Che
l’eurozona sia nel caos ormai è un dato di fatto. La mancanza di un
governo centrale capace di prendere decisioni univoche e chiare (e
magari anche razionali e comprensibili, che non guasta) si sta facendo
sentire proprio adesso che bisogna fare delle scelte e nessuno sa bene
chi sia autorizzato a farle. In mezzo a questo putiferio istituzionale
l’Irlanda nel silenzio più assoluto dei media (perché parlare di cose
importanti, ci sono tante belle scemenze di cui parlare? Gli occhi di
Berlusconi, le lacrime di Bersani, le bacchettate di Grillo, l’elezione
del papa, insomma per i cialtroni dell’informazione c’è solo l’imbarazzo
della scelta), la piccola Irlanda ha fatto una mossa che potrebbe
mettere presto in crisi il colosso d’argilla europeo e nessuno sembra
avere la capacità di cambiare gli eventi. La Commissione Europea scarica
il compito alla BCE e la BCE, a sua volta, per bocca del suo
governatore Mario Draghi, passa la patata bollente al Consiglio
Direttivo, che a quanto pare sul caso specifico dell’Irlanda dovrà
pronunciarsi entro la fine dell’anno. In questo contesto di confusione
assoluta, il governo irlandese guidato dal primo ministro Enda Kenny
(foto a sinistra) pare sia l’unica istituzione ad avere le idee chiare e
abbia deciso di continuare ad andare avanti per la sua strada, in
attesa che qualcuno si decida a pronunciarsi chiaramente sul da farsi. "Il risultato odierno è un passo storico sulla strada per la ripresa economica" ha detto trionfante al Parlamento di Dublino Kenny qualche giorno fa "Questa manovra assicura la futura sostenibilità finanziaria dello stato".
Ma cosa ha fatto di così rivoluzionario ed epocale Kenny? Si tratta di un’ennesima bufala o fregatura per i cittadini, oppure questa decisione aiuterà concretamente la ripresa di uno stato a pezzi? Andiamo con ordine perché la posizione attuale dell’Irlanda è molto delicata. Malgrado tutti i plausi pervenuti da ogni parte, da Bruxelles e Berlino in particolare, per il rigore teutonico con cui l’Irlanda ha seguito il suo programma di austerità, fatto principalmente di licenziamenti nel settore pubblico e tasse, la situazione del paese è ancora drammatica, con l’economia che ristagna e la disoccupazione che si attesta intorno al 14%. Senza considerare tutti i massicci movimenti migratori dei giovani ragazzi irlandesi verso l’Australia, soprattutto. Una catastrofe sociale che come i meglio informati sanno non è dovuta affatto all’eccesso di debito pubblico, agli sprechi o alla corruzione della classe politica, ma alle sciagurate gestioni fallimentari di un ristretto manipolo di banchieri privati, appoggiati e spalleggiati ovviamente dai politici locali, che nel giro di pochi anni sono riusciti a sommergere di debiti l’intero paese. Chi ancora ha dei dubbi su come si sia sviluppata e quale sia la vera origine della crisi finanziaria che attanaglia oggi l’eurozona, dovrebbe studiare meglio il caso dell’Irlanda che è sicuramente il più emblematico di tutti. E con qualche piccola variante, dovuta alla minore o maggiore compartecipazione del settore pubblico, applicarlo poi agli altri paesi PIIGS. Italia compresa.
Ma vediamo innanzitutto a grandi linee quali sono gli elementi e gli eventi principali che caratterizzano il caso irlandese. Prima dello scoppio della bolla speculativa dei titoli subprime americani del 2008, l’Irlanda era a detta di tutti il paese più “virtuoso” d’Europa per quanto riguarda i conti pubblici: aveva raggiunto il pareggio di bilancio fra entrate e uscite e il suo debito pubblico era sceso addirittura sotto il 40% del PIL. Il regime di defiscalizzazione degli investimenti, con una tassazione media del 12% fra le più basse del mondo, aveva convinto molte multinazionali (Google è soltanto la più famosa, ma ci sono anche IBM, Apple, Xerox, Intel) a prendere sede in Irlanda, per godere dei vantaggi di arbitraggio concessi dalla globalizzazione. I nuovi capitali che arrivavano a fiumi in Irlanda, oltre a dare la parvenza di un paese sviluppato con bassa disoccupazione, avevano ingrossato anche i depositi presso le banche locali che prese dall’euforia si erano lanciate con entusiasmo nel campo degli investimenti speculativi in titoli derivati, soprattutto americani, e nell’attività creditizia interna nel settore immobiliare. Insomma fra l’acclamazione generale si stavano creando le premesse per la nascita di una piccola bolla bancaria all’interno della più grande bolla finanziaria che intanto si stava minacciosamente gonfiando a livello internazionale.
Attirate dagli alti rendimenti, le banche tedesche e francesi non avevano lesinato a sua volta ad investire in titoli delle banche irlandesi, mantenendo in piedi uno schema finanziario molto fragile, perché sostenuto appunto dai capitali e dagli investimenti esteri e non dai risparmi interni. E così mentre il debito pubblico scendeva rapidamente, il debito estero, contratto soprattutto dal settore bancario privato, continuava ad ingigantirsi senza che nessuno suonasse mai il campanello di allarme. Anzi, gli analisti finanziari più esperti si sperticavano in una serie interminabile di elogi per il modello di sviluppo applicato in Irlanda, presentandolo al mondo come un esempio da seguire per molte altre nazioni che stentavano a far ripartire l’economia. L’Irlanda era chiamata la “Tigre Celtica”, proprio per la sua intraprendenza nel campo finanziario, cosa che in effetti avrebbe dovuto preoccupare e insospettire qualcuno dei residenti visto la fine che avevano fatto le “Tigri Asiatiche” dopo lo scoppio della bolla speculativa del 1997. Ma gli analisti finanziari come si sa hanno la memoria corta, soprattutto quelli che lavorano all’interno di grandi gruppi bancari e finanziari e devono tenere alto il valore degli investimenti fatti dalle rispettive società di appartenenza. Importante in questi casi è non rimanere mai l’ultimo con il cerino in mano quando scoppia la bolla, ma fino a quando gli affari si gonfiano bisogna soffiare aria fritta e parole a vanvera con tutta l’energia e la credibilità possibile.
Il momento di smobilitare gli investimenti fatti in Irlanda arrivò appunto nel settembre 2008, quando a causa della crisi dei titoli subprime americani, le sei maggiori banche del paese, fra cui la Anglo Irish Bank e la INBS (Irish Nationwide Building Society), si trovarono strette in una doppia morsa di crisi di solvibilità e liquidità, dato che gran parte delle attività finanziarie e immobiliari si erano deprezzate drasticamente e chi era ancora in tempo aveva provveduto a prelevare i suoi depositi per riportarli all’estero. Per impedire che iniziasse una furibonda corsa agli sportelli, il governo irlandese si vide costretto ad apporre la garanzia statale sui depositi delle banche intervenendo pesantemente per evitare il collasso e fornire il salvataggio pubblico necessario. E qui finisce la storia della virtù pubblica dell’Irlanda, che da stato “virtuoso” cominciò ad essere additato dai soliti analisti come uno stato spendaccione, un maiale, alla stregua degli altri PIIGS dell’eurozona (pochi ebbero la decenza e il pudore di spiegare che il governo irlandese era intervenuto soprattutto per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi, che in caso contrario avrebbero subito ingenti perdite). Ma per capire meglio le dimensioni del debito estero accumulato dall’Irlanda, guardiamo il grafico sotto diviso per categorie (investimenti diretti, investimenti di portafoglio, debiti bancari e finanziari, banca centrale): già nel 2010, il debito estero complessivo ammontava a €1,73 trilioni circa, ovvero 10 volte maggiore del PIL del paese di €173 miliardi. Una situazione molto preoccupante, che non si discostava affatto da ciò che stava accadendo intanto in Spagna, Portogallo e Grecia.
Ovviamente, e per fortuna, l’Irlanda ha anche un credito estero, dal cui saldo derivava una posizione netta sull’estero passiva superiore al 90% del PIL (quindi ben oltre il livello di guardia fissato dai più autorevoli economisti intorno al 50% del PIL). Nel 2010, il governo irlandese ormai alle corde, impossibilitato a finanziarsi sui "mercati" a rendimenti accettabili, si vide costretto a chiedere un piano di salvataggio internazionale da €67,5 miliardi all’Unione Europea, alla BCE e al FMI. In particolare i €30,6 miliardi concessi dalla BCE dovevano servire per il salvataggio diretto delle due banche più in crisi, la AIB e la INSB, che furono fuse in un’unica banca chiamata IBRC (Irish Bank Resolution Corporation). Gli investitori stranieri furono così tutelati senza alcuna perdita e ricevettero la garanzia del ritorno del 100% del loro investimento iniziale, mentre tutto il peso della cattiva gestione delle banche irlandesi ricadde sul governo e indirettamente sui cittadini, che furono penalizzati con un notevole aumento della pressione fiscale e un taglio netto della spessa pubblica, che comportò migliaia di licenziamenti nel settore statale. In finanza accade sempre questo strano fenomeno: chi investe grosse somme non perde mai, mentre chi scommette poco o non ha mai messo piede in una banca e non sa nemmeno cosa sia la borsa deve pagare per i primi. E così, gravati da questa pesante passività, i conti pubblici andarono in rovina, il surplus faticosamente raggiunto prima del 2008 passò a diventare un deficit pubblico, che dal disastroso -30,9% del 2011 è passato al -8,2% attuale (grafico sotto). Anche perché come capita spesso in questi casi oltre alle maggiori uscite per il salvataggio pubblico delle banche il governo dovette assistere ad un calo delle entrate tributarie dovuto al crollo del reddito nazionale.
Il programma di assistenza, Emergency Lending Assistance (ELA), negoziato dal governo con la Banca Centrale d’Irlanda, prevedeva in cambio della liquidità necessaria per far funzionare la nuova banca IBRC la firma e la consegna di vere e proprie cambiali (Promissory Note) pagabili dal governo in 20 anni. Il piano di rientro era così composto: €3,1 miliardi ogni anno per 12 anni (il 2% del PIL nazionale), €2,1 miliardi nel 2024, quindi €0,9 miliardi per 5 anni e infine €0,1 miliardi a saldo nel 2031, con un interesse complessivo associato all’operazione di €17 miliardi che il governo avrebbe dovuto corrispondere durante tutto il corso dei venti anni. Con le solite tasse e i tagli alla spesa pubblica. Di conseguenza il debito pubblico, sotto il peso di questo macigno, è sprofondato dalla sua iniziale quota “virtuosa” inferiore al 30% agli oltre 100% del PIL attuali (grafico sotto), facendo allarmare sia i politici che i cittadini sulla reale sostenibilità dell’intera manovra di salvataggio bancario. Anche perché a più riprese, la protesta dei cittadini si è fatta sentire rumorosamente, sia con manifestazioni contro le crescenti tasse che con proteste di piazza contro i banchieri truffatori e i governanti compiacenti.
Ma a questo punto comincia la parte più interessante del racconto. Già ad inizio gennaio del 2013, il premier Kenny intraprende i suoi primi viaggi della speranza verso Bruxelles e Francoforte per trovare nella Commissione Europea o nella BCE degli interlocutori validi per ritrattare l’intero programma di rientro. La situazione già precaria dell’economia irlandese che mostrava qualche timido cenno di ripresa non poteva essere appesantita con i previsti prelievi annuali e secondo Kenny era più che mai necessaria una ristrutturazione del debito per consentire un atterraggio più morbido e allungare il piano generale di rimborso. Tuttavia il classico balletto dello scaricabarile inscenato dagli inconcludenti tecnocrati europei unito all’avvicinarsi della data del 31 marzo in cui l’Irlanda avrebbe dovuto rimborsare la sua quota annuale, hanno convinto Kenny a prendere una decisione perentoria.
Il governo irlandese scambierà le cambiali in scadenza possedute dalla Banca Centrale d’Irlanda con titoli del debito pubblico con tempi di maturazione media superiori a 34 anni, in cui le maggiori quote di rimborso sono previste per il 2038 e il 2053. Per la prima volta, uno stato non più sovrano dell’eurozona se ne è infischiato di attendere le decisioni degli sfaccendati e stralunati tecnocrati di Bruxelles e ha fatto una scelta a tutti gli effetti “sovrana”, che contrasta vistosamente con i trattati europei e in particolare con il famigerato articolo 123 che impedisce alle banche centrali dell’eurozona di finanziare direttamente i rispettivi governi. Il precedente prestito si è trasformato insomma in una forma più o meno camuffata di monetizzazione del deficit pubblico: soldi freschi della banca centrale in cambio di titoli di stato, anche se poi questi soldi non servono per alimentare la spesa del governo ma sono stati già convogliati nelle casse delle banche fallite. In ogni caso, questo legame diretto fra governo e banca centrale rappresenta un vero abominio e un affronto per la tecnocrazia europea, che proprio su questa inconsueta e ancora incomprensibile cesura aveva fondato le basi del suo primato oligarchico e antidemocratico.
Interrogato sullo smacco irlandese dai giornalisti nell’ultima conferenza stampa di inizio marzo, il governatore della BCE Mario Draghi non senza qualche imbarazzo ha riferito di avere preso nota di ciò che sta accadendo in Irlanda, riservandosi di rivedere con calma l’intera faccenda insieme agli altri membri del Consiglio Direttivo della banca centrale di Francoforte. Ad ogni modo, Draghi ha fatto capire che la questione riguarda ormai i rapporti interni fra il governo irlandese e la Banca Centrale d’Irlanda, mentre le presunte irregolarità inerenti il rispetto dell’articolo 123 verranno analizzate con la dovuta scrupolosità entro la fine dell’anno. Nulla però Draghi ha detto riguardo la questione di fondo che soggiace all’intera vicenda e lo stesso Kenny ha spesso accennato in modo velato, con tutte le cautele del caso (non sia mai svegliare i cittadini e spiegargli apertamente quale sia il vero significato dei soldi oggi: i politici sono pur sempre i camerieri dei banchieri, o no?), in pubblico: ma se i soldi prestati dalla BCE al governo irlandese vengono creati dal nulla, perché i cittadini dovrebbero svenarsi e privarsi dei loro risparmi per rimborsare del denaro che una volta rientrato alla base verrebbe distrutto o bruciato? Che senso ha mettere in ginocchio un’intera nazione per dei semplici bit elettronici o delle voci contabili all’interno del bilancio di una banca centrale? Non sarebbe più giusto che la parte di debito dovuto alla BCE venisse in qualche abbonata o decurtata, lasciando intatta solo la quota prestata dal FMI?
Ovviamente di fronte a questi scottanti interrogativi i funzionari della banca centrale tedesca Bundesbank sono sobbalzati all'unisono e hanno fatto una corale levata di scudi, ricordando che il compito principale della banca centrale deve essere il controllo dell’inflazione e pur di mantenere bassa l’inflazione, la gente può essere tranquillamente dissanguata e lasciata morire. Ricordiamo che i tedeschi sono ormai gli unici al mondo, insieme ai loro servili lacchè europeisti disseminati in tutto il continente, a credere che l’aumento della massa monetaria crei automaticamente inflazione e soprattutto che una banca centrale possa davvero influenzare e modificare il livello della massa monetaria circolante. Due scemenze belle e buone che servono per coprire la verità profonda dell'intransigenza teutonica in tema di politica monetaria: per chi ancora non lo avesse capito, l’euro non è una moneta comune ma una veste un po’ più sofisticata del marco tedesco e i marchi, da che mondo è mondo, non si regalano a nessuno, ma bisogna guadagnarseli con il sangue. Fine della storia. O almeno così sembra, dato che nel caos attuale imperante nell’eurozona la decisione “sovrana” dell’Irlanda potrebbe creare un precedente politico a cui potranno in futuro appellarsi gli altri governi degli stati più in difficoltà. In particolare pensiamo a Grecia e Portogallo, i cui governi invece stanno continuando a pagare a caro prezzo i loro durissimi piani di rientro con rivolte popolari, sofferenze e vessazioni non più tollerabili della cittadinanza. Ma anche l’Italia potrebbe essere presto coinvolta in questa faccenda e non a caso qualche tempo fa il direttore del collocamento dei titoli pubblici del MEF Maria Cannata aveva timidamente accennato alla possibilità di rifinanziare l’enorme debito pubblico italiano con titoli a più lunga scadenza, dai 30 fino ai 50 anni. Non è sicuramente una soluzione definitiva al problema del debito pubblico e della perdita della sovranità monetaria, ma indubbiamente un’operazione del genere potrebbe alleviare non poco la pesantezza degli impegni immediati di consolidamento del debito e partecipazione ai fondi di salvataggio presi in sede europea dall’Italia (vedi Fiscal Compact e Mes).
Se i tecnocrati europei sono degli inetti, perché i politici e i funzionari nazionali non dovrebbero adoperarsi da soli, in piena autonomia, per modificare le norme più criminali e controverse dei trattati europei? In questo ingarbugliato castello di carte e burocrazia costruito dal comitato d’affari di Bruxelles, esiste ancora per un governo democratico nazionale lo spazio di manovra necessario per prendere decisioni “sovrane”? La strategia del silenzio assenso potrebbe essere il metodo migliore per riformare rapidamente in senso democratico l’impostazione monolitica e totalitaria dell’eurozona? L'anarchia istituzionale, in cui ognuno decide per sé e cerca di salvare il salvabile, sarà la prossima evoluzione del mostro giuridico europeo? Invece di stare appresso alle lusinghe del fallito Bersani e alle congiuntiviti di Berlusconi, i neo-deputati del Movimento 5 Stelle dovrebbero pronunciarsi e seguire attentamente ciò che sta accadendo oggi in Europa se vogliono stare al passo con i tempi e risultare davvero decisivi per il nostro paese e per il futuro di tutti noi. Perché ormai le decisioni che contano veramente per i cittadini si prendono o non si prendono a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino. Mentre a Roma al massimo si elegge un papa e poco altro. E anche qui il baricentro pare essersi spostato verso Buenos Aires. E poco importa se il nuovo papa argentino sia ostile al governo progressista sudamericano e un convinto conservatore, perchè adesso i media italiani saranno costretti loro malgrado a parlare di Argentina. E chissà se un giorno la presidentessa Kirchner verrà in visita in Italia a dare lezioni di democrazia a noi inconsapevoli vittime di una dittatura.
Ma cosa ha fatto di così rivoluzionario ed epocale Kenny? Si tratta di un’ennesima bufala o fregatura per i cittadini, oppure questa decisione aiuterà concretamente la ripresa di uno stato a pezzi? Andiamo con ordine perché la posizione attuale dell’Irlanda è molto delicata. Malgrado tutti i plausi pervenuti da ogni parte, da Bruxelles e Berlino in particolare, per il rigore teutonico con cui l’Irlanda ha seguito il suo programma di austerità, fatto principalmente di licenziamenti nel settore pubblico e tasse, la situazione del paese è ancora drammatica, con l’economia che ristagna e la disoccupazione che si attesta intorno al 14%. Senza considerare tutti i massicci movimenti migratori dei giovani ragazzi irlandesi verso l’Australia, soprattutto. Una catastrofe sociale che come i meglio informati sanno non è dovuta affatto all’eccesso di debito pubblico, agli sprechi o alla corruzione della classe politica, ma alle sciagurate gestioni fallimentari di un ristretto manipolo di banchieri privati, appoggiati e spalleggiati ovviamente dai politici locali, che nel giro di pochi anni sono riusciti a sommergere di debiti l’intero paese. Chi ancora ha dei dubbi su come si sia sviluppata e quale sia la vera origine della crisi finanziaria che attanaglia oggi l’eurozona, dovrebbe studiare meglio il caso dell’Irlanda che è sicuramente il più emblematico di tutti. E con qualche piccola variante, dovuta alla minore o maggiore compartecipazione del settore pubblico, applicarlo poi agli altri paesi PIIGS. Italia compresa.
Ma vediamo innanzitutto a grandi linee quali sono gli elementi e gli eventi principali che caratterizzano il caso irlandese. Prima dello scoppio della bolla speculativa dei titoli subprime americani del 2008, l’Irlanda era a detta di tutti il paese più “virtuoso” d’Europa per quanto riguarda i conti pubblici: aveva raggiunto il pareggio di bilancio fra entrate e uscite e il suo debito pubblico era sceso addirittura sotto il 40% del PIL. Il regime di defiscalizzazione degli investimenti, con una tassazione media del 12% fra le più basse del mondo, aveva convinto molte multinazionali (Google è soltanto la più famosa, ma ci sono anche IBM, Apple, Xerox, Intel) a prendere sede in Irlanda, per godere dei vantaggi di arbitraggio concessi dalla globalizzazione. I nuovi capitali che arrivavano a fiumi in Irlanda, oltre a dare la parvenza di un paese sviluppato con bassa disoccupazione, avevano ingrossato anche i depositi presso le banche locali che prese dall’euforia si erano lanciate con entusiasmo nel campo degli investimenti speculativi in titoli derivati, soprattutto americani, e nell’attività creditizia interna nel settore immobiliare. Insomma fra l’acclamazione generale si stavano creando le premesse per la nascita di una piccola bolla bancaria all’interno della più grande bolla finanziaria che intanto si stava minacciosamente gonfiando a livello internazionale.
Attirate dagli alti rendimenti, le banche tedesche e francesi non avevano lesinato a sua volta ad investire in titoli delle banche irlandesi, mantenendo in piedi uno schema finanziario molto fragile, perché sostenuto appunto dai capitali e dagli investimenti esteri e non dai risparmi interni. E così mentre il debito pubblico scendeva rapidamente, il debito estero, contratto soprattutto dal settore bancario privato, continuava ad ingigantirsi senza che nessuno suonasse mai il campanello di allarme. Anzi, gli analisti finanziari più esperti si sperticavano in una serie interminabile di elogi per il modello di sviluppo applicato in Irlanda, presentandolo al mondo come un esempio da seguire per molte altre nazioni che stentavano a far ripartire l’economia. L’Irlanda era chiamata la “Tigre Celtica”, proprio per la sua intraprendenza nel campo finanziario, cosa che in effetti avrebbe dovuto preoccupare e insospettire qualcuno dei residenti visto la fine che avevano fatto le “Tigri Asiatiche” dopo lo scoppio della bolla speculativa del 1997. Ma gli analisti finanziari come si sa hanno la memoria corta, soprattutto quelli che lavorano all’interno di grandi gruppi bancari e finanziari e devono tenere alto il valore degli investimenti fatti dalle rispettive società di appartenenza. Importante in questi casi è non rimanere mai l’ultimo con il cerino in mano quando scoppia la bolla, ma fino a quando gli affari si gonfiano bisogna soffiare aria fritta e parole a vanvera con tutta l’energia e la credibilità possibile.
Il momento di smobilitare gli investimenti fatti in Irlanda arrivò appunto nel settembre 2008, quando a causa della crisi dei titoli subprime americani, le sei maggiori banche del paese, fra cui la Anglo Irish Bank e la INBS (Irish Nationwide Building Society), si trovarono strette in una doppia morsa di crisi di solvibilità e liquidità, dato che gran parte delle attività finanziarie e immobiliari si erano deprezzate drasticamente e chi era ancora in tempo aveva provveduto a prelevare i suoi depositi per riportarli all’estero. Per impedire che iniziasse una furibonda corsa agli sportelli, il governo irlandese si vide costretto ad apporre la garanzia statale sui depositi delle banche intervenendo pesantemente per evitare il collasso e fornire il salvataggio pubblico necessario. E qui finisce la storia della virtù pubblica dell’Irlanda, che da stato “virtuoso” cominciò ad essere additato dai soliti analisti come uno stato spendaccione, un maiale, alla stregua degli altri PIIGS dell’eurozona (pochi ebbero la decenza e il pudore di spiegare che il governo irlandese era intervenuto soprattutto per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi, che in caso contrario avrebbero subito ingenti perdite). Ma per capire meglio le dimensioni del debito estero accumulato dall’Irlanda, guardiamo il grafico sotto diviso per categorie (investimenti diretti, investimenti di portafoglio, debiti bancari e finanziari, banca centrale): già nel 2010, il debito estero complessivo ammontava a €1,73 trilioni circa, ovvero 10 volte maggiore del PIL del paese di €173 miliardi. Una situazione molto preoccupante, che non si discostava affatto da ciò che stava accadendo intanto in Spagna, Portogallo e Grecia.
Ovviamente, e per fortuna, l’Irlanda ha anche un credito estero, dal cui saldo derivava una posizione netta sull’estero passiva superiore al 90% del PIL (quindi ben oltre il livello di guardia fissato dai più autorevoli economisti intorno al 50% del PIL). Nel 2010, il governo irlandese ormai alle corde, impossibilitato a finanziarsi sui "mercati" a rendimenti accettabili, si vide costretto a chiedere un piano di salvataggio internazionale da €67,5 miliardi all’Unione Europea, alla BCE e al FMI. In particolare i €30,6 miliardi concessi dalla BCE dovevano servire per il salvataggio diretto delle due banche più in crisi, la AIB e la INSB, che furono fuse in un’unica banca chiamata IBRC (Irish Bank Resolution Corporation). Gli investitori stranieri furono così tutelati senza alcuna perdita e ricevettero la garanzia del ritorno del 100% del loro investimento iniziale, mentre tutto il peso della cattiva gestione delle banche irlandesi ricadde sul governo e indirettamente sui cittadini, che furono penalizzati con un notevole aumento della pressione fiscale e un taglio netto della spessa pubblica, che comportò migliaia di licenziamenti nel settore statale. In finanza accade sempre questo strano fenomeno: chi investe grosse somme non perde mai, mentre chi scommette poco o non ha mai messo piede in una banca e non sa nemmeno cosa sia la borsa deve pagare per i primi. E così, gravati da questa pesante passività, i conti pubblici andarono in rovina, il surplus faticosamente raggiunto prima del 2008 passò a diventare un deficit pubblico, che dal disastroso -30,9% del 2011 è passato al -8,2% attuale (grafico sotto). Anche perché come capita spesso in questi casi oltre alle maggiori uscite per il salvataggio pubblico delle banche il governo dovette assistere ad un calo delle entrate tributarie dovuto al crollo del reddito nazionale.
Il programma di assistenza, Emergency Lending Assistance (ELA), negoziato dal governo con la Banca Centrale d’Irlanda, prevedeva in cambio della liquidità necessaria per far funzionare la nuova banca IBRC la firma e la consegna di vere e proprie cambiali (Promissory Note) pagabili dal governo in 20 anni. Il piano di rientro era così composto: €3,1 miliardi ogni anno per 12 anni (il 2% del PIL nazionale), €2,1 miliardi nel 2024, quindi €0,9 miliardi per 5 anni e infine €0,1 miliardi a saldo nel 2031, con un interesse complessivo associato all’operazione di €17 miliardi che il governo avrebbe dovuto corrispondere durante tutto il corso dei venti anni. Con le solite tasse e i tagli alla spesa pubblica. Di conseguenza il debito pubblico, sotto il peso di questo macigno, è sprofondato dalla sua iniziale quota “virtuosa” inferiore al 30% agli oltre 100% del PIL attuali (grafico sotto), facendo allarmare sia i politici che i cittadini sulla reale sostenibilità dell’intera manovra di salvataggio bancario. Anche perché a più riprese, la protesta dei cittadini si è fatta sentire rumorosamente, sia con manifestazioni contro le crescenti tasse che con proteste di piazza contro i banchieri truffatori e i governanti compiacenti.
Ma a questo punto comincia la parte più interessante del racconto. Già ad inizio gennaio del 2013, il premier Kenny intraprende i suoi primi viaggi della speranza verso Bruxelles e Francoforte per trovare nella Commissione Europea o nella BCE degli interlocutori validi per ritrattare l’intero programma di rientro. La situazione già precaria dell’economia irlandese che mostrava qualche timido cenno di ripresa non poteva essere appesantita con i previsti prelievi annuali e secondo Kenny era più che mai necessaria una ristrutturazione del debito per consentire un atterraggio più morbido e allungare il piano generale di rimborso. Tuttavia il classico balletto dello scaricabarile inscenato dagli inconcludenti tecnocrati europei unito all’avvicinarsi della data del 31 marzo in cui l’Irlanda avrebbe dovuto rimborsare la sua quota annuale, hanno convinto Kenny a prendere una decisione perentoria.
Il governo irlandese scambierà le cambiali in scadenza possedute dalla Banca Centrale d’Irlanda con titoli del debito pubblico con tempi di maturazione media superiori a 34 anni, in cui le maggiori quote di rimborso sono previste per il 2038 e il 2053. Per la prima volta, uno stato non più sovrano dell’eurozona se ne è infischiato di attendere le decisioni degli sfaccendati e stralunati tecnocrati di Bruxelles e ha fatto una scelta a tutti gli effetti “sovrana”, che contrasta vistosamente con i trattati europei e in particolare con il famigerato articolo 123 che impedisce alle banche centrali dell’eurozona di finanziare direttamente i rispettivi governi. Il precedente prestito si è trasformato insomma in una forma più o meno camuffata di monetizzazione del deficit pubblico: soldi freschi della banca centrale in cambio di titoli di stato, anche se poi questi soldi non servono per alimentare la spesa del governo ma sono stati già convogliati nelle casse delle banche fallite. In ogni caso, questo legame diretto fra governo e banca centrale rappresenta un vero abominio e un affronto per la tecnocrazia europea, che proprio su questa inconsueta e ancora incomprensibile cesura aveva fondato le basi del suo primato oligarchico e antidemocratico.
Interrogato sullo smacco irlandese dai giornalisti nell’ultima conferenza stampa di inizio marzo, il governatore della BCE Mario Draghi non senza qualche imbarazzo ha riferito di avere preso nota di ciò che sta accadendo in Irlanda, riservandosi di rivedere con calma l’intera faccenda insieme agli altri membri del Consiglio Direttivo della banca centrale di Francoforte. Ad ogni modo, Draghi ha fatto capire che la questione riguarda ormai i rapporti interni fra il governo irlandese e la Banca Centrale d’Irlanda, mentre le presunte irregolarità inerenti il rispetto dell’articolo 123 verranno analizzate con la dovuta scrupolosità entro la fine dell’anno. Nulla però Draghi ha detto riguardo la questione di fondo che soggiace all’intera vicenda e lo stesso Kenny ha spesso accennato in modo velato, con tutte le cautele del caso (non sia mai svegliare i cittadini e spiegargli apertamente quale sia il vero significato dei soldi oggi: i politici sono pur sempre i camerieri dei banchieri, o no?), in pubblico: ma se i soldi prestati dalla BCE al governo irlandese vengono creati dal nulla, perché i cittadini dovrebbero svenarsi e privarsi dei loro risparmi per rimborsare del denaro che una volta rientrato alla base verrebbe distrutto o bruciato? Che senso ha mettere in ginocchio un’intera nazione per dei semplici bit elettronici o delle voci contabili all’interno del bilancio di una banca centrale? Non sarebbe più giusto che la parte di debito dovuto alla BCE venisse in qualche abbonata o decurtata, lasciando intatta solo la quota prestata dal FMI?
Ovviamente di fronte a questi scottanti interrogativi i funzionari della banca centrale tedesca Bundesbank sono sobbalzati all'unisono e hanno fatto una corale levata di scudi, ricordando che il compito principale della banca centrale deve essere il controllo dell’inflazione e pur di mantenere bassa l’inflazione, la gente può essere tranquillamente dissanguata e lasciata morire. Ricordiamo che i tedeschi sono ormai gli unici al mondo, insieme ai loro servili lacchè europeisti disseminati in tutto il continente, a credere che l’aumento della massa monetaria crei automaticamente inflazione e soprattutto che una banca centrale possa davvero influenzare e modificare il livello della massa monetaria circolante. Due scemenze belle e buone che servono per coprire la verità profonda dell'intransigenza teutonica in tema di politica monetaria: per chi ancora non lo avesse capito, l’euro non è una moneta comune ma una veste un po’ più sofisticata del marco tedesco e i marchi, da che mondo è mondo, non si regalano a nessuno, ma bisogna guadagnarseli con il sangue. Fine della storia. O almeno così sembra, dato che nel caos attuale imperante nell’eurozona la decisione “sovrana” dell’Irlanda potrebbe creare un precedente politico a cui potranno in futuro appellarsi gli altri governi degli stati più in difficoltà. In particolare pensiamo a Grecia e Portogallo, i cui governi invece stanno continuando a pagare a caro prezzo i loro durissimi piani di rientro con rivolte popolari, sofferenze e vessazioni non più tollerabili della cittadinanza. Ma anche l’Italia potrebbe essere presto coinvolta in questa faccenda e non a caso qualche tempo fa il direttore del collocamento dei titoli pubblici del MEF Maria Cannata aveva timidamente accennato alla possibilità di rifinanziare l’enorme debito pubblico italiano con titoli a più lunga scadenza, dai 30 fino ai 50 anni. Non è sicuramente una soluzione definitiva al problema del debito pubblico e della perdita della sovranità monetaria, ma indubbiamente un’operazione del genere potrebbe alleviare non poco la pesantezza degli impegni immediati di consolidamento del debito e partecipazione ai fondi di salvataggio presi in sede europea dall’Italia (vedi Fiscal Compact e Mes).
Se i tecnocrati europei sono degli inetti, perché i politici e i funzionari nazionali non dovrebbero adoperarsi da soli, in piena autonomia, per modificare le norme più criminali e controverse dei trattati europei? In questo ingarbugliato castello di carte e burocrazia costruito dal comitato d’affari di Bruxelles, esiste ancora per un governo democratico nazionale lo spazio di manovra necessario per prendere decisioni “sovrane”? La strategia del silenzio assenso potrebbe essere il metodo migliore per riformare rapidamente in senso democratico l’impostazione monolitica e totalitaria dell’eurozona? L'anarchia istituzionale, in cui ognuno decide per sé e cerca di salvare il salvabile, sarà la prossima evoluzione del mostro giuridico europeo? Invece di stare appresso alle lusinghe del fallito Bersani e alle congiuntiviti di Berlusconi, i neo-deputati del Movimento 5 Stelle dovrebbero pronunciarsi e seguire attentamente ciò che sta accadendo oggi in Europa se vogliono stare al passo con i tempi e risultare davvero decisivi per il nostro paese e per il futuro di tutti noi. Perché ormai le decisioni che contano veramente per i cittadini si prendono o non si prendono a Bruxelles, a Francoforte, a Berlino. Mentre a Roma al massimo si elegge un papa e poco altro. E anche qui il baricentro pare essersi spostato verso Buenos Aires. E poco importa se il nuovo papa argentino sia ostile al governo progressista sudamericano e un convinto conservatore, perchè adesso i media italiani saranno costretti loro malgrado a parlare di Argentina. E chissà se un giorno la presidentessa Kirchner verrà in visita in Italia a dare lezioni di democrazia a noi inconsapevoli vittime di una dittatura.
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