E' tutto un coro di festeggiamenti quello che accoglie la notizia dell'acquisizione (con pochissima spesa) della Chrysler da parte di Fiat. Il "colpo", dal punto di vista finanziario è eccellente, e di questa abilità Marchionne aveva dato già in passato ottima prova. Gran parte dei quattrini necessari all'acquisto delle azioni di Veba Trust (4,3 miliardi di dollari) è infatti uscita dalle casse di Chrysler, vale a dire dai dividendi che la Fiat incassa grazie alle performance della casa di Detroit, visto che quelle conseguite in Europa sono a dir poco disastrose. Si capisce l'apprezzamento Usa per il successo dell'operazione (il Wall Street Journal non risparmia lodi al manager che rilevò Chrysler dal fallimento, insieme ad un bel mucchio di quattrini ottenuti grazie al ruolo attivo di Barak Obama).
Gli americani hanno capito quello che da noi si finge di non intendere, e cioè che a beneficiare dell'operazione non saranno gli stabilimenti italiani e i lavoratori che lì vi sono impiegati, perché il baricentro strategico del nuovo gruppo si sposterà con tutta evidenza nella capitale americana dell'auto: lì si stabilirà il nuovo quartier generale e sarà Wall Street a quotare in borsa il nuovo "player globale" nel mercato dell'auto.
Solo gli sprovveduti possono trascurare questa circostanza quasi fosse priva di significato e di conseguenze per il destino della produzione di auto nel nostro paese. Privo di ragionevolezza, o frutto di un collaudato riflesso servile nei confronti del padronato in generale e della "Famiglia" in particolare è dunque il tripudio di sindacalisti (Cisl, Uil) e di politici (Cota, Fassino fra i primi) che da Marchionne hanno ricevuto solo calci e sberleffi.
Solo gli sprovveduti possono trascurare questa circostanza quasi fosse priva di significato e di conseguenze per il destino della produzione di auto nel nostro paese. Privo di ragionevolezza, o frutto di un collaudato riflesso servile nei confronti del padronato in generale e della "Famiglia" in particolare è dunque il tripudio di sindacalisti (Cisl, Uil) e di politici (Cota, Fassino fra i primi) che da Marchionne hanno ricevuto solo calci e sberleffi.
Il governo italiano, che molto ha dato senza nulla mai pretendere dagli Agnelli, è di nuovo con il cappello in mano ad elemosinare qualche investimento in casa nostra. Peccato che le cose vadano in tutt'altro modo. Ai duemila operai della fabbrica di Termini Imerese chiusa due anni fa sono state propinate soltanto promesse bugiarde ed ora sono senza nulla in mano a protestare davanti a quei gusci vuoti su cui avevano un tempo costruito le proprie vite e le proprie speranze. Le tute blu dell'ex indotto hanno ricevuto le lettere di licenziamento; quelle di Ansaldo Breda di Carini la comunicazione della cassa integrazione per 13 settimane.
Da ieri non hanno più un posto di lavoro i 174 dipendenti della Lear e della Clerprem, aziende che ruotavano attorno all'impianto di Termini, specializzate nella produzione di sedili e imbottiture. Le ditte hanno dato esecuzione alle procedure di licenziamento collettivo a valere da ieri, 1 gennaio. Per la mobilità c'è tempo fino al 7 gennaio e i lavoratori non possono sforare, pena la perdita di una parte della già magra indennità: 850 euro il primo anno, 650 il secondo, rispetto a una stipendio di 1400-1500 euro. La "rabbia è grande", spiegano i lavoratori all'Agi, per l'entusiasmo di Sergio Marchionne dopo l'accordo che consente a Fiat di completare l'acquisizione di Chrysler, "mentre qui cancellano operai e la storia industriale di Termini Imerese".
La verità è che, in Italia, la Fiat ha fatto dei siti su cui era insediata un deserto di aree industriali dismesse, dal Piemonte alla Sicilia, passando per il Lazio e la Campania (remember Irisbus). A Cassino, a Mirafiori, a Melfi è un diluvio di ore di cassa integrazione, mentre il futuro produttivo di quegli stabilimenti continua ad essere avvolto nel mistero, visto che Marchionne non si è mai degnato di indicare uno straccio di credibile piano di rilancio per gli stabilimenti italiani, né al sindacato né al governo che del resto si è ben guardato di esercitare il proprio potere per ottenere risposte serie, invece di subire impotente l'arrogante vaniloquio del manager del Lingotto.
Ora sono lì a sperare che dai forzieri del nuovo "costruttore globale" esca qualche spicciolo da investire in Italia, ormai derubricata a succursale periferica, a colonia di interessi che hanno altrove il prorio core business. Forse nessuna vicenda, come questa, incarna la decadenza industriale del nostro Paese e il naufragio politico della sua classe dirigente.
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