Il "tavolo sulla produttività" punta
all'eliminazione del contratto nazionale di lavoro. E niente più aumenti
salariali senza aumento del lavoro.
Repubblica è il giornale più filogovernativo del panorama attuale. Di solito è fastidioso da leggere, proprio per l'eccesso di "propaganda" montiana che trasuda da ogni sua pagina. Ma selezionando accuratamente, si trovano informazioni interessanti sui "progetti" in corso d'opera.
Questo sulla "produttività" è davvero "profetico".
In pratica il governo - e le imprese non possono che esserne felici - vuole cancellare gli aumenti salariali dall'orizzonte contrattuale. Naturalmente non lo dice con le nostre parole, ma con i fatti.
Si parte con l'eminazione di "qualsiasi automatismo tipo l'Ipca", che in misura del tutto insufficiente collega ancora il salario al costo della vita (ma solo in sede di rinnovo contrattuale, appunto). Per sostenere subito dopo che i futuri aumenti dovranno essere vincolati all'aumento della produttività. Poiché la "produttività" dipende o dagli investimenti in nuovi macchinari più avanzati (una prassi ormai dimenticata dalle imprese italiane) o dall'aumento bruto dell'orario di lavoro (straordinario o ordinario), ne deriva che la paga oraria verrà bloccata fino a nuovo ordine e quindi l'unico modo di guadagnare qualcosa di più consisterà nel farsi sfruttare ad libitum. Finché le forze lo consentono.
Per l'immediato, le imprese pensano di bloccare il rinnovo dei contratti in corso. L'ok di Bonanni e della Cisl sembra già acquisito (tanto per cambiare), quello di Angeletti e della Uil arriverà a breve (basta chiederglielo), la Camusso si è vista ieri sera con Giorgio Squinzi e deve fare almeno un po' di ammunina convocando il docile Direttivo nazionale. Dove spiegherà per l'ennesima volta che "l'unità sindacale" ritrovata con Cisl e Uil è il bene supremo da difendere, e quindi bisogna accettare la linea che Bonanni sceglie per "non rompere il fronte".
Riemerge dunque lo schema antico: mantenere un'ombra chiamata "contratto nazionale" sufficiente a fissare il "salario minimo" nelle piccole imprese che non fanno contrattazione aziendale e non vedono nemmeno la presenza sindacale; e lasciar libere quelle medio-grandi di raggiungere accordi aziendali "in deroga" al contratto nazionale così svuotato.
Resta la domanda: come cavolo pensano di far aumentare la "domanda interna" in questo modo? La risposta vera è: non pensano affatto di farla aumentare. Anzi... Prima la povertà estrema che ti abbatte le possibilità e la voglia di resistenza, poi l'aumento dei profitti per le imprese, poi - tra 20 anni, a nuovo boom sperato (ma irrealizzabile, nel mondo delle economie emergenti che cresce a rotta di collo) - se proprio servità distribuire qualche briciola, vedranno cosa si può fare.
Roberto Mania
ROMA — Congelare le trattative per i rinnovi contrattuali. È questa la li nea della Confindustria emersa ieri durante la riunione della Giunta dell’associazione di Viale dell’Astronomia. Compatti, gli industriali puntano di fatto al blocco dei rinnovi (sono coinvolti almeno quattro milioni di lavoratori) in attesa di raggiungere in tempi brevi («giorni», ha addirittura detto ieri il presidente confindustriale, Giorgio Squinzi) l’accordo con Cgil, Ci sl e Uil sulla competitività. È il patto che ha chiesto alle parti sociali il premier Mario Monti per ridurre “lo spread produttività” che agisce come una zavorra sulla crescita della nostra economia ancora in piena recessione quest’anno (il Pil scenderà del 2,4 per cento, secondo le stime del governo che coincidono con quelle del Centro studi della Confindustria) e pure il prossimo (0,2 per cento).
L’idea degli industriali è piuttosto semplice, ma non è detto che incontri il consenso anche dei sindacati: definire prima l’accordo quadro sulla produttività e poi, con le nuove regole, riaprire i negoziati per i contratti di categoria, dai chimici agli alimentaristi fino ai metalmeccanici. «Non avrebbe senso fare il contrario», dicono gli uomini di Squinzi. Il cui obiettivo è ora quello di imprimere un’accelerazione al confronto. Tanto che ieri sera il presidente di Confindustria ha incontrato la leader della Cgil Susanna Camusso, dopo che nei giorni scorsi aveva visto quello della Cisl Raffaele Bonanni.
Monti vorrebbe portare al prossimo vertice europeo del 19 ottobre almeno una bozza di intesa tra Confindustria e sindacati. L’esecutivo per ora non farà parte del tavolo negoziale. Al ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, infatti, è stato affidato il compito di limitarsi a coordinare le trattative. Resta il fatto, tuttavia, che, per quanto non esplicitamente, il premier Monti, negli incontri di Palazzo Chigi con cui ha avviato il confronto, ha delineato un ipotetico modello contrattuale nel quale si riduce lo spazio di qualsiasi forma di automatismo (come l’attuale Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo e depurato dai prezzi dell’energia) nelle dinamiche retributive per collegare gli incrementi salariali esclusivamente alla crescita della produttività. In sostanza gli aumenti verrebbero definiti nelle aziende e i contratti nazionali perderebbero l’attuale centralità. È un’ipotesi estrema che nemmeno Confindustria considera praticabile visto che per ora non più del 30% delle imprese svolge la contrattazione integrativa di secondo livello. Che cosa succederebbe nelle piccole imprese dove non c’è nemmeno la rappresentanza sindacale? Gli industriali stanno riprendendo dal cassetto una vecchia proposta avanzata agli inizi degli anni 90 dall’allora presidente Luigi Abete e dal suo vice Carlo Callieri: nelle imprese in cui si fa la contrattazione aziendale non si applica il contratto nazionale. Nei fatti è quello che ha fatto già la Fiat, uscendo dalla Confindustria e dai vincoli dell’accordo nazionale e sottoscrivendo con alcuni sindacati (non la Fiom Cgil) una nuova intesa dell’auto sostitutiva del contratto nazionale.
Ma la partita è davvero complessa. Non è affatto scontato che Cgil, Cisl e Uil possano accettare una sospensione di fatto dei negoziati appena avviati, per quanto abbiamo già dovuto accettare il blocco dei contratti per circa 3,5 milioni di dipendenti pubblici imposto dal governo per contenere la spesa pubblica. E soprattutto non è scontato che possano superare, senza mai averla messa alla prova, l’intesa sulla contrattazione e la rappresentanza del 28 giugno del 2011 raggiunta unitariamente dopo la spaccatura avvenuta solo due anni prima. D’altra parte è difficile che Squinzi possa cercare una divisione tra i sindacati, dopo aver sempre contestato la linea delle intese separate. In più il governo non potrà continuare a fare da spettatore perché, per incentivare il salario di produttività, bisognerà cercare di ridurre il cuneo fiscale (lo scarto tra il costo del lavoro e la retribuzione netta che va in tasca ai lavoratori) attraverso gli sgravi fiscali. Ci sono le risorse? Il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, non l’ha escluso. La lotta allo “spread produttività” è diventata la nuova priorità.
da Repubblica
Repubblica è il giornale più filogovernativo del panorama attuale. Di solito è fastidioso da leggere, proprio per l'eccesso di "propaganda" montiana che trasuda da ogni sua pagina. Ma selezionando accuratamente, si trovano informazioni interessanti sui "progetti" in corso d'opera.
Questo sulla "produttività" è davvero "profetico".
In pratica il governo - e le imprese non possono che esserne felici - vuole cancellare gli aumenti salariali dall'orizzonte contrattuale. Naturalmente non lo dice con le nostre parole, ma con i fatti.
Si parte con l'eminazione di "qualsiasi automatismo tipo l'Ipca", che in misura del tutto insufficiente collega ancora il salario al costo della vita (ma solo in sede di rinnovo contrattuale, appunto). Per sostenere subito dopo che i futuri aumenti dovranno essere vincolati all'aumento della produttività. Poiché la "produttività" dipende o dagli investimenti in nuovi macchinari più avanzati (una prassi ormai dimenticata dalle imprese italiane) o dall'aumento bruto dell'orario di lavoro (straordinario o ordinario), ne deriva che la paga oraria verrà bloccata fino a nuovo ordine e quindi l'unico modo di guadagnare qualcosa di più consisterà nel farsi sfruttare ad libitum. Finché le forze lo consentono.
Per l'immediato, le imprese pensano di bloccare il rinnovo dei contratti in corso. L'ok di Bonanni e della Cisl sembra già acquisito (tanto per cambiare), quello di Angeletti e della Uil arriverà a breve (basta chiederglielo), la Camusso si è vista ieri sera con Giorgio Squinzi e deve fare almeno un po' di ammunina convocando il docile Direttivo nazionale. Dove spiegherà per l'ennesima volta che "l'unità sindacale" ritrovata con Cisl e Uil è il bene supremo da difendere, e quindi bisogna accettare la linea che Bonanni sceglie per "non rompere il fronte".
Riemerge dunque lo schema antico: mantenere un'ombra chiamata "contratto nazionale" sufficiente a fissare il "salario minimo" nelle piccole imprese che non fanno contrattazione aziendale e non vedono nemmeno la presenza sindacale; e lasciar libere quelle medio-grandi di raggiungere accordi aziendali "in deroga" al contratto nazionale così svuotato.
Resta la domanda: come cavolo pensano di far aumentare la "domanda interna" in questo modo? La risposta vera è: non pensano affatto di farla aumentare. Anzi... Prima la povertà estrema che ti abbatte le possibilità e la voglia di resistenza, poi l'aumento dei profitti per le imprese, poi - tra 20 anni, a nuovo boom sperato (ma irrealizzabile, nel mondo delle economie emergenti che cresce a rotta di collo) - se proprio servità distribuire qualche briciola, vedranno cosa si può fare.
Roberto Mania
ROMA — Congelare le trattative per i rinnovi contrattuali. È questa la li nea della Confindustria emersa ieri durante la riunione della Giunta dell’associazione di Viale dell’Astronomia. Compatti, gli industriali puntano di fatto al blocco dei rinnovi (sono coinvolti almeno quattro milioni di lavoratori) in attesa di raggiungere in tempi brevi («giorni», ha addirittura detto ieri il presidente confindustriale, Giorgio Squinzi) l’accordo con Cgil, Ci sl e Uil sulla competitività. È il patto che ha chiesto alle parti sociali il premier Mario Monti per ridurre “lo spread produttività” che agisce come una zavorra sulla crescita della nostra economia ancora in piena recessione quest’anno (il Pil scenderà del 2,4 per cento, secondo le stime del governo che coincidono con quelle del Centro studi della Confindustria) e pure il prossimo (0,2 per cento).
L’idea degli industriali è piuttosto semplice, ma non è detto che incontri il consenso anche dei sindacati: definire prima l’accordo quadro sulla produttività e poi, con le nuove regole, riaprire i negoziati per i contratti di categoria, dai chimici agli alimentaristi fino ai metalmeccanici. «Non avrebbe senso fare il contrario», dicono gli uomini di Squinzi. Il cui obiettivo è ora quello di imprimere un’accelerazione al confronto. Tanto che ieri sera il presidente di Confindustria ha incontrato la leader della Cgil Susanna Camusso, dopo che nei giorni scorsi aveva visto quello della Cisl Raffaele Bonanni.
Monti vorrebbe portare al prossimo vertice europeo del 19 ottobre almeno una bozza di intesa tra Confindustria e sindacati. L’esecutivo per ora non farà parte del tavolo negoziale. Al ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, infatti, è stato affidato il compito di limitarsi a coordinare le trattative. Resta il fatto, tuttavia, che, per quanto non esplicitamente, il premier Monti, negli incontri di Palazzo Chigi con cui ha avviato il confronto, ha delineato un ipotetico modello contrattuale nel quale si riduce lo spazio di qualsiasi forma di automatismo (come l’attuale Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo e depurato dai prezzi dell’energia) nelle dinamiche retributive per collegare gli incrementi salariali esclusivamente alla crescita della produttività. In sostanza gli aumenti verrebbero definiti nelle aziende e i contratti nazionali perderebbero l’attuale centralità. È un’ipotesi estrema che nemmeno Confindustria considera praticabile visto che per ora non più del 30% delle imprese svolge la contrattazione integrativa di secondo livello. Che cosa succederebbe nelle piccole imprese dove non c’è nemmeno la rappresentanza sindacale? Gli industriali stanno riprendendo dal cassetto una vecchia proposta avanzata agli inizi degli anni 90 dall’allora presidente Luigi Abete e dal suo vice Carlo Callieri: nelle imprese in cui si fa la contrattazione aziendale non si applica il contratto nazionale. Nei fatti è quello che ha fatto già la Fiat, uscendo dalla Confindustria e dai vincoli dell’accordo nazionale e sottoscrivendo con alcuni sindacati (non la Fiom Cgil) una nuova intesa dell’auto sostitutiva del contratto nazionale.
Ma la partita è davvero complessa. Non è affatto scontato che Cgil, Cisl e Uil possano accettare una sospensione di fatto dei negoziati appena avviati, per quanto abbiamo già dovuto accettare il blocco dei contratti per circa 3,5 milioni di dipendenti pubblici imposto dal governo per contenere la spesa pubblica. E soprattutto non è scontato che possano superare, senza mai averla messa alla prova, l’intesa sulla contrattazione e la rappresentanza del 28 giugno del 2011 raggiunta unitariamente dopo la spaccatura avvenuta solo due anni prima. D’altra parte è difficile che Squinzi possa cercare una divisione tra i sindacati, dopo aver sempre contestato la linea delle intese separate. In più il governo non potrà continuare a fare da spettatore perché, per incentivare il salario di produttività, bisognerà cercare di ridurre il cuneo fiscale (lo scarto tra il costo del lavoro e la retribuzione netta che va in tasca ai lavoratori) attraverso gli sgravi fiscali. Ci sono le risorse? Il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, non l’ha escluso. La lotta allo “spread produttività” è diventata la nuova priorità.
da Repubblica
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