La “terza via” di Berlinguer e Ingrao
In occasione del 97° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre ci pare
utile riproporre un intervento di Pietro Ingrao del gennaio 1982 nel
quale spiegava il senso delle posizioni assunte dal PCI a partire dalla
celebre intervista di Enrico Berlinguer sulla Polonia di Jaruselski
collocandole dentro la storia del comunismo italiano. Le parole del
segretario del PCI in una conferenza stampa del 15 dicembre 1981
suscitarono un amplissimo dibattito nell’opinione pubblica e tra i
comunisti: “ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che
effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o
almeno di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta
esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per
lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista
d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, e
che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per
l’emancipazione nonché a una serie di conquiste. Oggi siamo giunti a un
punto in cui quella fase si chiude (…)Noi pensiamo che gli insegnamenti
fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle
lezioni di Lenin conservino una loro validità, e che vi sia poi, d’altra
parte, tutto un patrimonio e tutta una parte di questo insegnamento che
sono ormai caduti, che debbono essere abbandonati con gli sviluppi
nuovi che abbiamo dato alla nostra elaborazione, che si concentra su un
tema che non era il tema centrale dell’opera di Lenin. Il tema su cui
noi ci concentriamo è quello della via al socialismo e dei modi e delle
forme della costruzione socialista in società economicamente sviluppate e
con tradizioni democratiche quali sono le società dell’occidente
europeo. È chiaro che l’esplorazione di vie verso il socialismo, in
questa parte dell’Europa e del mondo, richiede soluzioni del tutto
originali, rispetto a quelle che si sono attuate nell’Unione Sovietica e
che poi si sono via via attuate negli altri paesi dell’est, sia europeo
sia asiatico. Da questo punto di vista, noi consideriamo l’esperienza
storica del movimento socialista, nel suo complesso, nelle sue due fasi
fondamentali: quella socialdemocratica e quella dei paesi dove il
socialismo è stato avviato sotto la direzione di partiti comunisti
nell’est europeo. Ognuna di queste esperienze ha dato i suoi frutti
all’avanzata del movimento operaio, ma entrambe vanno considerate
criticamente con nuove formule, con nuove soluzioni, con quella, cioè,
che noi chiamiamo terza via, la terza via appunto rispetto alle vie
tradizionali della socialdemocrazia e rispetto ai modelli dell’est
europeo”.
Oggi con l’espressione “terza via” si intende la politica
di assunzione piena del neoliberismo lanciata da Tony Blair alla quale
si sono accodati anche i gruppi dirigenti ex-comunisti del
centrosinistra italiano. Si tende a rimuovere la “terza via” proposta
da Berlinguer e Ingrao che aveva ben altra direzione e che ispirò la
battaglia prima contro la liquidazione del PCI e fin dall’inizio il
progetto della Rifondazione Comunista nel quale portarono il proprio
contributo anche i comunisti che provenivano dalla “nuova sinistra” e
dall’antistalinismo di sinistra. Oggi quella ricerca ci sembra vivere
nell’esperienza che stiamo costruendo con le altre formazioni aderenti
al Partito della Sinistra Europea come testimonia il costante
riferimento a quella «tradizione» di Alexis Tsipras e dei compagni di
Syriza. (M.A.)
Le radici della «terza via». Nel solco dell’autentica tradizione del comunismo italiano
di Pietro Ingrao
E’ giusto mettere in forte rilievo le grandi novità contenute nella
posizione assunta dal nostro partito di fronte ai fatti di Polonia. Se
attenuassimo queste novità non diremmo la verità. Non armeremmo noi
stessi. Non spingeremmo all’iniziativa sui terreni nuovi, su cui bisogna
muoversi.
Ma davvero siamo di fronte a una svolta, che «rompe» con la tradizione del partito comunista italiano?
Intanto bisogna intendersi sul senso della parola «tradizione».
lo non credo che la tradizione di una organizzazione politica, che
lotta per una trasformazione della società, possa essere vista come un
cammino lineare. Ci sono momenti di forti accelerazioni delle novità,
che si intrecciano ad arresti, ripiegamenti. Conta ciò che definisce il
volto, la funzione storica, la novità e la originalità del partito.
Sarebbe sciocco nascondere quanto ha inciso nel partito comunista
italiano il legame con l’Urss; quanto ha pesato nei sentimenti e nelle
idee di tanti di noi, in tanti momenti di vita del partito, la figura
stessa di un capo come Stalin. Tutto ciò è nei fatti. Ma io non credo
affatto che la motivazione storica del nostro partito, la sua ragion
d’essere, quindi la sua vera, profonda «tradizione», possa essere
ridotta al suo legame con l’Urss, e con l’Urss come fu plasmata dal
regime staliniano. Anzi, terrò seriamente che una simile riduzione della
nostra storia non solo oscuri l’essenziale, ma finisca per aiutare la
tesi di quei nostri avversari, che presentano i comunisti italiani come
la «mano di Mosca» , e indicano in tale legame la fonte della loro
forza e della loro espansione. Oppure la tesi di altri che si rivolgono a
noi per dire: è stato tutto un errore, dunque ricredetevi; rientrate
nei ranghi; diventate simili agli altri partiti.
La storia stessa della III Internazionale non è riducibile – secondo
me – solo a Stalin e al modello staliniano. È stata una storia
drammatica, in cui si sono scontrate aspramente, in vari momenti e in
diverse tappe, forze, orientamenti, tendenze che non erano affatto
simili. Vinse Stalin, con armi terribili. Ma la storia non è solo storia
dei vincitori. Ci sono uomini, gruppi, forze che in certi momenti
sembrano distrutti; poi, dopo anni, le loro idee e esperienze ritornano,
avanzano. Gramsci nel ’36 sembrava uno vinto, cancellato. Oggi parla
anche a paesi lontanissimi dall’Italia.
E perché mai dovrei riconoscere oggi il patrimonio della Rivoluzione d’ottobre nel regime di Jaruzelski? ‘
L’Ottobre ’17 si presentò con un altro volto: con il volto dei
soviet, dei consigli di operai, di contadini, di soldati. Organismi che
volevano essere prova e simbolo di un «potere diretto» delle classi
sfruttate, che aboliva deleghe e mirava addirittura a una gestione
diretta della produzione e dello Stato da parte delle masse. L’esatto
contrario di un potere sovrapposto e imposto con la forza militare alla
classe operaia. L’ottobre ’17 fu una rivoluzione armata: ma diede le
armi alle masse; mise i generali sotto il controllo politico dei
consigli degli operai e dei soldati.
Utopia? Stagione breve? Va bene. Ma questa fu l’immagine con cui la
Rivoluzione d’ottobre parlò al mondo, scosse milioni di uomini, si
propose a modello di un cambiamento generale. La speranza che accese non
fu solo l’abolizione dello sfruttamento economico e l’avvio di una
nuova uguaglianza, ma anche la partecipazione dei produttori alla
direzione dello Stato e della economia.
Cosi essa fu intesa in Italia dalla avanguardia dell’«Ordine nuovo»,
che divenne il gruppo dirigente del Partito comunista italiano. «Fare
come in Russia» fu per Gramsci cercare quale era, o poteva essere, il
germe specifico di un movimento consiliare italiano, di uno Stato dei
consigli. La motivazione della rivoluzione italiana egli la individuò
nella capacità dell’operaio della grande fabbrica moderna di dirigere e
riorganizzare la produzione, di elevarsi a questo ruolo, di stabilire in
nome di questo compito un’alleanza con le forze decisive
dell’intellettualità e con il mondo contadino e meridionale.
Abbiamo imparato dalle stesse pagine di Gramsci quali furono i limiti
e gli errori del movimento torinese dei consigli. Ma la «tradizione»
comunista italiana, i caratteri che motivarono la novità e l’originalità
del comunismo italiano rispetto al partito socialista e al movimento
operaio di allora, sbocciarono da quel ceppo. Da lì mosse la strategia
che diede un respiro e una motivazione nazionale alla battaglia della
classe operaia, che vide gli operai come protagonisti di una
riorganizzazione produttiva, base di un nuovo blocco storico. Non per
caso ogni riga del «Quaderni del carcere» toma su quei temi. Gramsci
scrisse tra le mura di una prigione. I«Quaderni» furono pubblicati e
letti solo dopo il crollo del fascismo. Ci furono anche momenti dolorosi
di separazione e perfino di dissenso fra Gramsci in carcere e il
partito comunista. E tuttavia, come mai negli anni difficilissimi tra il
’26 e il ‘36 – nelle aspre lotte che scossero l’Internazionale
comunista e videro Stalin schiacciare gli oppositori - come mai il
gruppo dirigente comunista italiano, pur separato dal suo capo, pure
quando non resse alle pressioni di Stalin, tese sempre a spingere verso
la ricostruzione di rapporti unitari con le forze socialiste, cercò e si
pronunciò a favore di forme di potere operaio e popolare differenti
dalla «dittatura del proletariato»? Come mai quando col VII congresso
l’Internazionale comunista, liberandosi da pesanti settarismi, lanciò la
grande strategia dei fronti popolari antifascisti, Togliatti fu tra i
protagonisti della svolta? Ci deve essere una ragione che dette questo
ruolo, questa identità al piccolo partito comunista italiano, stretto
nella tormenta del fascismo, decimato dal suo disperato tentativo di
mantenere una presenza nel Paese. Perché ci schieravamo in quel modo?
Quali le ragioni di quell’orientamento?
C’era la lotta contro il fascismo. Certo: questo portava a riscoprire
il valore della libertà di parola, di organizzazione, di voto. Ma il
problema evocato era più vasto e difficile. La risposta fascista alla
crisi del primo dopoguerra e alla catastrofe economica del ’29 non
consisteva solo nella repressione delle libertà: procedeva a
ristrutturazioni finanziarie e industriali, cambiava i rapporti fra
Stato e economia, modificava la composizione delle classi e
l’organizzazione delle masse. Dinanzi a questi mutamenti, quale doveva
essere la strategia e la collocazione dei partiti operai? Questa
domanda, che già s’era aperta al momento in cui era caduta l’ipotesi di
una espansione della rivoluzione operaia dalla Russia arretrata
all’Occidente avanzato, diventava stringente. Riguardava il destino, la
collocazione dei partiti comunisti. La questione della pluralità delle
vie al socialismo, delle vie nazionali esplose più tardi: nel secondo
dopoguerra, e fu soffocata da Stalin in nome dell’incalzare della guerra
fredda. Riemerse nel ’56, riconosciuta e legittimata al XX congresso
del PCUS. Ma essa già si affacciava acutamente, nei fatti, agli inizi
degli anni Trenta; e già in qualche modo emergeva dalla svolta che aveva
dato vita alla politica dei fronti popolari. Il piccolo partito
comunista italiano era sospinto dagli avvenimenti, ma anche dalla sua
storia, dalla sua specifica «tradizione», a schierarsi così, a spingere
in quella nuova direzione.
Perciò l’esperienza della guerra antifascista spagnola venne vissuta e
intesa da Togliatti come il tentativo di costruire una democrazia, che
tagliava le «radici» del fascismo. Ecco allora la battaglia per un
regime che poggiasse sull’alleanza fra una pluralità di forze
democratiche e contemporaneamente avesse la forza di intervenire nelle
strutture, nelle basi sociali della reazione capitalistica. Erano
formulazioni caute; convivevano a volte con altre che sembravano
indicare una strategia diversa; erano esposte ai colpi delle svolte
brusche, delle smentite, delle repressioni staliniane. Ma è vero o no
che ci fu un filo tra quella visione togliattiana della esperienza
spagnola e la politica di unità antifascista e nazionale, che fu la
nostra proposta quando scoppiò la tragedia della seconda guerra
mondiale? Io credo di sì. È qui che riemerse un volto, una impronta, una
storia originale del partito comunista italiano. E’ con questa
politica, con questo volto, con questa battaglia che i comunisti
italiani da piccola, sconfitta avanguardia si mutarono in un grande,
moderno partito di massa. Dove sta la nostra «tradizione» se non in ciò
che ci ha dato questa forza, che ha cambiato il ruolo e la collocazione
del nostro Partito nella vita del Paese?
Anche per queste ragioni non solo non condivido, ma non comprendo le
posizioni, che tendono a vedere come un «ammorbidimento», quasi come una
debolezza, un infiacchimento, uno spostamento a destra, la strategia
che collega democrazia e socialismo, sviluppo democratico e costruzione
del socialismo. Avere legato profondamente, con la lotta e con la nostra
strategia, l’avanzata al socialismo alla lotta per la libertà ha dato
forza a noi, e alle masse lavoratrici. Ha rilanciato il ruolo della
classe operaia nel Paese, dopo la terribile sconfitta subita nel ’22
dinanzi al fascismo. Ha fatto svolgere alla classe operaia italiana un
ruolo attivo, che ha inciso nell’assetto dell’Italia e dell’Europa dopo
il terremoto della seconda guerra mondiale. Ha fatto sorgere la
«questione comunista»: la questione di un partito comunista, che si
presentava in Occidente come forza fondante della Repubblica
antifascista, protagonista e difensore della Costituzione repubblicana,
presente in una trama di alleanze politiche democratiche, che il
contrattacco conservatore non è riuscito a cancellare. Tutto ciò ha
cambiato il discorso politico nel nostro Paese. Dare sviluppo coerente a
questa nostra strategia – come abbiamo fatto di fronte ai i fatti
polacchi – è l’esatto contrario di una rottura col nostro patrimonio:
significa riallacciarsi alle fonti della nostra vera forza, della nostra
fisionomia originale.
Anche il partito nuovo, promosso da Togliatti nel ’44, al suo ritorno
dall’esilio, è collegato a questa politica, che salda la democrazia al
socialismo. Non so dire se il partito nuovo fu uno «strappo». Certo esso
rappresentò un cambiamento radicale rispetto al modello del partito
staliniano. Esso indicava altro modo di intendere e di sviluppare
l’esperienza politica e la coscienza di classe. Che significa il fatto
che non abbiamo fatto più l’esame «ideologico» a chi chiedeva la tessera
del nostro Partito? E l’abbiamo chiamato ad entrare, anche se non
sapeva niente di marxismo? E abbiamo chiamato a lottare con noi il
cattolico che condivideva il nostro programma politico? E anzi, spesso
abbiamo sollecitato il giovane ancora acerbo, il lavoratore che era alle
prime esperienze politiche, l’intellettuale che veniva da una
formazione borghese a schierarsi, a militare, a combattere con noi?
Significa un partito che vuole crescere con la gente, nelle masse, anche
là dove la coscienza di classe è appena germinale, incerta. Significa
che non c’è una avanguardia prestabilita, separata dalle masse,
«eletta». Significa che una guida può e deve riformarsi continuamente
nel vivo delle esperienze del popolo e della classe operaia. Significa
infine invitare il partito a immergersi continuamente nel movimento
della società e della vita politica: per definire con la società, con le
sue forme politiche organizzate, con le culture attive in essa, gli
obiettivi, le tappe del cambiamento. Non abbiamo fatto esami al
militante, ma gli abbiamo chiesto molto di più che prendere una tessera:
gli abbiamo domandato un impegno quotidiano di partecipazione e di
lotta. Non solo il voto, non solo il consenso, ma la partecipazione.
Così, soprattutto così, siamo diventati forti.
Ma allora la nostra autentica «tradizione» è radicata in un bisogno
di democrazia: di democrazia di massa, di popolo che si organizza, di
operai e di lavoratori che vogliono contare «sin da ora». Contro
l’attesa. Contro la delega a chi sta in alto. Contro la lontananza e la
separatezza del potere.
È stato difficile? Ci sono stati errori, contraddizioni,
insufficienze? Sì. Ma la particolarità che reca con sé il nostro
partito, la sua originalità, l’innovazione che esso introduce nel
movimento operaio italiano e nella sua tradizione sta in questo bisogno
di una democrazia di massa, come forma e base del cambiamento sociale.
Si può discutere quanto c’è stato di utopico e di non realizzato nella
nostra domanda di un rapporto fra la vita delle istituzioni
rappresentative e la partecipazione delle masse. Si possono esaminare i
limiti dei consigli di gestione, o le debolezze che ebbero i «comitati
per la terra» nelle lotte degli anni ‘40 e ‘50. Si possono analizzare i
ritardi che abbiamo avuto nel capire e nell’orientare i movimenti
giovanili, studenteschi, femminili, o le insufficienze nell’impegno a
sostenere la nuova esperienza dei consigli di fabbrica della seconda
metà degli anni Sessanta. Ma è un fatto che questo tessuto democratico,
così travagliato e anche così ricco, è figlio di un’Italia in cui ha
agito con questa sua impronta, con questa tensione ideale, con il suo
bisogno di democrazia di massa, il Partito comunista italiano. Perciò
Gramsci non è stato un intellettuale isolato, e nemmeno una parentesi
nella vita del nostro partito e del nostro Paese.
Un cammino verso il socialismo, che gioca la carta di una presenza
così larga e molteplice di forze attive, non può essere compiuto sotto
una sola bandiera, dentro una unica organizzazione politica. Deve
coinvolgere e riconoscere una pluralità di posizioni politiche, di
culture, di matrici ideali. Richiede confronto, libertà, rischio nel
creare e nell’innovare. Deve imparare a governare democraticamente i
conflitti, non a soffocarli. Infine, e soprattutto, deve misurarsi con
le questioni sconvolgenti poste dalle armi atomiche; e ha bisogno come
il pane di lottare contro la guerra, di costruire le forme, i tempi, gli
equilibri per un tempo di pace.
Qui noi dovevamo andare oltre le idee stesse di Gramsci. La società
capitalistica in cui lottiamo è diventata ancora più complessa. Si sono
ulteriormente articolate le forme della organizzazione produttiva e
della vita sociale. Sono maturati bisogni di emancipazione da forze e
luoghi diversi da quelli tradizionali in cui maturò nel passato la
coscienza anticapitalistica. Nei grandi mutamenti che cominciarono con
l’Ottobre ’17 e hanno segnato questo secolo, ci sono state rivoluzioni e
conquiste sociali che non hanno avuto come protagonisti e come guida i
partiti comunisti. Dovevamo far finta che non era vero e predicare che
la «dottrina» vera sta nella nostra testa, anche là dove i comunisti
sbagliano e la classe operaia non si riconosce in essi? Non c’è nessun
decreto che garantisce che i comunisti saranno l’avanguardia della
rivoluzione sociale e del progresso. Lo saranno, se sapranno esserlo.
Anzi: lo saranno se sapranno capire e favorire anche il nuovo e la
creatività che matura da altre fonti, da altre culture, da altre
posizioni politiche. Perciò mi sembra profondamente giusto il nostro
rifiuto di vedere il mondo spaccato in due campi monolitici. Una tale
spaccatura indebolisce la nostra lotta, non la rafforza. Abbiamo visto
dall’esperienza che lo sviluppo del conflitto di classe non semplifica
la società, ma la complica, l’articola. Un progetto di cambiamento,
un’avanzata verso il socialismo deve sapere ricomporre questa società
articolata e frantumata. È la ricerca di oggi: la «terza via» da
costruire.
Ma questa ricerca non cade dal cielo, non spunta ora; è il contrario
di un arretramento dal socialismo; è cimentarsi con il tema del
socialismo oggi. Non stiamo affatto a sacrificare un patrimonio.
Lottiamo per farlo vivere. Sapendo bene, che questa è una sfida, è un
cimento. Sì. Nessuno di noi oggi può più pensare: anche se noi non ce la
facciamo, ci sono altri che ci pensano, che danno loro la risposta
all’avversario, che ci coprono le spalle.
Noi combattemmo duramente, negli anni ‘40 e ‘50, contro lo «slogan»
rozzo che diceva: «A da veni baffone?». Siamo diventati un grande
partito anche perché sapemmo condurre una lotta contro quelle posizioni
di attesa e di accodamento ad altri. Quello slogan allora era sbagliato:
oggi è impensabile, insostenibile. Anche questo ci ricorda che il
cimento della «terza via» in cui siamo impegnati è alto e duro. Perché
mai un tale cimento sarebbe «meno rivoluzionario»?
Avremo paura di questo cimento, per non fare torto al «padre»? In
verità, io non penso proprio che la storia del movimento operaio possa
essere racchiusa nel ricorso all’immagine semplicistica del padre e del
figlio. In ogni modo, guai quando il rapporto tra padre e figlio è di
obbedienza e di imitazione. È la vita che s’arresta. È la prova di una
infecondità del padre, o di una prepotenza che soffoca.
Discutiamone. Con rispetto reciproco. Senza paura del dissenso. Ma
rispettare il dissenso (e io sono tra quelli che spesso l’ha invocato)
significa discutere con chiarezza, a fondo. Non per mettere da pedanti i
punti sugli «i». Ma per capire ciò che c’é da fare, che non è poco.
Pietro Ingrao
Articolo pubblicato su L’Unità domenica 24 gennaio 1982
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