Qualche giorno fa, a Torino, è mancato improvvisamente, stroncato da
un infarto, Renato Patrito. Non era un amico, se non su Facebook. Al di
là di questo e della comunanza di ideali, ci si era incontrati soltanto
in occasioni pubbliche: dibattiti e
assemblee a cui abbiamo partecipato insieme, lui da militante, io da
osservatore partecipe, da libero intellettuale, sia pur militante a mio
modo. Renato era un dirigente del PRC di Torino, di cui era stato per
qualche anno anche segretario.
Le polemiche contro la “casta”, che sono degenerate via via,
arrivando fino in Parlamento (da parte di eletti alle due Camere, i
quali sembrano volersi fare un dovere di continuare a delegittimare
quelle stesse istituzioni nelle quali hanno messo piede), hanno
cancellato chi, come Renato, si era impegnato nell’azione politica
diretta per passione, ma anche per una scelta all’insegna del dovere
civico. Per gente come Renato la politica, mossa da passione e dovere,
era una vera e propria missione, che cercava di far cogliere agli
interlocutori, al “popolo” cui si era dedicato, i veri interessi contro i
distorcimenti e le menzogne degli ideologi del potere. Si tratta di una
missione costosa, come sa chi ha compiuto scelte analoghe, in termini
umani, spesso anche finanziari. Essa assorbe il tuo tempo, sacrifica gli
affetti, mette a dura prova il tuo fisico e ti dà assai più
preoccupazioni che soddisfazioni, molte ansie, non poche angosce (come
in questi giorni postelettorali, che credo abbiano provato duramente
Renato), e finisce per logorarti, giorno dopo giorno.
C’è chi “scende” o “sale” nell’agone politico per proteggersi dalla
magistratura, avendo molti affari loschi; c’è chi lo fa per assicurarsi
uno stipendio lauto e qualche privilegio; c’è chi lo fa perché spera di
arrivare a “comandare”. C’è anche – e sono tanti, assai più numerosi di
quanto non si voglia far credere, e non solo nei piccoli partiti come
Rifondazione Comunista – chi invece fa politica per puro spirito di
dedizione . A quale causa? Quella che dovrebbe essere l’unica di chi
compie questo tipo di scelta: la causa del bene comune. Una causa
nobilissima; quella che impose ai classici, da Aristotele a Cicerone a
Machiavelli, e giù giù, sino ai nostri Padri Costituenti, l’idea che la
politica sia “la più nobile delle arti”.
Ma si tratta di un’ “arte” che corrisponde all’adesione a una causa
che, se praticata appunto con dedizione totale, come ha fatto Renato
Patrito, ti assorbe completamente, fino a bruciare la tua esistenza in
un tempo troppo breve: i cinquant’anni o poco più di Renato. Forse
qualcuno , sapendo della sua morte prematura, si sarà posto l’eterna,
insulsa domanda: “Chi glielo ha fatto fare?”.
Glielo hanno fatto fare Gramsci, Lenin, Carlo Rosselli, Enrico
Berlinguer…, e tanti altri, prima e dopo di loro. Glielo hanno fatto
fare i sentimenti del dovere etico, che vorrei definire kantiano, quello
che spingono a considerare più importante l’interesse della
collettività rispetto a quello personale; anche se questa scelta dovesse
comportare rischi alti, altissimi, d’ogni genere: la perdita del
lavoro, se ne hai uno, la malattia, la prigione, la miseria, la morte.
Allora, davanti alla scomparsa di questo piccolo militante, che mi
piace chiamare un eroe nascosto della quotidianità politica, un
“funzionario di partito”, uno di quelli spesso vilipesi e posti alla
gogna, mi risultano indigeribili i già fastidiosi insulti di un Grillo,
quando bercia come una scimmia urlatrice, reiterati pappagallescamente
da tanti dei “suoi”, contro i partiti e i “morti viventi”. Qui abbiamo
un morto vero, un uomo strappato alla vita, consumato dal peso della
politica. I Patrito non fanno notizia per le scarpe da duemila euro, o
le cravatte di Marinella, né per le gite in barca o per i pullover di
cachemire; i Patrito non vengono invitati ai talk show, e quando li
incrociamo in strada non sorridiamo ammiccanti, facendo loro capire che
li abbiamo riconosciuti. Non diventano “personaggi”, ma rimangono
persone, che fanno politica con la medesima dedizione con cui
svolgerebbero il loro lavoro in fabbrica o in ufficio.
Allora ai grilli e grillini, va ricordato che ci sono malfattori e
menefreghisti, corrotti e corruttori nei partiti, come nei movimenti,
come in un ufficio qualsiasi, in un’azienda, o all’università, luogo che
conosco meglio lavorandoci. E, nei partiti (nei quali personalmente non
ho mai militato, ma rispetto molto coloro che invece lo fanno), del
resto non diversamente dai movimenti, v’è tanta gente onesta, perbene, e
spesso anche provvista di una buona dose di competenza istituzionale, e
talora di capacità politica, formatasi nel corso del tempo, sia con
l’esperienza, sia con lo studio (perché la politica non è solo azione,
ma è innanzi tutto conoscenza: “senza teoria niente pratica”, ricordava
Lenin; ma il motto può e dovrebbe essere adottato da chiunque voglia
candidarsi a una qualunque assemblea elettiva, dal Comune alle Camere).
C’è insomma chi davvero ci muore di politica, e di solito, quando
capita, non è tra i dirigenti dei partiti padronali che vanno cercati
questi piccoli o grandi eroi: di solito soffre, si ammala, e talora
muore chi lotta nell’interesse degli ultimi, degli schiacciati dai
grandi potentati, degli umiliati e offesi. Occorre insomma distinguere, e
rispettare quanti alla politica si sono dedicati anima e corpo, senza
miliardi alle spalle, senza particolari ambizioni se non di portare un
piccolo mattone alla costruzione della “Città futura”.
Addio, compagno Renato.
1 commento:
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