Ha fatto bene il manifesto a pubblicare il discorso in memoria
di Pietro Ingrao — un testo breve ma denso di implicazioni —
pronunciato da Alfredo Reichlin in piazza Montecitorio.
Colpisce in primo luogo il
riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista
e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di
strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme
di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della
classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea
gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del
«soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della
consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col
mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della
società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione
e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile.
Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del
dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più
interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività.
E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio,
insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non
sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati
dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra
antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea
di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava
un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola
avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato
della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei
soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità
ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due
tra le principali cause della sconfitta storica del movimento
comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica
è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura
per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione
indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione
del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente
agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla
seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la
struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle
maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in
partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini
elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico
scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano
a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio
e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno
la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la
sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità
tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della
sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla
sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel
gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione
pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della
rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel
lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale
e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa
del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce
forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di
stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione
di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della
mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra
italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale,
che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli
storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su
quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler
dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne
travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia
anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le
responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel
passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese,
invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo
stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa.
La consapevolezza della portata della svolta conservatrice
e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la
proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli
anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento
neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va
ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel
valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso,
dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno
è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze. La vicenda
dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si
comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi
formulato sulla mondializzazione neoliberista fu
clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla
mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate
dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno
delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito
a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del
paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle
garanzie democratiche. E del resto lo stesso Reichlin pare
riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le
forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la
storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui
Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.
Nessun commento:
Posta un commento