L'euro a tre mesi dalla possibile esplosione. Tra
moniti, minacce e allarmi, anche Cipro - dopo la Spagna - chiede aiuto
alla Ue.
Mai si è vista un'operazione di
“salvataggio” suscitare tante paure. Viene il sospetto che gli “spin
doctor” ormai dietro ogni definizione ufficiale abbiano fatto il solito
gioco, chiamando “salvataggio” una pietra messa al collo del nuotatore
in difficoltà.
Il problema, noto, è che la Spagna
costituisce la quarta economia di Eurolandia, non la penultima come la
derelitta Grecia, che pure continua a spaventare per la possibilità che
domenica – ripetizione delle elezioni politiche – scelga una formazione
di sinistra radicale che pretende di restare nell'euro ma di rinegoziare
il “memorandum”. Ovvero di alleggerire la pietra al collo di Atene
messa due anni fa, quando c'era il più arrendevole Papandreou e il
truffatore professionista Samaras era addirittura la possibile
“alternativa”.
Non c'è insomma osservatore consapevole
che non capisce come i 100 miliardi prestati per salvare il sistema
finanziario iberico sia solo una prima tranche di una manovra ben più
complessa che riguarderà per il momento Madrid e probabilmente, subito
dopo, l'Italia.
Ma è possibile per questa Europa “salvare”, con l'identica tecnica usata in Grecia, due pesi mediomassimi come Spagna e Italia?
I risultati ottenuti in Ellade non
lasciano molte speranze quanto ad efficacia della cura. Ma, soprattutto,
gli importi necessari crescono esponenzialmente col crescere delle
dimensioni dell'annegando. Il che non lascia molti spazi aperti
all'ipotesi ottimistica – fin qui dominante tra i “rigoristi”
merkelliani – che bruciando i paesi meno forti della zona euro si possa
impedire la diffusione del “contagio” fino al centro del sistema.
È un'idea bislacca, nazionalista,
incompetente. L'euro è un “sistema” monetario. La sua implosione non
lascerebbe nessun paese economicamente intatto. Nemmeno la Grande
Germania, fin qui beneficiaria pressoché unica della moneta comune, cui
per dieci anni è riuscito quello che con la “dollarizzazione” non era
risucito agli Stati Uniti verso l'America Latina (Argentina ed Ecuador
ne sanno qualcosa...). Il paese più forte ha il 50% delle esportazioni
dirette all'interno della'area monetaria comune. E, come spiegano ormai
da mesi molti ex statisti tedeschi, “non avremmo più un mercato capace
di pagare i nostri prodotti”.
Potreste dire: siete comunisti, marxisti,
quindi catastrofisti (noi diremmo “crollisti”, ma fa niente). Beh,
dovendo fare la parte di Cassandra – la teoria marxiana è l'unica che
vede la crisi come una “necessità” immanente al funzionamento del modo
di produzione capitalistico, non come un “errore” commesso da un attore
del sistema – in qualche modo siamo pronti a cogliere i segnali critici,
a cominciare dai più gravi.
Gli articoli che vi proponiamo di
leggere, qui sotto, sono però ben più catastrofisti di quanto noi ci
siamo mai permessi di essere. Sentire una Lagarde, direttore del Fmi,
parlare di “tre mesi di tempo per salvare l'euro”. O leggere un
Bastasin, sul quotidiano di Confindustria, parlare apertamente di Weimar
e di guerra come se fossero ormai dietro l'angolo, ci sembra un indizio
preoccupante, E magari più di un indizio.
Salvataggio ad alto rischio
Joseph Halevi, Il Manifesto
Lettrici e lettori vorranno certamente
sapere e capire in che cosa consiste il «salvataggio» del sistema
bancario spagnolo. In verità è difficile dirlo con precisione perché
dipende da quale fonte verrà erogata la somma di 100 miliardi di euro.
La questione l'ha sollevata Robert Peston sulla Bbc di domenica. Se i
soldi verranno dal nascente Esm (European Stability Mechanism)
quest'organismo avrà priorità nei rimborsi rispetto ai creditori
privati. Se invece la fonte sarà il vecchio Efsf (European Financial
Stability Facility), non vi sarà precedenza per gli Stati qualora, come è
probabile, la Spagna avesse difficoltà a effettuare i rimborsi. In tal
caso scatteranno le obiezioni della Finlandia che chiede delle garanzie
in attività reali, come già fece con la Grecia. La dimensione formale
del finanziamento mette in luce il ruolo tossico delle istituzioni di
salvataggio ideate tra Bruxelles e Francoforte. Da un lato, pur non
chiamandolo col suo vero nome, alla Spagna viene accollato un rescate
che ne aggrava l'indebitamento pubblico, esattamente come sta succedendo
con la Grecia.
Dall'altro,
gli organismi europei preposti al «salvataggio» sono tossici perché
hanno la struttura dei Cdo (Collateral Debt Obligations). I 100 miliardi
di euro hanno aumentato notevolmente il rapporto debito-pil della
Spagna, mentre le prospettive di crescita del paese sono molto negative.
In questo contesto anche applicando un tasso di interesse molto più
basso dei famosi spread, l'onere sociale dell'accresciuto debito diventa
disastroso per la popolazione.
Ne consegue che la natura del «salvataggio» distrugge le finanze pubbliche spagnole, ne fragilizza i titoli di Stato creando le condizioni per nuove impennate negli spread. Inoltre i 100 miliardi di euro, una volta erogati, vengono addebitati per la quota parte agli Stati che contribuiscono al fondo che così vedono aumentare il proprio rapporto debito-pil. L'esperienza di questi ultimi due anni ha mostrato come le misure di austerità aggravino la situazione, affossando il pil e aumentando quindi il tasso di indebitamento. La Spagna, in quanto economia «grande» e proveniente da deficit di bilancio minimi e da un basso livello di debito, ne è l'esempio più lampante. Secondo le stime effettuate dall'Ocse nel suo ultimo Economic Outlook reso noto il mese scorso, il rapporto debito-pil passerà dal 63% del 2009 all'88% del 2012. Si stima che la disoccupazione salirà al 26% il che, considerando che l'area di sotto-occupazione si espande a sua volta, implica una disoccupazione della stessa grandezza della popolazione occupata. La vicenda non appare per niente chiusa sullo stesso fronte bancario: per via della depressione economica, i prezzi immobiliari continuano a calare svalutando quindi le cartolarizzazioni in mano alle banche che quindi possono uscire dal ciclo delle perdite solo scaricandole sullo Stato.
Ne consegue che la natura del «salvataggio» distrugge le finanze pubbliche spagnole, ne fragilizza i titoli di Stato creando le condizioni per nuove impennate negli spread. Inoltre i 100 miliardi di euro, una volta erogati, vengono addebitati per la quota parte agli Stati che contribuiscono al fondo che così vedono aumentare il proprio rapporto debito-pil. L'esperienza di questi ultimi due anni ha mostrato come le misure di austerità aggravino la situazione, affossando il pil e aumentando quindi il tasso di indebitamento. La Spagna, in quanto economia «grande» e proveniente da deficit di bilancio minimi e da un basso livello di debito, ne è l'esempio più lampante. Secondo le stime effettuate dall'Ocse nel suo ultimo Economic Outlook reso noto il mese scorso, il rapporto debito-pil passerà dal 63% del 2009 all'88% del 2012. Si stima che la disoccupazione salirà al 26% il che, considerando che l'area di sotto-occupazione si espande a sua volta, implica una disoccupazione della stessa grandezza della popolazione occupata. La vicenda non appare per niente chiusa sullo stesso fronte bancario: per via della depressione economica, i prezzi immobiliari continuano a calare svalutando quindi le cartolarizzazioni in mano alle banche che quindi possono uscire dal ciclo delle perdite solo scaricandole sullo Stato.
La road map della Germania da sola non basta a salvare l'euro
di Carlo Bastasin, Il Sole 24 ore
Quando il cancelliere Helmut Kohl difendeva il progetto di integrazione europea, sosteneva che l'unificazione europea era una questione di pace o di guerra.Con il tempo molti di noi hanno pensato che si trattasse di uno stratagemma retorico, un'eco di tragedie ormai troppo lontane e che in fondo i cittadini europei non avrebbero mai nemmeno preso in considerazione l'ipotesi di un conflitto tra i loro Paesi.
È certamente così. Tuttavia i costi economici dell'attuale crisi europea corrispondono a quelli di uno dei frequenti conflitti regionali che venivano combattuti tra i Paesi europei nel 19° secolo. Se la moneta unica deflagrasse in modo disordinato, i costi economici diventerebbero paragonabili a quelli della prima guerra mondiale. Ma a peggiorare ulteriormente la situazione c'è il fatto che sugli stati europei pesa dal 2008 il costo della crisi finanziaria globale che è originata negli Stati Uniti e che ha causato un aggravio dei debiti pubblici equivalente in media a quello provocato dalla seconda guerra mondiale.La gravità della sfida politica che ha preso forma nel corso degli ultimi mesi è penetrata nelle consuetudini e nel modo di pensare dei cittadini. In alcuni Paesi si vede disintegrarsi con una rapidità inimmaginabile il tessuto politico su cui si sono rette le democrazie per decenni. I partiti tradizionali non sono più considerati rappresentativi della maggioranza degli elettori in Grecia né in Italia. Anche in Germania un processo di frammentazione parlamentare sembra accelerare. Ormai da tempo i due maggiori partiti popolari che avevano garantito il consolidarsi della democrazia tedesca nel dopoguerra non raccolgono più il 90% dei voti, ma la metà. Se la crisi dovesse aggravarsi l'Europa rischierebbe di trovarsi nella combinazione di costi economici terribilmente onerosi e di fragilità politica. Sarebbe una miscela simile a quella che provocò la caduta della Repubblica di Weimar.Per contrastare questo scenario terribile, il Consiglio europeo di fine mese, il 28 giugno, dovrà produrre un ambizioso orizzonte politico favorevole al salvataggio dell'euro e dell'Unione europea. Solo consolidando la cornice europea, le democrazie nazionali potranno ritrovare compattezza. Da Berlino sta emergendo finalmente una "mappa nautica" che dovrebbe accompagnare la barca europea al sicuro.
La mappa prevede tre passaggi impegnativi: un'unione bancaria e finanziaria entro 12-18 mesi; un'unione fiscale entro il 2015 e infine un'unione politica legittimata democraticamente entro il 2020. È forse la prima volta che si vede sullo sfondo un punto d'approdo per la tormentata vicenda europea.Tuttavia questo percorso immaginario sposta così in là l'orizzonte politico da scontrarsi con le emergenze di brevissimo termine. Se il Consiglio europeo di fine giugno dovesse produrre solo un impegno rimandato nel tempo, rischia di arrivare troppo tardi. Il 17 giugno le elezioni generali in Grecia potrebbero determinare l'impossibilità per Atene di rimanere nella zona euro. Come è stato spiegato in occasione del recente Consiglio Italia-Usa a Venezia, i rappresentanti del partito di estrema sinistra che potrebbe vincere le elezioni di domenica sono essi stessi preoccupati dalla prospettiva di una vittoria. Sino a pochi mesi fa i sondaggi davano loro il 4% dei consensi e l'intera linea del partito era costruita su una posizione di marginalità politica e di intransigente opposizione al governo. Ora che sono oltre il 20%, nel caso di vittoria, potrebbero dover decidere nel giro di giorni su temi esistenziali che non hanno mai considerato come se fossero di loro responsabilità. Non avere a disposizione un interlocutore comprensivo rischia di peggiorare la situazione e rendere inevitabile l'uscita dalla zona euro.Secondo un noto investitore internazionale non è nemmeno troppo importante chi sarà il vincitore del voto di Atene perché, a forza di discuterne, l'ipotesi di un'uscita della Grecia dall'euro è ormai diventata plausibile e a catena essa apre la possibilità che altri Paesi facciano la stessa sorte. A questo punto l'euro finirebbe per incorporare un rischio di cambio perfino tra Germania e Francia. Ancorare le aspettative al 2020 in tali circostanze sarebbe una sfida al buon senso.
Come avviene ormai da quattro anni, lo scenario che si sta profilando resta quello di governi che continuano a procrastinare il loro impegno diretto e solidale a favore dei Paesi in maggiore difficoltà e lasciano alla Banca centrale europea il compito di tamponare le falle per quanto possibile ogni volta che l'euro si avvicina al baratro. L'esistenza di una mappa nautica che disegna il tragitto dei prossimi anni può legittimare l'intervento della Banca centrale rendendolo "temporaneo", ma difficilmente è in grado di evitare che mese dopo mese sempre nuovi incidenti continuino a lacerare la tenuta economica, sociale e politica dell'area euro.
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