«Fabbrica Italia» è un concetto superato. Tanto è vero - precisa il comunicato della Fiat giocando sfrontatamente sulle parole come se le sue azioni non avessero alcuna conseguenza sulla vita di migliaia di persone - che questa “dizione” non viene più usata già da un anno. Così, con poche righe su carta intestata, viene messa una pietra tombale sul mega progetto annunciato nel 2010 con un possente dispiegamento mediatico.
È
doveroso, a questo punto, rendere giustizia alla Fiom, soprattutto da
parte di chi continua ad attaccarla come espressione di un
tardosindacalismo estremista e retrogrado, che sin dall’inizio aveva
capito il bluff di Sergio Marchionne: non aveva fondamento, nella
strategia di internazionalizzazione del gruppo Fiat impostata sulla
caccia agli incentivi pubblici globali, l’annuncio di un piano che in
Italia prevedeva 20 miliardi di investimenti entro il 2014, il raddoppio
della produzione fino a 1,4 milioni di auto l’anno, di cui il 65 per
cento destinato all’esportazione.
Adesso che la Fiat si è internazionalizzata, spostando il baricentro in Usa con i soldi degli operai della Chrysler e dei contribuenti americani messi a disposizione da Obama, e che in Europa ha fatto affidamento sui finanziamenti del governo serbo, Marchionne ed Elkann fanno sapere che le condizioni di mercato sono cambiate, e che «Fabbrica Italia» non era un impegno. Era dunque una chiacchiera, un ballon d’essai, nell’ipotesi migliore una clamorosa svista di un gruppo finanziario che comunque si è dimostrato inaffidabile.
Come del resto provano, dopo l’annuncio trionfalistico del 2010 quando la crisi globale non era affatto spenta, la chiusura di Termini Imerese, la liquidazione di Iribus, il ricorso massiccio alla Cassa integrazione in tutti gli stabilimenti, da Mirafiori a Cassino, a Melfi e Pomigliano. Siamo tornati ai livelli produttivi degli anni 70. Ma il fatto è che dentro una crisi di sovraproduzione che impone una radicale ristrutturazione dell’intero comparto, la Fiat si è comportata peggio degli altri produttori continuando a perdere rilevanti quote di mercato. Al punto tale che oggi è messa in discussione l’esistenza stessa dell’industria automobilistica e dei trasporti in questo Paese.
È la conferma inconfutabile che la Fiom aveva ed ha ragione, quando sostiene che dalla crisi dell’auto si può uscire non certo giocando al ribasso sui salari e sulla menomazione dei diritti, ma solo puntando in alto: sull’innovazione scientifica e tecnologica, su nuovi modelli ecocompatibili e più in generale su un diverso sistema di mobilità integrata, che superi la centralità assoluta del trasporto individuale su gomma, e che perciò ha bisogno di una visione strategica e di una programmazione pubblica.
Il contrario di ciò che ha fatto la Fiat e di ciò che sta facendo il governo, che nella sua immobilità di fronte allo sfacelo delle attività produttive sembra non voglia fare neanche il guardiano notturno, per impedire che ci scippino tutti i gioielli di famiglia. A Marchionne è stato concesso di cambiare radicalmente le relazioni sindacali in fabbrica e di cacciare - fatto inaudito in una democrazia come la nostra fondata sul lavoro - il sindacato maggiormente rappresentativo dei lavoratori, stabilendo il principio che chi non si sottomette all padrone va fuori e non è titolare di alcun diritto. Solo chi è d’accordo con il padrone ha diritto di cittadinanza nel reame marchionnesco.
Non sorprende che tutti quelli che avevano sostenuto Marchionne, anche di parte sindacale, si trovino oggi con un pugno di mosche in mano. Il fatto è che l’instaurazione del potere assoluto del capitale in fabbrica, dove vige con la sospensione dei diritti costituzionali un regime d’eccezione che consente licenziamenti e Cassa integrazione ad libitum, è servita a rassicurare i mercati e a far lievitare il titolo in Borsa. Una prova di forza, condizione indispensabile per rastrellare i mezzi necessari ad assumere il controllo della Chrysler, come puntualmente si è verificato.
È stata la sperimentazione in corpore vili del vecchio detto secondo cui più si licenzia più la Borsa è contenta: non a caso Lehman Brothers apprezza il titolo Chrysler-Fiat e dice che tutto va bene. Ma è anche il risultato dell’aureo principio iperliberista enunciato da Monti: la Fiat è libera di investire dove vuole nel mondo. Come dire - ha scritto qualcuno - che non c’è bisogno di un governo per affermare questo principio. O forse che il governo c’è proprio per affermare questo principio.
In ogni caso non appare credibile, perché impraticabile, la posizione di chi in questa fase sostiene che l’austerità di Monti va bene ma bisogna integrarla con la crescita. La vicenda della Fiat dimostra senza possibilità di equivoco che non c’è possibilità di ripresa se si rimane dentro i canoni stupidi di un “libero mercato” che non esiste. E se si continuano a manomettere i diritti sindacali e costituzionali svalorizzando il lavoro e offendendo la dignità di chi lavora o cerca lavoro.
Bisogna fare esattamente il contrario, dando fiducia ai lavoratori e rafforzando il sindacato, come fece il Presidente americano Roosevelt con il New Deal. Per questo va valorizzato l’impegno della Fiom, che dimostra ogni giorno di essere un vero sindacato dei lavoratori, libero e autonomo. E’ un grave errore sostenere, come ha scritto l’Unità a proposito del referendum sul lavoro, che «la gloriosa Fiom» è stata arruolata «nella banda dell’antipolitica».
Adesso che la Fiat si è internazionalizzata, spostando il baricentro in Usa con i soldi degli operai della Chrysler e dei contribuenti americani messi a disposizione da Obama, e che in Europa ha fatto affidamento sui finanziamenti del governo serbo, Marchionne ed Elkann fanno sapere che le condizioni di mercato sono cambiate, e che «Fabbrica Italia» non era un impegno. Era dunque una chiacchiera, un ballon d’essai, nell’ipotesi migliore una clamorosa svista di un gruppo finanziario che comunque si è dimostrato inaffidabile.
Come del resto provano, dopo l’annuncio trionfalistico del 2010 quando la crisi globale non era affatto spenta, la chiusura di Termini Imerese, la liquidazione di Iribus, il ricorso massiccio alla Cassa integrazione in tutti gli stabilimenti, da Mirafiori a Cassino, a Melfi e Pomigliano. Siamo tornati ai livelli produttivi degli anni 70. Ma il fatto è che dentro una crisi di sovraproduzione che impone una radicale ristrutturazione dell’intero comparto, la Fiat si è comportata peggio degli altri produttori continuando a perdere rilevanti quote di mercato. Al punto tale che oggi è messa in discussione l’esistenza stessa dell’industria automobilistica e dei trasporti in questo Paese.
È la conferma inconfutabile che la Fiom aveva ed ha ragione, quando sostiene che dalla crisi dell’auto si può uscire non certo giocando al ribasso sui salari e sulla menomazione dei diritti, ma solo puntando in alto: sull’innovazione scientifica e tecnologica, su nuovi modelli ecocompatibili e più in generale su un diverso sistema di mobilità integrata, che superi la centralità assoluta del trasporto individuale su gomma, e che perciò ha bisogno di una visione strategica e di una programmazione pubblica.
Il contrario di ciò che ha fatto la Fiat e di ciò che sta facendo il governo, che nella sua immobilità di fronte allo sfacelo delle attività produttive sembra non voglia fare neanche il guardiano notturno, per impedire che ci scippino tutti i gioielli di famiglia. A Marchionne è stato concesso di cambiare radicalmente le relazioni sindacali in fabbrica e di cacciare - fatto inaudito in una democrazia come la nostra fondata sul lavoro - il sindacato maggiormente rappresentativo dei lavoratori, stabilendo il principio che chi non si sottomette all padrone va fuori e non è titolare di alcun diritto. Solo chi è d’accordo con il padrone ha diritto di cittadinanza nel reame marchionnesco.
Non sorprende che tutti quelli che avevano sostenuto Marchionne, anche di parte sindacale, si trovino oggi con un pugno di mosche in mano. Il fatto è che l’instaurazione del potere assoluto del capitale in fabbrica, dove vige con la sospensione dei diritti costituzionali un regime d’eccezione che consente licenziamenti e Cassa integrazione ad libitum, è servita a rassicurare i mercati e a far lievitare il titolo in Borsa. Una prova di forza, condizione indispensabile per rastrellare i mezzi necessari ad assumere il controllo della Chrysler, come puntualmente si è verificato.
È stata la sperimentazione in corpore vili del vecchio detto secondo cui più si licenzia più la Borsa è contenta: non a caso Lehman Brothers apprezza il titolo Chrysler-Fiat e dice che tutto va bene. Ma è anche il risultato dell’aureo principio iperliberista enunciato da Monti: la Fiat è libera di investire dove vuole nel mondo. Come dire - ha scritto qualcuno - che non c’è bisogno di un governo per affermare questo principio. O forse che il governo c’è proprio per affermare questo principio.
In ogni caso non appare credibile, perché impraticabile, la posizione di chi in questa fase sostiene che l’austerità di Monti va bene ma bisogna integrarla con la crescita. La vicenda della Fiat dimostra senza possibilità di equivoco che non c’è possibilità di ripresa se si rimane dentro i canoni stupidi di un “libero mercato” che non esiste. E se si continuano a manomettere i diritti sindacali e costituzionali svalorizzando il lavoro e offendendo la dignità di chi lavora o cerca lavoro.
Bisogna fare esattamente il contrario, dando fiducia ai lavoratori e rafforzando il sindacato, come fece il Presidente americano Roosevelt con il New Deal. Per questo va valorizzato l’impegno della Fiom, che dimostra ogni giorno di essere un vero sindacato dei lavoratori, libero e autonomo. E’ un grave errore sostenere, come ha scritto l’Unità a proposito del referendum sul lavoro, che «la gloriosa Fiom» è stata arruolata «nella banda dell’antipolitica».
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