venerdì 7 novembre 2014

Fare la propria parte: Rosa Luxemburg e la disciplina della rivoluzione di Michele Cento e Roberta Ferrari

hier-ist-die-rose1-231x300Pubblichiamo l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e Rivoluzione di Rosa Luxemburg che ∫connessioni precarie ha organizzato lo scorso autunno. Il testo – che in realtà è più che un’introduzione perché tiene ampiamente conto della discussione seminariale – sarà seguito da un prossimo contributo su L’accumulazione del capitale. Queste riflessioni ‘guardano oltre le polemiche furiose che hanno caratterizzato la storia del movimento operaio. Esse non sono perciò un esercizio di storia del pensiero politico socialista’, ma intendono ‘rilevare e proporre alla discussione alcuni argomenti politici a partire da Rosa Luxemburg’. Ciò che ci interessa non sono le etichette, ‘ma l’attitudine di parte che ci sembra anche l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia’
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«Il più profondo spirito teorico del marxismo». Così, qualche anno dopo la sua scomparsa, il leader bolscevico Karl Radek ricorda Rosa Luxemburg. Radek è una delle tante figure di punta dell’Internazionale che non hanno lesinato parole di elogio per Luxemburg dopo la sua morte, benché in vita si sia trovato nella non invidiabile posizione di dover polemizzare con lei. Polemico è d’altronde il modo di Rosa Luxemburg di stare nel movimento operaio: esponente di spicco del partito socialdemocratico in Polonia, dove è nata, e poi della SPD – il partito socialdemocratico tedesco – una volta trasferitasi in Germania, interprete raffinata e originale di Marx, la sua attività teorica punta a sconfiggere l’opportunismo dei riformisti, a liquidare il purismo infantile degli estremisti e a spingere la classe operaia a liberarsi da se stessa. La polemica incarna per Luxemburg il mezzo discorsivo grazie al quale articolare il rapporto marxiano tra teoria e prassi: attraverso di essa afferma la priorità politica della domanda «perché e come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi»?
Questa domanda tiene insieme l’attività politica e intellettuale di Luxemburg, dai suoi primi interventi contro Eduard Bernstein, che aveva abbandonato ogni ipotesi rivoluzionaria sulla rassicurante via delle riforme, fino alle altezze teoriche di L’accumulazione del capitale, in cui individua il tallone d’Achille del capitalismo nel processo di riproduzione segnalando, al tempo stesso, l’ineluttabilità del suo crollo e la necessità di aggredirlo nei suoi punti deboli.
È una domanda che ci stimola a riflettere sulla necessità e le forme dell’organizzazione, cioè su come costruire un percorso organizzativo di classe situandosi al centro delle contraddizioni interne alle istituzioni esistenti, perché fuori da questo spazio la rivoluzione non può mai darsi completamente. Le riflessioni che seguono guardano oltre le polemiche furiose che hanno caratterizzato la storia del movimento operaio. Esse non sono perciò un esercizio di storia del pensiero politico socialista. Il nostro intento è quello di rilevare e di proporre alla discussione alcuni argomenti politici a partire da Rosa Luxemburg. La nostra è una riflessione di parte che non ci rende necessariamente luxemburghiani. Non ci interessano le etichette, ma l’attitudine di parte che ci sembra anche l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia. Così, una domanda classica del marxismo assume in Rosa Luxemburg un significato del tutto peculiare e quanto mai urgente. In primo luogo, perché ci permette di riflettere sul significato del «fare la propria parte», nel senso brechtiano del termine, che vuole richiamare l’enfasi luxemburghiana sulla centralità del soggetto nel processo rivoluzionario, ma anche il senso della sua polemica con Lenin. In secondo luogo, Rosa Luxemburg ci invita ad accantonare ogni formula preconfezionata, a non subire il fascino delle ricette da osteria dell’avvenire, perché ciò che apparentemente possiamo ottenere è solo una risposta provvisoria, da ricercarsi nelle contraddizioni del reale, con la sana avvertenza che le contraddizioni non possono essere ignorate o peggio cancellate, ma vanno maneggiate con cura. È in fondo questo il segreto della dialettica: l’incedere costante per opposizioni che, giunte alla sintesi, si ritrovano al tempo stesso unite e in lotta. Opposizioni che producono scarti, aperture impreviste che Luxemburg è ben attenta a non far collassare su se stesse, perché proprio questi scarti si rivelano politicamente produttivi in vista dello sbocco rivoluzionario. Con saggezza rivoluzionaria, Luxemburg è consapevole che un reale spogliato delle sue contraddizioni è anche un reale privo di conflitto. Contraddizioni che emergono nel processo di riproduzione del capitale così come nel movimento operaio e di fronte alle quali fare la propria parte vuol dire traghettarle alle ragioni della rivoluzione. La contraddizione diventa l’asse del suo discorso teorico e politico, essa non è solo un elemento funzionale al suo superamento dialettico, ma è carica di un elemento «conflittuale» che non si riduce alla sola lotta di classe.
Per pensiero dialettico si intende quindi un pensiero che non funziona seconda la logica «o – o» ma secondo la logica «e – e», dove però l’una e l’altra cosa non stanno insieme armonicamente, con lo stesso peso, senza asimmetrie. Non è cioè un «questo e anche quest’altro» ovvero un’ambivalenza, un’alternativa più o meno equilibrata e indifferente che spetta a un qualche ceto politico di militanti filosofi svelare nella sua efficacia. Vi è invece nel rapporto un momento dominante, determinante, ossia quel momento che nell’unità degli opposti risulta in concreto prevalente, decisivo. Questo momento per Luxemburg è senza dubbio la rivoluzione. Dire che riforma e rivoluzione sono in rapporto dialettico equivale a dire che la riforma non è pensabile senza la rivoluzione. La dialettica tra riforma e rivoluzione indica perciò un problema, non una soluzione, non è più il rapporto semplice tra le due ma il rapporto della riforma con se stessa riflesso mediante il rapporto con la rivoluzione.

Riforma, rivoluzione, movimento
La rivoluzione qui non è la manifestazione ultima della storia universale, ma l’esito temporaneo di una lotta di classe che di volta in volta si ridefinisce per spingere in avanti il processo rivoluzionario. La rivoluzione non è mai per Luxemburg un futuro prestabilito o da definirsi. È il problema del presente con cui bisogna confrontarsi costantemente, perché pensare di aver chiuso i conti con la rivoluzione ne sancirebbe la fine. Proprio perché declinata al presente, la rivoluzione richiede non una generica coscienza di classe, che nella misura in cui è generica ha nel futuro sempre un’opzione consolatoria, ma un processo di disciplinamento reale che passa anche attraverso la lotta per le riforme. Al tempo stesso, questo processo di disciplinamento impedisce che la riforma si sganci dal «nesso indissolubile» che secondo Luxemburg la lega alla rivoluzione. E non è un caso che scriva Riforma sociale o Rivoluzione proprio mentre, al netto dei suoi altisonanti proclami, la SPD abbia ormai nei fatti optato per la prima. Perfino in tempi bui invece, la lotta per la riforma sociale è per Luxemburg il mezzo, mentre la trasformazione della società è lo scopo. Non si tratta quindi di giustapporre i due termini, ma di istituire un nesso dialettico da mettere a valore al fine di tracciare un percorso organizzativo che, a partire dalle concrete condizioni sociali, produca uno spazio rivoluzionario. La concreta lotta parlamentare e sindacale per le «riforme» assume un significato peculiare se, come Rosa Luxemburg, ci sforziamo di non considerarla in se stessa ma nel movimento sempre aperto della rivoluzione. In questo senso, essa diventa «scuola di socialismo», o un «pezzo di socialismo», perché l’attività di riforma da un lato consente di costruire momenti di organizzazione, di migliorare le condizioni materiali del proletariato e di accumulare forza ai danni del capitale, ma, dall’altro, è momento formativo delle pratiche di classe, perché mostra alla classe operaia i limiti oltre i quali il sistema capitalistico non è riformabile (la legge del salario, il primato del profitto, le esigenze dell’accumulazione ecc.). Luxemburg non parla mai del socialismo come qualcosa di radicalmente diverso dall’esistente, una terra promessa da raggiungere, ma come una specifica condizione di possibilità, dove si può giocare il potere politico. In questo senso, la riforma è lo spazio di disciplinamento biopolitico della rivoluzione. La riforma è il luogo in cui gli operai smettono di pensarsi come operai. 
Questo è, potremmo dire, un uso di classe della riforma. La rivoluzione necessita di questo lavoro preparatorio effettuato dalla riforma, che però non sarà mai sufficiente a garantire al proletariato la conquista del potere politico. D’altra parte la riforma legale o la costituzione non hanno alcuna autonomia, alcun impulso proprio di fronte alla rivoluzione, vale a dire che la riforma sociale ha senso e ragion d’essere solo nel quadro del sovvertimento politico. Questi sono cioè «momenti diversi non di durata ma di essenza». Tuttavia, bisogna anche notare che in Luxemburg il problema della presa del potere non è un punto d’appiglio, la necessaria precipitazione del processo, come lo è per Lenin, ma è invece il processo stesso. Qui giocano un ruolo importante le teorie del crollo del capitalismo ma anche l’annoso dilemma tra organizzazione e spontaneismo. A dispetto della lettura che di Luxemburg a lungo è stata data, lei non ha dubbi sull’importanza del doppio tempo della lotta: tempo di accelerazione e tempo lungo della disciplina sono inseparabili. Contemporaneamente, lei non teorizza mai la presa del potere come momento di rovesciamento. Per lei la presa del potere politico è sempre un gesto processuale.
In altre parole, la rivoluzione rischia di avvenire sempre troppo presto, quando invece dovrebbe profilarsi come processo creativo, come fase suprema dell’organizzazione del proletariato, in cui non solo il movimento operaio assume una dimensione di massa, ma tra di esso e tra i suoi dirigenti si consolida una comune comprensione della politica di classe e si delinea la strada che porta all’emancipazione reale.
È questo suo specifico carattere sperimentale che assicura alla rivoluzione la progressione geometrica della sua dinamica e proprio per questo si costituisce come progetto sempre aperto. Un’apertura che è necessaria di fronte alla contraddittorietà intrinseca alla società capitalistica, all’ambiguità delle tendenze storiche del suo sviluppo. La rivoluzione appare così in grado di rivitalizzare e riscrivere la «costituzione» delle istituzioni della società borghese. Siano esse la democrazia, la rappresentanza, lo sciopero o il sindacato, la rivoluzione si incarica di risignificarle in un movimento non di riforma del sistema capitalistico ma di emancipazione reale della classe operaia. In questo senso, si potrebbe dire che anche la celebre affermazione bernsteiniana secondo cui il «movimento è tutto» viene travolta e al tempo stesso ridefinita dall’inarrestabile potenza dialettica della riflessione luxemburghiana. Il movimento non può essere tutto perché senza la rivoluzione il movimento non è che un meccanismo. I sindacati non possono abolire lo sfruttamento perché non possono abolire la legge del salario, il loro stadio avanzato si riduce alla difesa di ciò che è stato conseguito e non procede mai oltre, ma lo sciopero serve a fare i conti col capitale, a tendere la situazione fino al suo limite. Per Luxemburg l’attività sindacale è «un pur sempre indispensabile lavoro di Sisifo» e le cooperative mostrano l’impossibilità di ridefinire i rapporti di classe dentro la società capitalistica. La cooperativa si trova infatti costantemente di fronte al paradosso della sua natura, per cui è costretta a esercitare su di sé il ruolo dell’imprenditore. Non è per mancanza di disciplina, dice Luxemburg rivolta a Bernstein e ai molti socialisti inglesi di quegli anni, che la cooperativa è destinata o a trasformarsi o a sciogliersi, ma «per il naturale regime assoluto del capitale, che», scrive seccamente, «i lavoratori non sono evidentemente in grado di esercitare nei propri personali confronti». Il tentativo bernsteiniano di vedere nell’azione sindacale, legislativa e riformatrice un controllo della società, da lui definita «la classe lavoratrice in marcia», non è allora per Luxemburg che un’evidente mistificazione possibile solo «dopo aver così felicemente metamorfizzato lo Stato in società». Lo Stato odierno non è società se non nel senso di società capitalistica. I confini naturali della riforma sociale sono gli interessi del capitale, il controllo del processo di produzione. Non solo quindi scambiare la riforma per la rivoluzione significa non vedere questi confini ma vuol dire anche presumere un determinato sviluppo obiettivo tanto della proprietà capitalistica quanto dello Stato. Il miglioramento bernsteiniano, perciò, non è altro che normalizzazione dello sfruttamento capitalistico.
Infine ci sono due fattori che Luxemburg considera per mostrare i limiti della riforma sociale. Uno è l’impossibilità di costruire una catena ininterrotta di riforme sociali sempre crescenti – che ci sembra anche voler dire che non è pensabile progresso senza pensare la rivoluzione. Lo schema di Bernstein è pensabile solo se il presupposto è una paralisi dello sviluppo capitalistico. Il secondo fattore è che il punto di vista di classe o mira alla conquista del potere o è puro ostacolo, elemento descrittivo che si condanna a darsi sempre uguale a sé. Il progresso per Luxemburg si dà invece solo a balzi, per l’acuirsi delle contraddizioni del sistema capitalistico e grazie alla presa di coscienza, nel senso di disciplinamento, del proletariato della necessità del rivolgimento sociale.

Libertà è organizzazione: l’esperienza di classe
In questa concezione dialettica di riforma e rivoluzione, si avverte l’eco non solo della polemica con i revisionisti ma anche dello scontro con i bolscevichi. All’indomani della Rivoluzione sovietica, Rosa Luxemburg non si limita infatti a celebrare «l’affascinante esempio» fornito dai bolscevichi, ma osa una critica che a partire da alcune prese di posizione di Lenin (la mancata nazionalizzazione delle terre, il soffiare sul fuoco dei nazionalismi, la sospensione delle libertà borghesi) intende denunciare la cristallizzazione del processo rivoluzionario, mentre indica un’alternativa organizzativa al modello teorizzato da Lenin. Un’organizzazione in grado di coinvolgere anche le masse non organizzate. «Solo un partito che sappia dirigere» scrive Luxemburg in La rivoluzione russa, «vale a dire spingere avanti, è in grado di procurarsi seguaci nella tempesta».
Ci siamo già soffermati sul carattere aperto e sempre in moto che la rivoluzione ha per Rosa Luxemburg. Ci basti qui ribadire come per lei la preservazione di questo carattere acquisisca un’importanza maggiore una volta che la rivoluzione sia diventata non soltanto un problema, ma un fatto del presente: se i bolscevichi hanno dovuto realisticamente piegarsi alle ragioni della tattica per lo scopo rivoluzionario, il loro esempio resta affascinante ma non per questo tale da trasformarsi in un modello da rendere eterno. Il secondo punto riporta a galla, di nuovo, la diatriba tra l’idea leninista dei rivoluzionari di professione come avanguardia del proletariato e lo spontaneismo attribuito a Luxemburg.
Ci pare questa una lettura inadeguata a restituire la complessità di due ipotesi certamente diverse sul «come fare la rivoluzione», ma che non possono essere derubricate sotto categorie semplicistiche quali dirigismo/elitismo nel caso di Lenin e spontaneismo nel caso di Luxemburg. A Lenin occorre riconoscere una sensibilità politica per il sentire del proletariato che non va mai disgiunta da eccezionali doti organizzative. In altri termini ciò che rimane politicamente fondamentale del discorso leninista è la capacità di risolvere il problema della rivoluzione, ignorando tutte le soluzioni presenti e consolidate. Il realismo di Lenin sta tutto nella sua capacità politica di ripensare le coazioni della realtà, cercando ogni volta soluzioni non scontate e non dovute. Anche a partire da queste considerazioni la questione dello spontaneismo luxemburghiano va affrontata a nostro avviso nell’ottica di quel «fare la propria parte» che per Brecht, come abbiamo accennato all’inizio, mette in scena il senso profondo della politica di Lenin, Mi-en-leh, cui replica duramente il filosofo Sa, alias Rosa Luxemburg. Luxemburg aveva in effetti accusato la riforma agraria leninista di aver creato un nemico in più nelle campagne, alimentando la divisione della classe. Sotto forma di apologo, Brecht ci informa così che Mi-en-leh, una volta giunto al potere insieme ai fabbri produttori di aratri di ferro, espropria la terra ai contadini benestanti e la fraziona in piccoli appezzamenti di terra per i contadini poveri, i quali però sono ancora dotati di obsoleti aratri di legno e spesso non hanno neanche i cavalli necessari a trainarli. Pertanto, si ritrovano di nuovo a lavorare per i contadini benestanti. Il filosofo Sa attacca duramente Mi-en-leh, che «come tutti gli altri […] arrivato alla meta dimentica molte cose». Nel frattempo, cresce l’odio di classe dei contadini poveri verso quelli benestanti e Mi-en-leh fa di tutto per attizzarlo inviando nelle campagne i fabbri, i quali spiegano ai contadini poveri la necessità di mettere insieme i propri appezzamenti di terreno e al tempo stesso li riforniscono di moderni aratri di ferro. Così, in poco tempo i rapporti di forza nelle campagne si rovesciano, sicché Brecht può concludere che Mi-en-leh «aveva attuato il suo programma facendo la propria parte e lasciando che la natura facesse la propria». Non che Lenin si affidi alla «natura», né tanto meno abbia una visione unilineare della storia da potersi accontentare dell’ineluttabile progresso verso il socialismo che tanto piaceva a Kautsky. Lenin o, se preferite, Mi-en-leh, ci dice Brecht, ha fatto la sua parte «insegnando». Ai contadini spetta il compito di imparare. «Essi hanno ascoltato – precisa Mi-en-leh – ora fanno esperienza». L’organizzazione della classe per Lenin non consiste dunque solo nel momento direttivo, perché il proletariato deve «fare esperienza» sul terreno della lotta. È questa idiosincrasia per le formule preconfezionate che unisce i percorsi di Lenin e Luxemburg e che in definitiva la rende più interessante di molti suoi critici leninisti. Altrettanto fa l’accento posto sull’esperienza, ma con un importante distinguo. I due percorsi infatti si dividono perché per Rosa Luxemburg l’esperienza nella lotta di classe detiene un primato politico sul momento direttivo. Ma non perché lei sia una rivoluzionaria romantica che idealizza la spontaneità sovversiva delle masse, dal momento che, come afferma lucidamente, «la massa è sempre pronta a divenire qualcosa di totalmente diverso da quello che pare». E, allora? Come far sì che la massa diventi quello che «deve essere»? La massa presenta sempre una doppia natura: bestia incontenibile e schieramento inerte e timorato di Dio. È ciò che è stato chiamato il «negativo della moltitudine», ma che al tempo stesso intercetta uno strato di uomini e donne che vive ai margini della classe. Contro la sociologia che vorrebbe farne una classe senza forma, Luxemburg vede nella massa un insieme contraddittorio di soggettività dal cui scontro nasce la direzione politica. La massa diventa dunque luogo di un processo di disciplinamento, che per Luxemburg non si esaurisce nella forma partito. Per lei le masse devono essere chiamate a una partecipazione costante e cosciente alla lotta, devono fare cioè in prima persona la propria parte. Non bisogna dunque ingannarle, illuderle, pena ritrovarsi con una base rivoluzionaria inadeguata a un compito così alto. È nella lotta di classe che il proletariato chiarisce a se stesso gli scopi della sua azione, ma questa attività di chiarificazione vale anche per i quadri e i dirigenti del partito. Questi ultimi devono incanalare e guidare il potenziale rivoluzionario espresso dal proletariato, ma insieme ad esso devono «fare esperienza» nella lotta di classe, nel processo rivoluzionario. Ed è questa la parte, da attuare in simbiosi con quella del proletariato, che spetta alla dirigenza politica.
Questo aspetto emerge con particolare evidenza nel complesso passaggio sulla democrazia che troviamo in La rivoluzione russa. Già in Riforma sociale o Rivoluzione, Luxemburg aveva criticato la democrazia borghese, presupposto politico della teoria revisionista, per dire che è la democrazia a dipendere dal movimento socialista e non viceversa. La rinuncia al socialismo, alla presa del potere, si traduce pertanto in una rinuncia alla democrazia, provocando il soffocamento della sorgente vitale da cui passano le energie in grado di rideterminare le istituzioni nel senso della rivoluzione. Il destino della democrazia è per Luxemburg il destino del movimento operaio oppure è solo un concetto astratto.
L’errore della teoria leninista secondo Luxemburg è quello di contrapporre, in maniera rovesciata ma speculare a Kautsky, dittatura e democrazia. Torna la logica dialettica questa volta applicata al rapporto tra democrazia e dittatura, che può essere solo dittatura della classe e non del partito. Il partito per Luxemburg incarna la classe solo quando realizza concretamente la libertà della classe. Vale a dire che l’educazione politica delle masse popolari, non la direzione dall’alto, è l’elemento vitale, la sorgente dell’esperienza politica della dittatura proletaria. Torna ancora, come più volte in questo testo, il concetto di esperienza politica che, come detto sopra, noi riteniamo essere il modo migliore per spiegare il richiamo di Luxemburg alla spontaneità nell’organizzazione del movimento e del momento rivoluzionario. L’esperienza è il dato a partire dal quale e nel quale si producono soggettività (anche contraddittorie tra loro) e che va comunque superata. Nell’esperienza e nel suo superamento, che non è semplicemente “il dato” lineare e omogeneo, va pensata la libertà. Resta però aperto il problema della democrazia come processo disciplinare, che deve coinvolgere le masse perché questo le produce soggettivamente, ma deve anche dare loro qualcosa, la concretezza del potere politico.
Per capire i concetti di rivoluzione, democrazia, classe, dittatura e quindi di organizzazione in Luxemburg dobbiamo osservarli nella loro interazione costante e in riferimento alla libertà. La libertà per lei si pone inevitabilmente come problema che non c’è modo di risolvere nell’immediato né di semplificare. La libertà è sempre, scrive Luxemburg «libertà di chi la pensa diversamente» perché solo lungo questa strada, fatta di conflitto, di lotta, si arriva alla libertà politica. Qualsiasi scorciatoia, qualsiasi guida o avanguardia che per realizzare il giusto piano, di cui crede erroneamente di avere la ricetta in tasca, fa della libertà un privilegio è destinato a perdere. Con quel profondo spirito marxiano che le è stato riconosciuto, Luxemburg afferma che non poter conoscere il futuro è il vantaggio del socialismo scientifico sopra quello utopistico. Il sistema socialista, infatti, potrà essere soltanto un prodotto storico, nato dalla scuola storica dell’esperienza e della vita pubblica. La democrazia socialista, per lei, comincia quando ha inizio la demolizione di classe, al momento della conquista del potere. La dittatura di conseguenza «consiste nel sistema di applicazione della democrazia non nella sua abolizione». Democrazia non è qui l’esposizione su di un piano formale delle contraddizioni sociali. Ciò significherebbe solamente la loro neutralizzazione. Democrazia è lo spazio di intensificazione di quelle contraddizioni, quindi lo spazio di una lotta sul potere. Vediamo quindi che è impossibile comprendere fino in fondo i concetti luxemburghiani senza travisarne il senso se non li osserviamo nella loro interazione, nella totalità del discorso di Luxemburg. Impossibile definire dittatura senza la classe come impossibile è capire la democrazia senza la rivoluzione. Questa totalità è per Luxemburg innanzitutto l’esperienza e qui, è bene dirlo, si inserisce la sua critica. Lo dimostra il fatto che ella conclude La rivoluzione russa, e non per cerimonia, riconoscendo al bolscevismo il suo merito storico e affermando che ovunque l’avvenire gli appartiene perché suo è il problema non risolto come sua è l’esperienza politica e solo da questa può scaturire la capacità d’azione del proletariato, la volontà di potenza del socialismo. Questo dimostra anche che Luxemburg non è tra i difensori della libertà politica contro cui si scaglia Lenin in Che fare?, gli opportunisti, coloro che «insozzano» scrive Lenin, «la grande parola della libertà» per proporre le riforme che la affosseranno una volta per tutte. Per Luxemburg come per Lenin libertà è «libertà di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso» (Che fare?).

Classe e partito: note finali
Luxemburg è refrattaria a ogni imposizione dall’alto della forma organizzativa, che trova sterile e inadeguata a creare momenti rivoluzionari. La declinazione luxemburghiana del rapporto tra classe e partito, tra proletariato e la sua organizzazione politica ci sembra dunque riflettere il carattere sperimentale della rivoluzione di cui si è detto sopra. Anzi, tale declinazione si realizza al meglio solo grazie alla rivoluzione. Come quest’ultima ridefinisce pratiche e istituzioni del vecchio mondo capitalista, così «modifica per l’appunto il proletario, da padre di famiglia prudente che esige un sussidio, a “romantico della rivoluzione”, per cui persino il bene più alto, la vita, per tacere del benessere materiale, possiede un valore minimo in confronto dell’ideale di lotta». Ciò non può esimere il partito della classe operaia dallo svolgimento del suo compito, che è quello della «direzione politica» delle forme attraverso cui si realizza la rivoluzione. Tale direzione politica può a volte assumere un «significato tecnico», che comprende il «dare la parola d’ordine, l’indirizzo alla lotta, regolare la tattica della lotta politica». Nondimeno si rivela una direzione necessaria, proprio perché si fonde con lo spirito rivoluzionario della massa. Così, analizzando lo sciopero di massa del 1905 in Russia, Luxemburg scrive che né la forte disciplina, né l’entusiasmo spontaneo delle masse, possono da soli trasformare uno sciopero nell’incipit di un processo rivoluzionario. In altri termini, Luxemburg è consapevole delle insidie nascoste nell’organizzazione, se non altro perché le ha vissute sulla propria pelle militando in un partito caratterizzato da una forte impronta burocratica come la SPD. Al tempo stesso, è consapevole della necessità del momento organizzativo espresso dal partito, ma ne riconosce l’insufficienza. Il partito può essere organizzazione realmente rivoluzionaria solo se si ridefinisce, si modifica, si ristruttura nella lotta di classe in un rapporto dialettico e fecondo con le masse, che però ha il compito di guidare.
La dialettica tra partito e classe rimane dunque aperta ed è condizione fondamentale per evitare una cristallizzazione del processo rivoluzionario. Lotta, coscienza e organizzazione, (ovvero il processo di disciplinamento), devono dunque essere visti come momenti tutti necessari per la costruzione politica della classe, ma non devono essere posti in sequenza temporale, ma in rapporto dialettico. Come lo scarto tra riforma e rivoluzione anche lo scarto tra classe e partito resta aperto, perché il partito non è mai l’incarnazione statica e definitiva della classe e non può pensarsi senza di essa. Non riconoscere nell’organizzazione un problema implica il rischio di sottomettere allo scopo rivoluzionario le esigenze dell’organizzazione stessa e, di conseguenza, di far prevalere strutture gerarchiche e asfittiche. È questo il senso della polemica con i bolscevichi, il cui errore imperdonabile, nell’ottica di Luxemburg, è quello di aver tentato di chiudere i conti con la rivoluzione. Mettendo questo problema sul tavolo e riconoscendo a Rosa Luxemburg il merito di averlo trattato come tale, vorremmo chiudere ricordando come il «filosofo Sa» celebrasse la «più spietata autocritica» come momento formativo di primaria importanza. Una conclusione che è in realtà un auspicio.
La riflessione luxemburghiana ci consegna quindi una serie di problemi ancora aperti e un metodo per confrontarci con le contraddizioni che essi aprono. In primo luogo, la rivoluzione come problema del presente, che non vuol dire alimentare fantasie utopistiche su un reale che tutto è meno che rivoluzionario. Per noi significa piuttosto pensare al problema della rivoluzione in rapporto al problema dell’organizzazione, della lotta politica che si fa a partire dalle istituzioni esistenti e contro di esse. Se la rivoluzione è sempre un problema del presente, essa non può essere un singolo atto, ma è uno stato duraturo, che non significa banalmente che la rivoluzione debba essere permanente, e per questo ci inchioda a riflettere sui rapporti reali. In un certo senso, ci siamo chiesti allora se la rivoluzione è un problema del presente solo se viene pensata in rapporto dialettico alla riforma sociale. E, ancora, se pensare la rivoluzione al presente è teoricamente e politicamente vantaggioso, soprattutto nella misura in cui il tempo della rivoluzione ha determinate peculiarità: pur essendo un problema del presente, essa è destinata ad avvenire sempre troppo presto e ad appropriarsi delle potenzialità del futuro.
Connesso alla questione del tempo della rivoluzione, vi è il problema dell’alternativa organizzativa formulata da Luxemburg. Se la rivoluzione è sempre presente e non ha mai fine, in che senso può esserci organizzazione, che indica invece una forma salda, fissa, dell’agire politico? L’esperienza nella lotta di classe più volte evocata da Luxemburg è una risposta adeguata al problema della sclerosi organizzativa, che in effetti lei scorge fin dagli inizi della vicenda politica bolscevica? Dai giudizi di Luxemburg sui bolscevichi possiamo allora concludere che, a essere onesti, Stalin non può essere liquidato come un incidente di percorso, come per esempio i liberali fanno con il fascismo, ma come la risposta, brutale quanto si vuole, a un problema che sfugge a un concetto di rivoluzione che si vuole sempre aperta? In altri termini, l’idea di organizzazione proposta da Luxemburg è all’altezza del suo concetto di rivoluzione?
Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la democrazia. Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa superflua o addirittura di impaccio, al contrario per la classe operaia essa resta sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché sviluppa forme politiche che serviranno al proletariato come punti di partenza e di appoggio per la trasformazione della società»; imprescindibile: «perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti il proletariato può diventare cosciente dei propri interessi di classe e dei propri compiti storici». Ma la democrazia non può mai essere rappresentata, fermata, afferrata, come in una fotografia. Infatti, scrive L., «il faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche possiede un potente correttivo appunto nel vivente movimento delle masse, nella loro pressione ininterrotta».
La democrazia, come la rivoluzione, non può essere messa in stand-by, perché è l’azione del proletariato, ma non può neanche essere instaurata una volta per tutte. E qui sta il paradosso. La demolizione, aggiunge Luxemburg, la si può decretare, la costruzione la si può solo fare: «Terra vergine. Mille problemi». La democrazia si può solo esperire, imparare continuamente; essa è educazione politica, processo. La democrazia è rapporto sociale, è la forma di un problema, che è in fondo il problema del potere, problema che deve sempre essere tenuto vivo: essa è la sorgente vitale del conflitto, la lotta politica, la pressione ininterrotta e perciò incontenibile da qualsiasi forma istituzionale. Si tratta come per lo sciopero di massa di «un reale movimento popolare». Eppure resta aperto il problema della sua afferrabilità concreta. Essa compare come un lampo al centro del momento rivoluzionario e continua a dipendere sempre da quel momento.
Il paradosso è allora che la democrazia sembra continuare a sfuggire anche dopo, a comparire sotto forma di spettro, e sembra suggerire l’impossibilità di aggredire il potere anche una volta che lo si è conquistato, perché resta sempre viva una tensione tra disciplina e conflitto. Quello che Rosa fa è individuare il campo di tensione di questo paradosso che ci sembra assolutamente centrale anche per una riflessione presente.

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