Nel
Rojava da mesi i curdi resistono valorosamente all’avanzata dell'ISIS.
Ma per l’Occidente i combattenti sono alleati compiacenti solo se
compatibili alle strategie delle grandi potenze; rimangono “terroristi”
quando osano parlare di autonomia democratica della Regione e
autorganizzazione della popolazione. Il 1 novembre, in Italia e nel
mondo, una giornata di mobilitazione in sostegno di Kobané.
di Alessia Montuori e Giansandro Merli
Alcuni giorni fa, Remzi Kartal, co-presidente del Kongra-gel (Congresso del popolo) e rappresentante del movimento di liberazione curdo in Europa, ha evidenziato l'effetto enorme che gli avvenimenti in corso in Rojava (Kurdistan occidentale) stanno avendo sulle relazioni internazionali. Ha parlato della necessità di una “politica post-Kobanê”: la minaccia globale rappresentata da ISIS dovrebbe spingere anche il cosiddetto Occidente a rivedere le sue disastrose politiche mediorientali, le quali non sono riuscite ad assicurare né stabilità né pace nella regione. Kobanê come “fenomeno globale” perché la resistenza messa in atto dalla sua popolazione, dalle sue forze di difesa del popolo, YPG e YPJ (le unità femminili), ha avuto il merito di cambiare il corso di una storia che sarebbe dovuta andare in un altro modo. I calcoli di tutte le potenze in grado di fare qualcosa per la città, suggerivano di lasciarla al suo destino. Per Stati Uniti e alleanza anti-ISIS, una città non abbastanza strategica; per la Turchia addirittura una città nemica. Il governo di Erdogan, infatti, nonostante la presenza di facciata all'interno della coalizione contro i terroristi islamici, si è subito mostrato riluttante ad agire concretamente, pur essendo confinante per un lungo tratto di terra con il territorio siriano ora sotto controllo degli jihadisti e con un altro tratto che rischia di finire presto nelle loro mani.
Dietro questo “fenomeno globale”, dietro questa icona della resistenza curda che combatte dove altri (esercito iracheno, peshmerga del Kurdistan autonomo regionale) si sono volatilizzati, abbandonando intere popolazioni al proprio destino, ci sono elementi che i governi e media mainstream hanno deciso di omettere. Volutamente. E allora se si tessono le lodi della resistenza fiera di un popolo, delle donne giovani e belle che combattono con il kalashnikov in mano (appassionando mezzo mondo dietro lo schermo di un televisore o di un computer come si trattasse di un gioco un po' cruento) e di altri parametri compatibili con gli schemi orientalistici... è vietato parlare di autonomia democratica, di gente che si organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da sé come amministrarsi, di parità di genere negli organismi elettivi, di partecipazione di tutte le componenti linguistiche, etniche e religiose, non si parli insomma dei cantoni del Rojava e della loro carta del contratto sociale. Potrebbe essere contagioso.
È per questo che il PKK (Partito comunista curdo) è ancora considerato un'organizzazione “terrorista”. Nonostante la proposta politica del confederalismo democratico avanzata da Abdullah Öcalan per risolvere la questione curda, che si ispira il Partito di Unione Democratica del Kurdistan siriano. Ma se per la Turchia questo sembra essere un riflesso condizionato quasi immutabile, trasversale a post-kemalisti e post-islamisti del partito di governo, perfino alcuni settori dell'amministrazione statunitense sembrano averne avuto abbastanza. Almeno per quanto riguarda il comportamento riluttante dell'alleato NATO e l'efficacia nel combattere ISIS sul terreno dimostrata dai cosiddetti “terroristi separatisti”, i curdi del Rojava. I bombardamenti della coalizione contro le postazioni e i militanti di ISIS si sono fatti via via sempre più incisivi, con grande rabbia del governo turco e del Presidente Erdogan.
Un fragile velo si è dunque temporaneamente squarciato. Grazie a quella resistenza che, contro tutte le previsioni, ha impedito la cattura della città simbolo di Kobanê. Grazie alla straordinaria interposizione fisica della popolazione al confine turco-siriano. Grazie alle vaste mobilitazioni in tutto il Kurdistan: turco, dove sono costate una cinquantina di morti, iracheno e perfino iraniano, dove solo partecipare a una manifestazione espone al rischio di venire uccisi. E grazie alle manifestazioni della diaspora curda in Europa e nel mondo. Anche in questa occasione i confini mostrano così chiaramente il loro portato di violenza, sopraffazione e potere esercitato contro intere popolazioni. La Turchia fa notare di aver accolto centinaia di migliaia di profughi. Quegli stessi profughi che, se decidono di recarsi in massa come scudi umani e osservatori al confine con il Rojava, vengono picchiati, gasati proprio dall'esercito turco.
Insomma, i curdi sembrano benvoluti solo come alleati compiacenti o come vittime silenziose, fino a quando non danno fastidio, rimanendo delle pedine delle politiche delle grandi potenze. Diventano “terroristi”, invece, quando alzano la testa, quando si oppongono, quando documentano i reiterati aiuti e il passaggio di armi dalla Turchia a ISIS, il passaggio di feriti jihadisti che vanno a curarsi in territorio turco, mentre viene sbarrata la strada a coloro che vogliono andare a Kobanê a difendere la città unendosi alle YPG. O se praticano l'autodifesa dal regime di Assad e da quelle frange dell'Esercito Siriano Libero da cui sono stati ripetutamente attaccati in questi ultimi tre anni.
C'è da dire che anche fra la sinistra europea e nostrana qualcuno accusa i curdi di essere diventati “filoimperialisti”, perché hanno chiesto e accettato il limitato aiuto occidentale. Ma accettare questo limitato aiuto quando si è a rischio di un genocidio è “vendere” i propri principi? Lo sarebbe se vi fosse stata una rinuncia all'autonomia democratica, allo straordinario esperimento in atto nei cantoni del Rojava (così come in alcuni territori del Nord Kurdistan in Turchia, o ad esempio nel Kurdistan regionale iracheno, nel campo di Maxmur, dove vivono da un paio di decenni profughi curdi costretti a fuggire dalla politica di sistematica distruzione dei villaggi della Turchia negli anni '90). Ma i curdi non hanno chiesto un intervento dall'esterno, solo la parità militare con il nemico, per impedire un genocidio, e il riconoscimento internazionale del proprio esperimento confederale.
Una delegazione della sinistra del Parlamento europeo, presente in questi giorni al confine con la Siria, ha denunciato il sostegno turco a ISIS, e ha affermato che si adopererà per l'apertura di ciò che chiedono i curdi assediati di Kobanê: un corridoio umanitario che consenta la fornitura di cibo, medicine e rinforzi militari. Questo è l'atteggiamento che potrà condurre a una via d'uscita non solo per la città allo stremo, ma per tutta la regione. Riconoscere politicamente i cantoni, togliere il PKK dalla lista “nera”, proseguire sulla strada del negoziato per il riconoscimento dei diritti dei curdi con Abdullah Öcalan: questa “utopia” è l'unica possibilità di pace e di stabilità per tutta l'area. Un'utopia che ha da insegnare molto anche qui, anche a noi. Soprattutto mentre i diktat dei mercati finanziari svelano ogni giorno di più la vuotezza delle democrazie liberali. Mentre nuove forme di nazionalismo emergono ovunque in Europa. Mentre pratiche e retoriche razziste vengono fomentate nelle città e nei quartieri.
Per questo, è importante partecipare alla giornata globale di azione per Kobanê e per l'umanità del 1° novembre: una giornata di sostegno a una visione del mondo ottimistica, che elabora e tenta di praticare soluzioni positive, pacifiche e inclusive, paritarie fra i generi e le componenti diverse della società, contro una visione uniformatrice, oppressiva, totalitaria che non accetta alcuna diversità, perseguita da ISIS e visibile nei luoghi amministrati dal “califfato”. Una visione che è alternativa anche alle politiche di sfruttamento e rapina del capitalismo neoliberale.
Il primo novembre in tutta Italia, così come nel resto del mondo, sono previste manifestazioni in molte città: Milano, Torino, Brescia, Firenze, Udine, Bologna, Cagliari, Lecce, Reggio Calabria, Catania, Messina, Ragusa. A Roma un corteo partirà da piazza dell'Esquilino alle 15.30, per arrivare a piazza SS. Apostoli. Scendere in piazza il 1° novembre è il minimo che si possa fare per sostenere Kobanê, un'utopia che ci riguarda tutti.
di Alessia Montuori e Giansandro Merli
Alcuni giorni fa, Remzi Kartal, co-presidente del Kongra-gel (Congresso del popolo) e rappresentante del movimento di liberazione curdo in Europa, ha evidenziato l'effetto enorme che gli avvenimenti in corso in Rojava (Kurdistan occidentale) stanno avendo sulle relazioni internazionali. Ha parlato della necessità di una “politica post-Kobanê”: la minaccia globale rappresentata da ISIS dovrebbe spingere anche il cosiddetto Occidente a rivedere le sue disastrose politiche mediorientali, le quali non sono riuscite ad assicurare né stabilità né pace nella regione. Kobanê come “fenomeno globale” perché la resistenza messa in atto dalla sua popolazione, dalle sue forze di difesa del popolo, YPG e YPJ (le unità femminili), ha avuto il merito di cambiare il corso di una storia che sarebbe dovuta andare in un altro modo. I calcoli di tutte le potenze in grado di fare qualcosa per la città, suggerivano di lasciarla al suo destino. Per Stati Uniti e alleanza anti-ISIS, una città non abbastanza strategica; per la Turchia addirittura una città nemica. Il governo di Erdogan, infatti, nonostante la presenza di facciata all'interno della coalizione contro i terroristi islamici, si è subito mostrato riluttante ad agire concretamente, pur essendo confinante per un lungo tratto di terra con il territorio siriano ora sotto controllo degli jihadisti e con un altro tratto che rischia di finire presto nelle loro mani.
Dietro questo “fenomeno globale”, dietro questa icona della resistenza curda che combatte dove altri (esercito iracheno, peshmerga del Kurdistan autonomo regionale) si sono volatilizzati, abbandonando intere popolazioni al proprio destino, ci sono elementi che i governi e media mainstream hanno deciso di omettere. Volutamente. E allora se si tessono le lodi della resistenza fiera di un popolo, delle donne giovani e belle che combattono con il kalashnikov in mano (appassionando mezzo mondo dietro lo schermo di un televisore o di un computer come si trattasse di un gioco un po' cruento) e di altri parametri compatibili con gli schemi orientalistici... è vietato parlare di autonomia democratica, di gente che si organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da sé come amministrarsi, di parità di genere negli organismi elettivi, di partecipazione di tutte le componenti linguistiche, etniche e religiose, non si parli insomma dei cantoni del Rojava e della loro carta del contratto sociale. Potrebbe essere contagioso.
È per questo che il PKK (Partito comunista curdo) è ancora considerato un'organizzazione “terrorista”. Nonostante la proposta politica del confederalismo democratico avanzata da Abdullah Öcalan per risolvere la questione curda, che si ispira il Partito di Unione Democratica del Kurdistan siriano. Ma se per la Turchia questo sembra essere un riflesso condizionato quasi immutabile, trasversale a post-kemalisti e post-islamisti del partito di governo, perfino alcuni settori dell'amministrazione statunitense sembrano averne avuto abbastanza. Almeno per quanto riguarda il comportamento riluttante dell'alleato NATO e l'efficacia nel combattere ISIS sul terreno dimostrata dai cosiddetti “terroristi separatisti”, i curdi del Rojava. I bombardamenti della coalizione contro le postazioni e i militanti di ISIS si sono fatti via via sempre più incisivi, con grande rabbia del governo turco e del Presidente Erdogan.
Un fragile velo si è dunque temporaneamente squarciato. Grazie a quella resistenza che, contro tutte le previsioni, ha impedito la cattura della città simbolo di Kobanê. Grazie alla straordinaria interposizione fisica della popolazione al confine turco-siriano. Grazie alle vaste mobilitazioni in tutto il Kurdistan: turco, dove sono costate una cinquantina di morti, iracheno e perfino iraniano, dove solo partecipare a una manifestazione espone al rischio di venire uccisi. E grazie alle manifestazioni della diaspora curda in Europa e nel mondo. Anche in questa occasione i confini mostrano così chiaramente il loro portato di violenza, sopraffazione e potere esercitato contro intere popolazioni. La Turchia fa notare di aver accolto centinaia di migliaia di profughi. Quegli stessi profughi che, se decidono di recarsi in massa come scudi umani e osservatori al confine con il Rojava, vengono picchiati, gasati proprio dall'esercito turco.
Insomma, i curdi sembrano benvoluti solo come alleati compiacenti o come vittime silenziose, fino a quando non danno fastidio, rimanendo delle pedine delle politiche delle grandi potenze. Diventano “terroristi”, invece, quando alzano la testa, quando si oppongono, quando documentano i reiterati aiuti e il passaggio di armi dalla Turchia a ISIS, il passaggio di feriti jihadisti che vanno a curarsi in territorio turco, mentre viene sbarrata la strada a coloro che vogliono andare a Kobanê a difendere la città unendosi alle YPG. O se praticano l'autodifesa dal regime di Assad e da quelle frange dell'Esercito Siriano Libero da cui sono stati ripetutamente attaccati in questi ultimi tre anni.
C'è da dire che anche fra la sinistra europea e nostrana qualcuno accusa i curdi di essere diventati “filoimperialisti”, perché hanno chiesto e accettato il limitato aiuto occidentale. Ma accettare questo limitato aiuto quando si è a rischio di un genocidio è “vendere” i propri principi? Lo sarebbe se vi fosse stata una rinuncia all'autonomia democratica, allo straordinario esperimento in atto nei cantoni del Rojava (così come in alcuni territori del Nord Kurdistan in Turchia, o ad esempio nel Kurdistan regionale iracheno, nel campo di Maxmur, dove vivono da un paio di decenni profughi curdi costretti a fuggire dalla politica di sistematica distruzione dei villaggi della Turchia negli anni '90). Ma i curdi non hanno chiesto un intervento dall'esterno, solo la parità militare con il nemico, per impedire un genocidio, e il riconoscimento internazionale del proprio esperimento confederale.
Una delegazione della sinistra del Parlamento europeo, presente in questi giorni al confine con la Siria, ha denunciato il sostegno turco a ISIS, e ha affermato che si adopererà per l'apertura di ciò che chiedono i curdi assediati di Kobanê: un corridoio umanitario che consenta la fornitura di cibo, medicine e rinforzi militari. Questo è l'atteggiamento che potrà condurre a una via d'uscita non solo per la città allo stremo, ma per tutta la regione. Riconoscere politicamente i cantoni, togliere il PKK dalla lista “nera”, proseguire sulla strada del negoziato per il riconoscimento dei diritti dei curdi con Abdullah Öcalan: questa “utopia” è l'unica possibilità di pace e di stabilità per tutta l'area. Un'utopia che ha da insegnare molto anche qui, anche a noi. Soprattutto mentre i diktat dei mercati finanziari svelano ogni giorno di più la vuotezza delle democrazie liberali. Mentre nuove forme di nazionalismo emergono ovunque in Europa. Mentre pratiche e retoriche razziste vengono fomentate nelle città e nei quartieri.
Per questo, è importante partecipare alla giornata globale di azione per Kobanê e per l'umanità del 1° novembre: una giornata di sostegno a una visione del mondo ottimistica, che elabora e tenta di praticare soluzioni positive, pacifiche e inclusive, paritarie fra i generi e le componenti diverse della società, contro una visione uniformatrice, oppressiva, totalitaria che non accetta alcuna diversità, perseguita da ISIS e visibile nei luoghi amministrati dal “califfato”. Una visione che è alternativa anche alle politiche di sfruttamento e rapina del capitalismo neoliberale.
Il primo novembre in tutta Italia, così come nel resto del mondo, sono previste manifestazioni in molte città: Milano, Torino, Brescia, Firenze, Udine, Bologna, Cagliari, Lecce, Reggio Calabria, Catania, Messina, Ragusa. A Roma un corteo partirà da piazza dell'Esquilino alle 15.30, per arrivare a piazza SS. Apostoli. Scendere in piazza il 1° novembre è il minimo che si possa fare per sostenere Kobanê, un'utopia che ci riguarda tutti.