro governi, prescritte dalla Troika e da noi passivamente messe in atto), o ci si avvia ad un lungo periodo di grave recessione e di rapporti intereuropei sempre più difficili, nonché dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima nota: a saperlo interpretare
(non che ci voglia molto), la massa dei partecipanti di Roma ha lanciato
un messaggio chiaro. Ha detto in sostanza “siamo tanti, non contiamo
niente, vogliamo essere qualcosa”. Tempo fa, un messaggio analogo ebbe
effetti rilevanti. Ignorarlo, o parlarne con disprezzo, potrebbe
rivelarsi un serio errore, a destra come a sinistra.
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