tratto da fatelargo.tk
Come ogni estate le zone di intervento delle Brigate di Solidarietà Attiva aumentano e le fila dell’associazione si ingrossano. La formula è quella di sempre, autogestione, orizzontalità, rifiuto della delega, ma non smette di funzionare.
Tre anni dopo l’Aquila è ancora quello di cui i compagni hanno bisogno.
In primo luogo di ritrovare un significato “altro” del chiamarsi compagni.
L’opportunità di poterlo fare, forse per la prima volta, intendendo “chi mi sta affianco, chi condivide con me la fatica e il sudore” sia che si tratti di un camion da scaricare che di una importantissima assemblea alle due di notte.
Un discorso di affinità, prioritario e diverso rispetto al “compagno” di filone ideologico, di sigla partitica, di centro sociale.
E poi la sempre rinnovata sorpresa che la nostra autogestione funziona, in mezzo al caos in cui versano le più potenti e finanziate macchine statali e cattoliche.
E funziona proprio perchè è libera e paritaria, nessuno da ordini ma nessun compito rimane non svolto. Una certezza teorica granitica, ma vederla dispiegarsi in tutto il suo splendido potenziale fa un altro effetto.
L’orgoglio di rispondere ad ogni divisa che si avvicendava allo spaccio popolare di Cavezzo:
“qui non ci sono capi campo, può parlare con chiunque di noi.”
E poterselo permettere perchè SI, siamo noi che stiamo raccogliendo tutto quel materiale donato da ogni parte d’Italia e lo stiamo distribuendo capillarmente anche fuori dai campi organizzati come nemmeno la protezione civile riesce, tant’è che vi ha rinunciato.
Il senso di comunità, quella “casa comune” della “sinistra” sfilacciata di cui da almeno due decenni si va vagheggiando in teoria, e che solo sul terreno della lotta pratica può divenire realtà.
Anche questo avviene puntualmente ad ogni progetto Bsa: Compagni dal Veneto e dal Piemonte, dalla Lombardia e dall’Emilia, dalla Toscana e dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Puglia, dalla Calabria.
Persone che si erano allontanate dalla politica militante delle zone di provenienza per disgusto, persone che riescono a mettere da parte i delicati equilibri politici di cui invece fanno parte appieno a “casa” e ritrovano, nelle differenze, il gusto e il senso di fare politica militante assieme, nella pratica, senza etichette.
Persone che a “casa” sono soffocate da gerarchie e curriculum vitae fossilizzati, che nella nuova “casa politica dei briganti” trovano almeno temporaneamente spazio e libertà di espressione, e spesso diventano cardini insostituibili per la buona riuscita del lavoro sul campo, proprio perchè non essendoci capi, ognuno trova naturalmente il suo posto.
La capacità, nonostante o forse grazie a questa natura spavaldamente variegata, di intervenire ovunque interfacciandosi e collaborando con i soggetti più disparati, sempre nell’interesse del progetto politico. Associazioni antirazziste, partiti, sindacati, associazioni cattoliche, centri sociali, collettivi. Un soggetto aperto verso l’esterno senza perdere niente in fedeltà ai capisaldi di organizzazione interna e di coerenza e responsabilità verso la pratica politica.
I briganti quest’estate sono nell’Emilia terremotata, a Cavezzo e a Fossoli, dov’è nata la “Libera repubblica”. Sostenendo le esperienze autogestionarie che da sole sorgono in mezzo all’emergenza, portando tutta l’esperienza dell’intervento nel terremoto in Abruzzo senza pretendere di replicarlo, ma anzi facendo dell’adattamento e della valorizzazione delle forze locali la pratica quotidiana. Unire la distribuzione di beni di prima necessità (lo spaccio popolare “Silvio Corbari” di Cavezzo e le quotidiane “volanti rosse” di distribuzione) con la sensibilizzazione politica alla gestione dell’emergenza, allecause tenute fuori dal discorso mediatico (come mai molte degli edifici crollati sono di nuovissima costruzione? Perchè chi ha costruito massicciamente negli ultimi anni possiede molte migliaia di appartamenti sfitti? Saranno sempre loro a ricostruire? E come lo faranno?) ed infine l’attenzione e la partecipazione dal basso alla ricostruzione. Perchè non finisca come all’Aquila, “Ricostruiamo la Bassa dal Basso”, come rivendica la popolazione Emiliana.
Lo stiamo facendo non da corpi estranei al tessuto sociale, ma dando forza ed eco ai comitati locali che si stanno impegnando in questa direzione, che è anche la nostra.
Sono a Foggia, dove si cerca di riprodurre quanto fatto a Nardò negli anni passati, innestandosi su un lavoro locale che va avanti da 5 anni. Una situazione di sfruttamento dalle dimensioni immense (18.000 braccianti in un’area vastissima) controllata da organizzazioni mafiose extraregionali (Campania) e molto sfaccettata.
La scuola di Italiano, lo sportello legale, assemblee e una radio autorganizzata dai braccianti sono i mezzi con cui iniziare un complesso percorso sui diritti e le condizioni di lavoro a partire dal “Ghetto”, il principale insediamento di braccianti (circa 800) presso S.Severo, per poi cercare di spostare l’intervento anche nel resto della Capitanata e a San Gervasio, con staffette quotidiane.
Sono a Nardò, cercando di evitare che il lavoro fatto in questi anni risulti tutto sprecato, spazzato via dalla complicità che si nasconde sotto le dichiarazioni d’intenti delle istituzioni e dall’intervento dell’associazionismo assistenzialista, un lavoro di monitoraggio “low profile” sulle condizioni dei lavoratori e la ripresa del caporalato dopo lo sciopero dell’anno scorso el’inchiesta di Maggio, stando ben attenti a non farsi “risucchiare” dalle istituzioni in altro che non sia la campagna “Ingaggiami contro il lavoro nero” con la quale siamo sempre intervenuti a Nardò.
Gli interventi in Puglia sono parte di un lavoro sulla filiera dei prodotti agricoli dalla raccolta fino alla grande distribuzione che durante l’anno ha significato entrare in contatto con numerose “reti”, dalla Puglia a Rosarno, che si occupano del tema, ma anche seguire le lotte all’interno delle cooperative della logistica al nord (Esselunga di Pioltello) nel quadro generale di un approccio politico che vede nel lavoro bracciantile solo l’aspetto più cruento e palese di uno sfruttamento connaturato alla struttura del capitale.
Un progetto nazionale che dura tutto l’anno, e che si affianca alle libere iniziative delle varie brigate sui territori, che in autonomia continuano le loro pratiche politiche locali.
A mio parere le Bsa sono un formidabile tentativo di dare forma a quanto lucidamente prescritto da
Colin Ward, urbanista anarchico recentemente scomparso, docente alla London school of economics:
“La rivoluzione non dev’essere un momento insurrezionale con cui prendere il potere, situato in alto, e modificare la società. Rivoluzione dev’essere invece allargare dal basso le esperienze autogestionarie, contropotere, fino a farle diventare la “società” tutta, la cui gestione dall’alto sarà poi svuotata di significato dal cambiamento strutturale della società stessa.”
Sporcandosi le mani di compromessi e di quella realtà troppo spesso distante dai discorsi, dalle teorizzazioni, che si vanno facendo durante tutto l’anno di “militanza politica” all’interno dei movimenti sociali, dei partiti, delle associazioni.
“Ogni generazione deve porsi un obiettivo rivoluzionario da essa raggiungibile, non infinitamente distante, fino a diventare utopico.”
Le Brigate di Solidarietà Attiva sono giovani ma crescono di lotta in lotta, all’insegna del motto “prima fare poi parlare”.
E la cosa migliore è che non è un marchio registrato, ma una pratica.
Usatela, con qualsiasi nome.
Come ogni estate le zone di intervento delle Brigate di Solidarietà Attiva aumentano e le fila dell’associazione si ingrossano. La formula è quella di sempre, autogestione, orizzontalità, rifiuto della delega, ma non smette di funzionare.
Tre anni dopo l’Aquila è ancora quello di cui i compagni hanno bisogno.
In primo luogo di ritrovare un significato “altro” del chiamarsi compagni.
L’opportunità di poterlo fare, forse per la prima volta, intendendo “chi mi sta affianco, chi condivide con me la fatica e il sudore” sia che si tratti di un camion da scaricare che di una importantissima assemblea alle due di notte.
Un discorso di affinità, prioritario e diverso rispetto al “compagno” di filone ideologico, di sigla partitica, di centro sociale.
E poi la sempre rinnovata sorpresa che la nostra autogestione funziona, in mezzo al caos in cui versano le più potenti e finanziate macchine statali e cattoliche.
E funziona proprio perchè è libera e paritaria, nessuno da ordini ma nessun compito rimane non svolto. Una certezza teorica granitica, ma vederla dispiegarsi in tutto il suo splendido potenziale fa un altro effetto.
L’orgoglio di rispondere ad ogni divisa che si avvicendava allo spaccio popolare di Cavezzo:
“qui non ci sono capi campo, può parlare con chiunque di noi.”
E poterselo permettere perchè SI, siamo noi che stiamo raccogliendo tutto quel materiale donato da ogni parte d’Italia e lo stiamo distribuendo capillarmente anche fuori dai campi organizzati come nemmeno la protezione civile riesce, tant’è che vi ha rinunciato.
Il senso di comunità, quella “casa comune” della “sinistra” sfilacciata di cui da almeno due decenni si va vagheggiando in teoria, e che solo sul terreno della lotta pratica può divenire realtà.
Anche questo avviene puntualmente ad ogni progetto Bsa: Compagni dal Veneto e dal Piemonte, dalla Lombardia e dall’Emilia, dalla Toscana e dal Lazio, dall’Abruzzo, dalla Campania, dalla Puglia, dalla Calabria.
Persone che si erano allontanate dalla politica militante delle zone di provenienza per disgusto, persone che riescono a mettere da parte i delicati equilibri politici di cui invece fanno parte appieno a “casa” e ritrovano, nelle differenze, il gusto e il senso di fare politica militante assieme, nella pratica, senza etichette.
Persone che a “casa” sono soffocate da gerarchie e curriculum vitae fossilizzati, che nella nuova “casa politica dei briganti” trovano almeno temporaneamente spazio e libertà di espressione, e spesso diventano cardini insostituibili per la buona riuscita del lavoro sul campo, proprio perchè non essendoci capi, ognuno trova naturalmente il suo posto.
La capacità, nonostante o forse grazie a questa natura spavaldamente variegata, di intervenire ovunque interfacciandosi e collaborando con i soggetti più disparati, sempre nell’interesse del progetto politico. Associazioni antirazziste, partiti, sindacati, associazioni cattoliche, centri sociali, collettivi. Un soggetto aperto verso l’esterno senza perdere niente in fedeltà ai capisaldi di organizzazione interna e di coerenza e responsabilità verso la pratica politica.
I briganti quest’estate sono nell’Emilia terremotata, a Cavezzo e a Fossoli, dov’è nata la “Libera repubblica”. Sostenendo le esperienze autogestionarie che da sole sorgono in mezzo all’emergenza, portando tutta l’esperienza dell’intervento nel terremoto in Abruzzo senza pretendere di replicarlo, ma anzi facendo dell’adattamento e della valorizzazione delle forze locali la pratica quotidiana. Unire la distribuzione di beni di prima necessità (lo spaccio popolare “Silvio Corbari” di Cavezzo e le quotidiane “volanti rosse” di distribuzione) con la sensibilizzazione politica alla gestione dell’emergenza, allecause tenute fuori dal discorso mediatico (come mai molte degli edifici crollati sono di nuovissima costruzione? Perchè chi ha costruito massicciamente negli ultimi anni possiede molte migliaia di appartamenti sfitti? Saranno sempre loro a ricostruire? E come lo faranno?) ed infine l’attenzione e la partecipazione dal basso alla ricostruzione. Perchè non finisca come all’Aquila, “Ricostruiamo la Bassa dal Basso”, come rivendica la popolazione Emiliana.
Lo stiamo facendo non da corpi estranei al tessuto sociale, ma dando forza ed eco ai comitati locali che si stanno impegnando in questa direzione, che è anche la nostra.
Sono a Foggia, dove si cerca di riprodurre quanto fatto a Nardò negli anni passati, innestandosi su un lavoro locale che va avanti da 5 anni. Una situazione di sfruttamento dalle dimensioni immense (18.000 braccianti in un’area vastissima) controllata da organizzazioni mafiose extraregionali (Campania) e molto sfaccettata.
La scuola di Italiano, lo sportello legale, assemblee e una radio autorganizzata dai braccianti sono i mezzi con cui iniziare un complesso percorso sui diritti e le condizioni di lavoro a partire dal “Ghetto”, il principale insediamento di braccianti (circa 800) presso S.Severo, per poi cercare di spostare l’intervento anche nel resto della Capitanata e a San Gervasio, con staffette quotidiane.
Sono a Nardò, cercando di evitare che il lavoro fatto in questi anni risulti tutto sprecato, spazzato via dalla complicità che si nasconde sotto le dichiarazioni d’intenti delle istituzioni e dall’intervento dell’associazionismo assistenzialista, un lavoro di monitoraggio “low profile” sulle condizioni dei lavoratori e la ripresa del caporalato dopo lo sciopero dell’anno scorso el’inchiesta di Maggio, stando ben attenti a non farsi “risucchiare” dalle istituzioni in altro che non sia la campagna “Ingaggiami contro il lavoro nero” con la quale siamo sempre intervenuti a Nardò.
Gli interventi in Puglia sono parte di un lavoro sulla filiera dei prodotti agricoli dalla raccolta fino alla grande distribuzione che durante l’anno ha significato entrare in contatto con numerose “reti”, dalla Puglia a Rosarno, che si occupano del tema, ma anche seguire le lotte all’interno delle cooperative della logistica al nord (Esselunga di Pioltello) nel quadro generale di un approccio politico che vede nel lavoro bracciantile solo l’aspetto più cruento e palese di uno sfruttamento connaturato alla struttura del capitale.
Un progetto nazionale che dura tutto l’anno, e che si affianca alle libere iniziative delle varie brigate sui territori, che in autonomia continuano le loro pratiche politiche locali.
A mio parere le Bsa sono un formidabile tentativo di dare forma a quanto lucidamente prescritto da
Colin Ward, urbanista anarchico recentemente scomparso, docente alla London school of economics:
“La rivoluzione non dev’essere un momento insurrezionale con cui prendere il potere, situato in alto, e modificare la società. Rivoluzione dev’essere invece allargare dal basso le esperienze autogestionarie, contropotere, fino a farle diventare la “società” tutta, la cui gestione dall’alto sarà poi svuotata di significato dal cambiamento strutturale della società stessa.”
Sporcandosi le mani di compromessi e di quella realtà troppo spesso distante dai discorsi, dalle teorizzazioni, che si vanno facendo durante tutto l’anno di “militanza politica” all’interno dei movimenti sociali, dei partiti, delle associazioni.
“Ogni generazione deve porsi un obiettivo rivoluzionario da essa raggiungibile, non infinitamente distante, fino a diventare utopico.”
Le Brigate di Solidarietà Attiva sono giovani ma crescono di lotta in lotta, all’insegna del motto “prima fare poi parlare”.
E la cosa migliore è che non è un marchio registrato, ma una pratica.
Usatela, con qualsiasi nome.
Victor Kibalcic
http://www.fatelargo.tk/
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