Pubblichiamo
l’introduzione al seminario dedicato a Riforma e Rivoluzione di Rosa
Luxemburg che ∫connessioni precarie ha organizzato lo scorso autunno. Il
testo – che in realtà è più che un’introduzione perché tiene ampiamente
conto della discussione seminariale – sarà seguito da un prossimo
contributo su L’accumulazione del capitale. Queste riflessioni ‘guardano
oltre le polemiche furiose che hanno caratterizzato la storia del
movimento operaio. Esse non sono perciò un esercizio di storia del
pensiero politico socialista’, ma intendono ‘rilevare e proporre alla
discussione alcuni argomenti politici a partire da Rosa Luxemburg’. Ciò
che ci interessa non sono le etichette, ‘ma l’attitudine di parte che ci
sembra anche l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana, che
impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre
dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia’
***
«Il più profondo spirito teorico del
marxismo». Così, qualche anno dopo la sua scomparsa, il leader
bolscevico Karl Radek ricorda Rosa Luxemburg. Radek è una delle tante
figure di punta dell’Internazionale che non hanno lesinato parole di
elogio per Luxemburg dopo la sua morte, benché in vita si sia trovato
nella non invidiabile posizione di dover polemizzare con lei. Polemico è
d’altronde il modo di Rosa Luxemburg di stare nel movimento operaio:
esponente di spicco del partito socialdemocratico in Polonia, dove è
nata, e poi della SPD – il partito socialdemocratico tedesco – una volta
trasferitasi in Germania, interprete raffinata e originale di Marx, la
sua attività teorica punta a sconfiggere l’opportunismo dei riformisti, a
liquidare il purismo infantile degli estremisti e a spingere la classe
operaia a liberarsi da se stessa.
La polemica incarna per Luxemburg il mezzo discorsivo grazie al quale articolare il rapporto marxiano tra teoria e prassi:
attraverso di essa afferma la priorità politica della domanda «perché e
come arriveremo noi in generale alla meta finale dei nostri sforzi»?
Questa domanda tiene insieme l’attività
politica e intellettuale di Luxemburg, dai suoi primi interventi contro
Eduard Bernstein, che aveva abbandonato ogni ipotesi rivoluzionaria
sulla rassicurante via delle riforme, fino alle altezze teoriche di L’accumulazione del capitale,
in cui individua il tallone d’Achille del capitalismo nel processo di
riproduzione segnalando, al tempo stesso, l’ineluttabilità del suo
crollo e la necessità di aggredirlo nei suoi punti deboli.
È una domanda che ci stimola a riflettere sulla necessità e le forme dell’organizzazione,
cioè su come costruire un percorso organizzativo di classe situandosi
al centro delle contraddizioni interne alle istituzioni esistenti,
perché fuori da questo spazio la rivoluzione non può mai darsi
completamente. Le riflessioni che seguono guardano oltre le polemiche
furiose che hanno caratterizzato la storia del movimento operaio. Esse
non sono perciò un esercizio di storia del pensiero politico socialista.
Il nostro intento è quello di rilevare e di proporre alla discussione
alcuni argomenti politici a partire da Rosa Luxemburg. La nostra è una
riflessione di parte che non ci rende necessariamente luxemburghiani.
Non ci interessano le etichette, ma l’attitudine di parte che ci sembra
anche l’elemento più vivo della riflessione luxemburghiana, che impone di sovvertire l’ordine della società capitalistica senza astrarre dalle sue istituzioni ma affrontandole faccia a faccia.
Così, una domanda classica del marxismo assume in Rosa Luxemburg un
significato del tutto peculiare e quanto mai urgente. In primo luogo,
perché ci permette di riflettere sul significato del «fare la propria
parte», nel senso brechtiano del termine, che vuole richiamare l’enfasi
luxemburghiana sulla centralità del soggetto nel processo
rivoluzionario, ma anche il senso della sua polemica con Lenin. In
secondo luogo, Rosa Luxemburg ci invita ad accantonare ogni formula
preconfezionata, a non subire il fascino delle ricette da osteria
dell’avvenire, perché ciò che apparentemente possiamo ottenere è solo una
risposta provvisoria, da ricercarsi nelle contraddizioni del reale, con
la sana avvertenza che le contraddizioni non possono essere ignorate o
peggio cancellate, ma vanno maneggiate con cura. È in fondo
questo il segreto della dialettica: l’incedere costante per opposizioni
che, giunte alla sintesi, si ritrovano al tempo stesso unite e in lotta.
Opposizioni che producono scarti, aperture impreviste che Luxemburg è
ben attenta a non far collassare su se stesse, perché proprio questi
scarti si rivelano politicamente produttivi in vista dello sbocco
rivoluzionario. Con saggezza rivoluzionaria, Luxemburg è
consapevole che un reale spogliato delle sue contraddizioni è anche un
reale privo di conflitto. Contraddizioni che emergono nel
processo di riproduzione del capitale così come nel movimento operaio e
di fronte alle quali fare la propria parte vuol dire traghettarle alle
ragioni della rivoluzione. La contraddizione diventa l’asse del suo
discorso teorico e politico, essa non è solo un elemento funzionale al
suo superamento dialettico, ma è carica di un elemento «conflittuale»
che non si riduce alla sola lotta di classe.
Per pensiero dialettico si intende quindi un
pensiero che non funziona seconda la logica «o – o» ma secondo la
logica «e – e», dove però l’una e l’altra cosa non stanno insieme
armonicamente, con lo stesso peso, senza asimmetrie. Non è cioè un
«questo e anche quest’altro» ovvero un’ambivalenza, un’alternativa più o
meno equilibrata e indifferente che spetta a un qualche ceto politico
di militanti filosofi svelare nella sua efficacia. Vi è invece nel
rapporto un momento dominante, determinante, ossia quel momento che
nell’unità degli opposti risulta in concreto prevalente, decisivo.
Questo momento per Luxemburg è senza dubbio la rivoluzione. Dire che
riforma e rivoluzione sono in rapporto dialettico equivale a dire che la
riforma non è pensabile senza la rivoluzione. La dialettica tra
riforma e rivoluzione indica perciò un problema, non una soluzione, non
è più il rapporto semplice tra le due ma il rapporto della riforma con
se stessa riflesso mediante il rapporto con la rivoluzione.
Riforma, rivoluzione, movimento
La rivoluzione qui non è la manifestazione
ultima della storia universale, ma l’esito temporaneo di una lotta di
classe che di volta in volta si ridefinisce per spingere in avanti il
processo rivoluzionario. La rivoluzione non è mai per Luxemburg un
futuro prestabilito o da definirsi. È il problema del presente
con cui bisogna confrontarsi costantemente, perché pensare di aver
chiuso i conti con la rivoluzione ne sancirebbe la fine.
Proprio perché declinata al presente, la rivoluzione richiede non una
generica coscienza di classe, che nella misura in cui è generica ha nel
futuro sempre un’opzione consolatoria, ma un processo di disciplinamento
reale che passa anche attraverso la lotta per le riforme. Al tempo
stesso, questo processo di disciplinamento impedisce che la riforma si
sganci dal «nesso indissolubile» che secondo Luxemburg la lega alla
rivoluzione. E non è un caso che scriva Riforma sociale o Rivoluzione
proprio mentre, al netto dei suoi altisonanti proclami, la SPD abbia
ormai nei fatti optato per la prima. Perfino in tempi bui invece, la
lotta per la riforma sociale è per Luxemburg il mezzo, mentre la
trasformazione della società è lo scopo. Non si tratta quindi di
giustapporre i due termini, ma di istituire un nesso dialettico da
mettere a valore al fine di tracciare un percorso organizzativo che, a
partire dalle concrete condizioni sociali, produca uno spazio
rivoluzionario. La concreta lotta parlamentare e sindacale per le
«riforme» assume un significato peculiare se, come Rosa Luxemburg, ci
sforziamo di non considerarla in se stessa ma nel movimento sempre
aperto della rivoluzione. In questo senso, essa diventa «scuola di
socialismo», o un «pezzo di socialismo», perché l’attività di riforma da
un lato consente di costruire momenti di organizzazione, di migliorare
le condizioni materiali del proletariato e di accumulare forza ai danni
del capitale, ma, dall’altro, è momento formativo delle pratiche di
classe, perché mostra alla classe operaia i limiti oltre i quali il
sistema capitalistico non è riformabile (la legge del salario, il
primato del profitto, le esigenze dell’accumulazione ecc.). Luxemburg
non parla mai del socialismo come qualcosa di radicalmente diverso
dall’esistente, una terra promessa da raggiungere, ma come una specifica
condizione di possibilità, dove si può giocare il potere politico. In
questo senso, la riforma è lo spazio di disciplinamento biopolitico
della rivoluzione. La riforma è il luogo in cui gli operai smettono di
pensarsi come operai.
Questo è, potremmo dire, un uso di classe della riforma.
La rivoluzione necessita di questo lavoro preparatorio effettuato dalla
riforma, che però non sarà mai sufficiente a garantire al proletariato
la conquista del potere politico. D’altra parte la riforma legale o la
costituzione non hanno alcuna autonomia, alcun impulso proprio di fronte
alla rivoluzione, vale a dire che la riforma sociale ha senso e ragion d’essere solo nel quadro del sovvertimento politico. Questi sono cioè «momenti diversi non di durata ma di essenza». Tuttavia, bisogna anche notare che in Luxemburg il problema della presa
del potere non è un punto d’appiglio, la necessaria precipitazione del
processo, come lo è per Lenin, ma è invece il processo stesso. Qui
giocano un ruolo importante le teorie del crollo del capitalismo ma
anche l’annoso dilemma tra organizzazione e spontaneismo. A dispetto
della lettura che di Luxemburg a lungo è stata data, lei non ha dubbi
sull’importanza del doppio tempo della lotta: tempo di accelerazione e
tempo lungo della disciplina sono inseparabili. Contemporaneamente, lei
non teorizza mai la presa del potere come momento di rovesciamento. Per
lei la presa del potere politico è sempre un gesto processuale.
In altre parole, la rivoluzione rischia di
avvenire sempre troppo presto, quando invece dovrebbe profilarsi come
processo creativo, come fase suprema dell’organizzazione del
proletariato, in cui non solo il movimento operaio assume una dimensione
di massa, ma tra di esso e tra i suoi dirigenti si consolida una comune
comprensione della politica di classe e si delinea la strada che porta
all’emancipazione reale.
È questo suo specifico carattere
sperimentale che assicura alla rivoluzione la progressione geometrica
della sua dinamica e proprio per questo si costituisce come progetto
sempre aperto. Un’apertura che è necessaria di fronte alla
contraddittorietà intrinseca alla società capitalistica, all’ambiguità
delle tendenze storiche del suo sviluppo. La rivoluzione appare così in grado di rivitalizzare e riscrivere la «costituzione» delle istituzioni della società borghese.
Siano esse la democrazia, la rappresentanza, lo sciopero o il
sindacato, la rivoluzione si incarica di risignificarle in un movimento
non di riforma del sistema capitalistico ma di emancipazione reale della
classe operaia. In questo senso, si potrebbe dire che anche la celebre
affermazione bernsteiniana secondo cui il «movimento è tutto» viene
travolta e al tempo stesso ridefinita dall’inarrestabile potenza
dialettica della riflessione luxemburghiana. Il movimento non può essere tutto perché senza la rivoluzione il movimento non è che un meccanismo.
I sindacati non possono abolire lo sfruttamento perché non possono
abolire la legge del salario, il loro stadio avanzato si riduce alla
difesa di ciò che è stato conseguito e non procede mai oltre, ma lo
sciopero serve a fare i conti col capitale, a tendere la situazione fino
al suo limite. Per Luxemburg l’attività sindacale è «un pur sempre
indispensabile lavoro di Sisifo» e le cooperative mostrano
l’impossibilità di ridefinire i rapporti di classe dentro la società
capitalistica. La cooperativa si trova infatti costantemente di fronte
al paradosso della sua natura, per cui è costretta a esercitare su di sé
il ruolo dell’imprenditore. Non è per mancanza di disciplina, dice
Luxemburg rivolta a Bernstein e ai molti socialisti inglesi di quegli
anni, che la cooperativa è destinata o a trasformarsi o a sciogliersi,
ma «per il naturale regime assoluto del capitale, che», scrive
seccamente, «i lavoratori non sono evidentemente in grado di esercitare
nei propri personali confronti». Il tentativo bernsteiniano di vedere
nell’azione sindacale, legislativa e riformatrice un controllo della
società, da lui definita «la classe lavoratrice in marcia», non è allora
per Luxemburg che un’evidente mistificazione possibile solo «dopo aver
così felicemente metamorfizzato lo Stato in società». Lo Stato odierno
non è società se non nel senso di società capitalistica. I confini
naturali della riforma sociale sono gli interessi del capitale, il
controllo del processo di produzione. Non solo quindi scambiare la
riforma per la rivoluzione significa non vedere questi confini ma vuol
dire anche presumere un determinato sviluppo obiettivo tanto della
proprietà capitalistica quanto dello Stato. Il miglioramento
bernsteiniano, perciò, non è altro che normalizzazione dello
sfruttamento capitalistico.
Infine ci sono due fattori che Luxemburg considera per mostrare i limiti della riforma sociale. Uno è l’impossibilità
di costruire una catena ininterrotta di riforme sociali sempre
crescenti – che ci sembra anche voler dire che non è pensabile progresso
senza pensare la rivoluzione. Lo schema di Bernstein è
pensabile solo se il presupposto è una paralisi dello sviluppo
capitalistico. Il secondo fattore è che il punto di vista di
classe o mira alla conquista del potere o è puro ostacolo, elemento
descrittivo che si condanna a darsi sempre uguale a sé. Il
progresso per Luxemburg si dà invece solo a balzi, per l’acuirsi delle
contraddizioni del sistema capitalistico e grazie alla presa di
coscienza, nel senso di disciplinamento, del proletariato della
necessità del rivolgimento sociale.
Libertà è organizzazione: l’esperienza di classe
In questa concezione dialettica di riforma e
rivoluzione, si avverte l’eco non solo della polemica con i
revisionisti ma anche dello scontro con i bolscevichi. All’indomani
della Rivoluzione sovietica, Rosa Luxemburg non si limita infatti a
celebrare «l’affascinante esempio» fornito dai bolscevichi, ma osa una
critica che a partire da alcune prese di posizione di Lenin (la mancata
nazionalizzazione delle terre, il soffiare sul fuoco dei nazionalismi,
la sospensione delle libertà borghesi) intende denunciare la
cristallizzazione del processo rivoluzionario, mentre indica
un’alternativa organizzativa al modello teorizzato da Lenin.
Un’organizzazione in grado di coinvolgere anche le masse non
organizzate. «Solo un partito che sappia dirigere» scrive Luxemburg in La rivoluzione russa, «vale a dire spingere avanti, è in grado di procurarsi seguaci nella tempesta».
Ci siamo già soffermati sul carattere aperto
e sempre in moto che la rivoluzione ha per Rosa Luxemburg. Ci basti qui
ribadire come per lei la preservazione di questo carattere acquisisca
un’importanza maggiore una volta che la rivoluzione sia diventata non
soltanto un problema, ma un fatto del presente: se i bolscevichi hanno
dovuto realisticamente piegarsi alle ragioni della tattica per lo scopo
rivoluzionario, il loro esempio resta affascinante ma non per questo
tale da trasformarsi in un modello da rendere eterno. Il secondo punto
riporta a galla, di nuovo, la diatriba tra l’idea leninista dei
rivoluzionari di professione come avanguardia del proletariato e lo
spontaneismo attribuito a Luxemburg.
Ci pare questa una lettura inadeguata a
restituire la complessità di due ipotesi certamente diverse sul «come
fare la rivoluzione», ma che non possono essere derubricate sotto
categorie semplicistiche quali dirigismo/elitismo nel caso di Lenin e
spontaneismo nel caso di Luxemburg. A Lenin occorre riconoscere una
sensibilità politica per il sentire del proletariato che non va mai
disgiunta da eccezionali doti organizzative. In altri termini ciò che
rimane politicamente fondamentale del discorso leninista è la capacità
di risolvere il problema della rivoluzione, ignorando tutte le soluzioni
presenti e consolidate. Il realismo di Lenin sta tutto nella
sua capacità politica di ripensare le coazioni della realtà, cercando
ogni volta soluzioni non scontate e non dovute. Anche a partire
da queste considerazioni la questione dello spontaneismo luxemburghiano
va affrontata a nostro avviso nell’ottica di quel «fare la propria
parte» che per Brecht, come abbiamo accennato all’inizio, mette in scena
il senso profondo della politica di Lenin, Mi-en-leh, cui replica
duramente il filosofo Sa, alias Rosa Luxemburg. Luxemburg aveva in
effetti accusato la riforma agraria leninista di aver creato un nemico
in più nelle campagne, alimentando la divisione della classe. Sotto
forma di apologo, Brecht ci informa così che Mi-en-leh, una volta giunto
al potere insieme ai fabbri produttori di aratri di ferro, espropria la
terra ai contadini benestanti e la fraziona in piccoli appezzamenti di
terra per i contadini poveri, i quali però sono ancora dotati di
obsoleti aratri di legno e spesso non hanno neanche i cavalli necessari a
trainarli. Pertanto, si ritrovano di nuovo a lavorare per i contadini
benestanti. Il filosofo Sa attacca duramente Mi-en-leh, che «come tutti
gli altri […] arrivato alla meta dimentica molte cose». Nel frattempo,
cresce l’odio di classe dei contadini poveri verso quelli benestanti e
Mi-en-leh fa di tutto per attizzarlo inviando nelle campagne i fabbri, i
quali spiegano ai contadini poveri la necessità di mettere insieme i
propri appezzamenti di terreno e al tempo stesso li riforniscono di
moderni aratri di ferro. Così, in poco tempo i rapporti di forza nelle
campagne si rovesciano, sicché Brecht può concludere che Mi-en-leh
«aveva attuato il suo programma facendo la propria parte e lasciando che
la natura facesse la propria». Non che Lenin si affidi alla «natura»,
né tanto meno abbia una visione unilineare della storia da potersi
accontentare dell’ineluttabile progresso verso il socialismo che tanto
piaceva a Kautsky. Lenin o, se preferite, Mi-en-leh, ci dice Brecht, ha
fatto la sua parte «insegnando». Ai contadini spetta il compito di
imparare. «Essi hanno ascoltato – precisa Mi-en-leh – ora fanno
esperienza». L’organizzazione della classe per Lenin non consiste dunque
solo nel momento direttivo, perché il proletariato deve «fare
esperienza» sul terreno della lotta. È questa idiosincrasia per le formule preconfezionate che unisce i percorsi di Lenin e Luxemburg
e che in definitiva la rende più interessante di molti suoi critici
leninisti. Altrettanto fa l’accento posto sull’esperienza, ma con un
importante distinguo. I due percorsi infatti si dividono perché
per Rosa Luxemburg l’esperienza nella lotta di classe detiene un primato
politico sul momento direttivo. Ma non perché lei sia una
rivoluzionaria romantica che idealizza la spontaneità sovversiva delle
masse, dal momento che, come afferma lucidamente, «la massa è sempre
pronta a divenire qualcosa di totalmente diverso da quello che pare». E,
allora? Come far sì che la massa diventi quello che «deve essere»? La
massa presenta sempre una doppia natura: bestia incontenibile e
schieramento inerte e timorato di Dio. È ciò che è stato chiamato il
«negativo della moltitudine», ma che al tempo stesso intercetta uno
strato di uomini e donne che vive ai margini della classe. Contro la
sociologia che vorrebbe farne una classe senza forma, Luxemburg vede
nella massa un insieme contraddittorio di soggettività dal cui scontro
nasce la direzione politica. La massa diventa dunque luogo di un
processo di disciplinamento, che per Luxemburg non si esaurisce nella
forma partito. Per lei le masse devono essere chiamate a una
partecipazione costante e cosciente alla lotta, devono fare cioè in
prima persona la propria parte. Non bisogna dunque ingannarle,
illuderle, pena ritrovarsi con una base rivoluzionaria inadeguata a un
compito così alto. È nella lotta di classe che il proletariato chiarisce
a se stesso gli scopi della sua azione, ma questa attività di
chiarificazione vale anche per i quadri e i dirigenti del partito.
Questi ultimi devono incanalare e guidare il potenziale rivoluzionario
espresso dal proletariato, ma insieme ad esso devono «fare esperienza»
nella lotta di classe, nel processo rivoluzionario. Ed è questa la
parte, da attuare in simbiosi con quella del proletariato, che spetta
alla dirigenza politica.
Questo aspetto emerge con particolare evidenza nel complesso passaggio sulla democrazia che troviamo in La rivoluzione russa. Già in Riforma sociale o Rivoluzione,
Luxemburg aveva criticato la democrazia borghese, presupposto politico
della teoria revisionista, per dire che è la democrazia a dipendere dal
movimento socialista e non viceversa. La rinuncia al socialismo, alla
presa del potere, si traduce pertanto in una rinuncia alla democrazia,
provocando il soffocamento della sorgente vitale da cui passano le
energie in grado di rideterminare le istituzioni nel senso della
rivoluzione. Il destino della democrazia è per Luxemburg il destino del movimento operaio oppure è solo un concetto astratto.
L’errore
della teoria leninista secondo Luxemburg è quello di contrapporre, in
maniera rovesciata ma speculare a Kautsky, dittatura e democrazia. Torna
la logica dialettica questa volta applicata al rapporto tra democrazia e
dittatura, che può essere solo dittatura della classe e non del
partito. Il partito per Luxemburg incarna la classe solo quando realizza
concretamente la libertà della classe. Vale a dire che l’educazione
politica delle masse popolari, non la direzione dall’alto, è l’elemento
vitale, la sorgente dell’esperienza politica della dittatura proletaria.
Torna ancora, come più volte in questo testo, il concetto di esperienza
politica che, come detto sopra, noi riteniamo essere il modo migliore
per spiegare il richiamo di Luxemburg alla spontaneità
nell’organizzazione del movimento e del momento rivoluzionario.
L’esperienza è il dato a partire dal quale e nel quale si producono
soggettività (anche contraddittorie tra loro) e che va comunque
superata. Nell’esperienza e nel suo superamento, che non è semplicemente
“il dato” lineare e omogeneo, va pensata la libertà. Resta però aperto il problema della democrazia come
processo disciplinare, che deve coinvolgere le masse perché questo le
produce soggettivamente, ma deve anche dare loro qualcosa, la
concretezza del potere politico.
Per capire i concetti di rivoluzione,
democrazia, classe, dittatura e quindi di organizzazione in Luxemburg
dobbiamo osservarli nella loro interazione costante e in riferimento
alla libertà. La libertà per lei si pone inevitabilmente come problema
che non c’è modo di risolvere nell’immediato né di semplificare. La
libertà è sempre, scrive Luxemburg «libertà di chi la pensa
diversamente» perché solo lungo questa strada, fatta di conflitto, di
lotta, si arriva alla libertà politica. Qualsiasi scorciatoia, qualsiasi
guida o avanguardia che per realizzare il giusto piano, di cui crede
erroneamente di avere la ricetta in tasca, fa della libertà un
privilegio è destinato a perdere. Con quel profondo spirito
marxiano che le è stato riconosciuto, Luxemburg afferma che non poter
conoscere il futuro è il vantaggio del socialismo scientifico sopra
quello utopistico. Il sistema socialista, infatti, potrà essere soltanto
un prodotto storico, nato dalla scuola storica dell’esperienza e della
vita pubblica. La democrazia socialista, per lei, comincia quando ha
inizio la demolizione di classe, al momento della conquista del potere. La dittatura di conseguenza «consiste nel sistema di applicazione della democrazia non nella sua abolizione».
Democrazia non è qui l’esposizione su di un piano formale delle
contraddizioni sociali. Ciò significherebbe solamente la loro
neutralizzazione. Democrazia è lo spazio di intensificazione di quelle
contraddizioni, quindi lo spazio di una lotta sul potere. Vediamo quindi
che è impossibile comprendere fino in fondo i concetti luxemburghiani
senza travisarne il senso se non li osserviamo nella loro interazione,
nella totalità del discorso di Luxemburg. Impossibile definire dittatura
senza la classe come impossibile è capire la democrazia senza la
rivoluzione. Questa totalità è per Luxemburg innanzitutto l’esperienza e
qui, è bene dirlo, si inserisce la sua critica. Lo dimostra il fatto
che ella conclude La rivoluzione russa, e non per cerimonia,
riconoscendo al bolscevismo il suo merito storico e affermando che
ovunque l’avvenire gli appartiene perché suo è il problema non risolto
come sua è l’esperienza politica e solo da questa può scaturire la
capacità d’azione del proletariato, la volontà di potenza del
socialismo. Questo dimostra anche che Luxemburg non è tra i difensori
della libertà politica contro cui si scaglia Lenin in Che fare?,
gli opportunisti, coloro che «insozzano» scrive Lenin, «la grande
parola della libertà» per proporre le riforme che la affosseranno una
volta per tutte. Per Luxemburg come per Lenin libertà è «libertà di
combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si
incamminano verso di esso» (Che fare?).
Classe e partito: note finali
Luxemburg è refrattaria a ogni imposizione
dall’alto della forma organizzativa, che trova sterile e inadeguata a
creare momenti rivoluzionari. La declinazione luxemburghiana del
rapporto tra classe e partito, tra proletariato e la sua organizzazione
politica ci sembra dunque riflettere il carattere sperimentale della
rivoluzione di cui si è detto sopra. Anzi, tale declinazione si realizza
al meglio solo grazie alla rivoluzione. Come quest’ultima ridefinisce
pratiche e istituzioni del vecchio mondo capitalista, così «modifica per
l’appunto il proletario, da padre di famiglia prudente che esige un
sussidio, a “romantico della rivoluzione”, per cui persino il bene più
alto, la vita, per tacere del benessere materiale, possiede un valore
minimo in confronto dell’ideale di lotta». Ciò non può esimere il
partito della classe operaia dallo svolgimento del suo compito, che è
quello della «direzione politica» delle forme attraverso cui si realizza
la rivoluzione. Tale direzione politica può a volte assumere un
«significato tecnico», che comprende il «dare la parola d’ordine,
l’indirizzo alla lotta, regolare la tattica della lotta politica».
Nondimeno si rivela una direzione necessaria, proprio perché si fonde
con lo spirito rivoluzionario della massa. Così, analizzando lo sciopero
di massa del 1905 in Russia, Luxemburg scrive che né la forte
disciplina, né l’entusiasmo spontaneo delle masse, possono da soli
trasformare uno sciopero nell’incipit di un processo rivoluzionario. In
altri termini, Luxemburg è consapevole delle insidie nascoste
nell’organizzazione, se non altro perché le ha vissute sulla propria
pelle militando in un partito caratterizzato da una forte impronta
burocratica come la SPD. Al tempo stesso, è consapevole della necessità
del momento organizzativo espresso dal partito, ma ne riconosce
l’insufficienza. Il partito può essere organizzazione realmente
rivoluzionaria solo se si ridefinisce, si modifica, si ristruttura nella
lotta di classe in un rapporto dialettico e fecondo con le masse, che
però ha il compito di guidare.
La dialettica tra partito e classe rimane
dunque aperta ed è condizione fondamentale per evitare una
cristallizzazione del processo rivoluzionario. Lotta, coscienza e
organizzazione, (ovvero il processo di disciplinamento), devono dunque
essere visti come momenti tutti necessari per la costruzione politica
della classe, ma non devono essere posti in sequenza temporale, ma in
rapporto dialettico. Come lo scarto tra riforma e rivoluzione anche lo
scarto tra classe e partito resta aperto, perché il partito non è mai
l’incarnazione statica e definitiva della classe e non può pensarsi
senza di essa. Non riconoscere nell’organizzazione un problema implica
il rischio di sottomettere allo scopo rivoluzionario le esigenze
dell’organizzazione stessa e, di conseguenza, di far prevalere strutture
gerarchiche e asfittiche. È questo il senso della polemica con i
bolscevichi, il cui errore imperdonabile, nell’ottica di Luxemburg, è
quello di aver tentato di chiudere i conti con la rivoluzione. Mettendo
questo problema sul tavolo e riconoscendo a Rosa Luxemburg il merito di
averlo trattato come tale, vorremmo chiudere ricordando come il
«filosofo Sa» celebrasse la «più spietata autocritica» come momento
formativo di primaria importanza. Una conclusione che è in realtà un
auspicio.
La riflessione luxemburghiana ci consegna
quindi una serie di problemi ancora aperti e un metodo per confrontarci
con le contraddizioni che essi aprono. In primo luogo, la rivoluzione come problema del presente,
che non vuol dire alimentare fantasie utopistiche su un reale che tutto
è meno che rivoluzionario. Per noi significa piuttosto pensare al problema della rivoluzione in rapporto al problema dell’organizzazione,
della lotta politica che si fa a partire dalle istituzioni esistenti e
contro di esse. Se la rivoluzione è sempre un problema del presente,
essa non può essere un singolo atto, ma è uno stato duraturo, che non
significa banalmente che la rivoluzione debba essere permanente, e per
questo ci inchioda a riflettere sui rapporti reali. In un certo senso,
ci siamo chiesti allora se la rivoluzione è un problema del presente
solo se viene pensata in rapporto dialettico alla riforma sociale. E,
ancora, se pensare la rivoluzione al presente è teoricamente e
politicamente vantaggioso, soprattutto nella misura in cui il tempo
della rivoluzione ha determinate peculiarità: pur essendo un problema
del presente, essa è destinata ad avvenire sempre troppo presto e ad
appropriarsi delle potenzialità del futuro.
Connesso alla questione del tempo della rivoluzione, vi è il problema dell’alternativa organizzativa formulata da Luxemburg. Se
la rivoluzione è sempre presente e non ha mai fine, in che senso può
esserci organizzazione, che indica invece una forma salda, fissa,
dell’agire politico? L’esperienza nella lotta di classe più
volte evocata da Luxemburg è una risposta adeguata al problema della
sclerosi organizzativa, che in effetti lei scorge fin dagli inizi della
vicenda politica bolscevica? Dai giudizi di Luxemburg sui bolscevichi
possiamo allora concludere che, a essere onesti, Stalin non può essere
liquidato come un incidente di percorso, come per esempio i liberali
fanno con il fascismo, ma come la risposta, brutale quanto si vuole, a
un problema che sfugge a un concetto di rivoluzione che si vuole sempre
aperta? In altri termini, l’idea di organizzazione proposta da Luxemburg è all’altezza del suo concetto di rivoluzione?
Un altro punto interessante della riflessione luxemburghiana riguarda la democrazia.
Per la borghesia, scrive Luxemburg, la democrazia diventa superflua o
addirittura di impaccio, al contrario per la classe operaia essa resta
sempre «necessaria e imprescindibile». Necessaria: «perché sviluppa
forme politiche che serviranno al proletariato come punti di partenza e
di appoggio per la trasformazione della società»; imprescindibile:
«perché solo in essa, nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei
suoi diritti il proletariato può diventare cosciente dei propri
interessi di classe e dei propri compiti storici». Ma la democrazia non
può mai essere rappresentata, fermata, afferrata, come in una
fotografia. Infatti, scrive L., «il faticoso meccanismo delle
istituzioni democratiche possiede un potente correttivo appunto nel
vivente movimento delle masse, nella loro pressione ininterrotta».
La democrazia, come la rivoluzione, non può essere messa in stand-by,
perché è l’azione del proletariato, ma non può neanche essere
instaurata una volta per tutte. E qui sta il paradosso. La demolizione,
aggiunge Luxemburg, la si può decretare, la costruzione la si può solo
fare: «Terra vergine. Mille problemi». La democrazia si può solo
esperire, imparare continuamente; essa è educazione politica, processo. La
democrazia è rapporto sociale, è la forma di un problema, che è in
fondo il problema del potere, problema che deve sempre essere tenuto
vivo: essa è la sorgente vitale del conflitto, la lotta
politica, la pressione ininterrotta e perciò incontenibile da qualsiasi
forma istituzionale. Si tratta come per lo sciopero di massa di «un
reale movimento popolare». Eppure resta aperto il problema della sua
afferrabilità concreta. Essa compare come un lampo al centro del momento
rivoluzionario e continua a dipendere sempre da quel momento.
Il paradosso è allora che la
democrazia sembra continuare a sfuggire anche dopo, a comparire sotto
forma di spettro, e sembra suggerire l’impossibilità di aggredire il
potere anche una volta che lo si è conquistato, perché resta
sempre viva una tensione tra disciplina e conflitto. Quello che Rosa fa è
individuare il campo di tensione di questo paradosso che ci sembra
assolutamente centrale anche per una riflessione presente.
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