Ci sono parole ripetute in continuazione di cui
sembra di conoscere il significato. Ma non è così. "Produttività", per
esempio. Una decostruzione ragionata delle parole truccate che ingannano
i lavoratori e la società.
Il “luogo comune” è un insieme di informazioni strutturate che cementano nel cervello di molti un determinato significato. Sembra si tratti di una cosa certa, naturale, oggettiva; invece è una costruzione sociale, fatta attraverso il linguaggio ma a partire da interessi concreti, strutturatissimi, forti di grandi leve di comando e poderose macchine comunicative.
“Produttività” è una delle parole che veicolano da diversi mesi il “senso comune” dell'ineluttabilità del chinare la testa, rinunciare a quote di salario e agli “antichi” diritti del lavoratore. Si dice produttività per dire “dovete lavorare di più”. E questo lo capiamo tutti subito.
Quello che resta sullo sfondo, invisibile e accuratamente nascosto, è il significato vero della parola che concentra su di sé il (costruito) “senso comune”.
Proviamo a spiegarci utlizzando questo peraltro ottimo pezzo di Marco Panara, pubblicato come apertura dell'inserto “Affari e finanza” di Reppubblica, lunedì 17 settembre, che definisce in modo più chiaro cosa ci sia sul tavolo del “dialogo” tra governo e sindacati appunto sulla “ripresa” attraverso un aumento della “produttività”. Per agevolare ai lettori la decodifica dei concetti intervalliamo il testo di Panara con le nostre controdeduzioni o “disambiguazioni” (come si dice oggi, per esempio, in Wikipedia).
Il “luogo comune” è un insieme di informazioni strutturate che cementano nel cervello di molti un determinato significato. Sembra si tratti di una cosa certa, naturale, oggettiva; invece è una costruzione sociale, fatta attraverso il linguaggio ma a partire da interessi concreti, strutturatissimi, forti di grandi leve di comando e poderose macchine comunicative.
“Produttività” è una delle parole che veicolano da diversi mesi il “senso comune” dell'ineluttabilità del chinare la testa, rinunciare a quote di salario e agli “antichi” diritti del lavoratore. Si dice produttività per dire “dovete lavorare di più”. E questo lo capiamo tutti subito.
Quello che resta sullo sfondo, invisibile e accuratamente nascosto, è il significato vero della parola che concentra su di sé il (costruito) “senso comune”.
Proviamo a spiegarci utlizzando questo peraltro ottimo pezzo di Marco Panara, pubblicato come apertura dell'inserto “Affari e finanza” di Reppubblica, lunedì 17 settembre, che definisce in modo più chiaro cosa ci sia sul tavolo del “dialogo” tra governo e sindacati appunto sulla “ripresa” attraverso un aumento della “produttività”. Per agevolare ai lettori la decodifica dei concetti intervalliamo il testo di Panara con le nostre controdeduzioni o “disambiguazioni” (come si dice oggi, per esempio, in Wikipedia).
Hi tech, brevetti, innovazione come far uscire l'Italia dalla trappola della produttività
Un sistema economico rimasto ancora al secolo scorso. Gli imprenditori hanno investito in media con l'Europa, ma in modo inefficace senza spostarsi sui settori più avanzati
di MARCO PANARA, Affari & Finanza, La Repubblica
Dopo aver campato su debito pubblico e svalutazioni per vent’anni e aver galleggiato sui tassi bassi per altri dieci ora siamo arrivati all’osso. O troviamo il modo di aumentare la produttività o si ridurranno i salari. I singoli salari, tagliandone un pezzo a ciascuno, oppure il monte salari attraverso i licenziamenti. Quelli fatti fino ad ora non bastano. A imprese e sindacati, con il ministro allo Sviluppo Corrado Passera a gestire il tavolo, Monti ha dato un mese di tempo per trovare una soluzione a un problema che sta lì da molti anni prima che arrivasse la crisi.
Redazione. Il problema del prossimo anno è chiaro: maggiore produttività o riduzione salariale. Non importa tanto se “individualmente” (il taglio uguale per tutti, in stile Grecia) o “complessivamente” (il monte salari, appunto, o il reddito totale disponibile per i consumi).La questione è seria, perché se ci sono molti modi nei quali una collettività si può impoverire, ce n’è uno solo attraverso il quale può arricchirsi: aumentare la produttività. In Italia non aumenta da molto tempo e infatti l’economia da altrettanto tempo è ferma e il reddito dei cittadini non cresce.
I numeri non perdonano, negli ultimi dieci anni la produttività per ora lavorata in Italia è cresciuta complessivamente dell’1,4%, nella Ue dell’11,4, in Germania del 13,6, e c’è un collegamento diretto e inequivoco tra produttività e aumento del prodotto lordo pro capite, ovvero la misura del benessere economico di una collettività: quello italiano dieci anni fa era sopra la media Ue ora è più basso nonché più basso di quello che avevamo nel 2000.
Red. I numeri sono il linguaggio con cui viene espressa una misurazione. Dicono molto solo a chi capisce quella lingua. Ma, essendo numeri, danno l'impressione della “certezza matematica” anche quando la certezza è tutt'altro che certa. Quel che non possono dire, in effetti, è il “perché” una data misurazione restituisce certe cifre. I rapporti tra le “cause” e i numeri è dunque un'indagine da fare a carico del pensiero che spende l'”osservatore”. E qui, in genere, sorgono i problemi e le “ambiguazioni”; spesso involontarie, altre volte volontarissime.
Il motivo per il quale siamo arrivati a questa drammatica alternativa tra produttività e salari si chiama Clup, costo del lavoro per unità di prodotto.
Red. Il problema è già mal posto. Oppure, dal punto di vista dell'impresa, posto benissimo. Il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto, ovvero quanto pesa il costo complessivo del lavoro – salario, contributi, tasse, ecc – sul costo di produzione finale di una merce) è un'altra unità di misura, non una “causa”. E' come confondere il termometro con la febbre; o peggio ancora con “la causa” della febbre. Ma nel calcolo gestionale il Clup compare come una grandezza data, sulla cui origine – complicata - non è più necessario soffermarsi.
Rispetto alla Germania dal 2000 ad oggi questo famoso Clup è aumentato del 35%, il che vuol dire che i nostri prodotti hanno perso un terzo della loro competitività in termini di costo. A far aumentare il Clup possono essere due fattori, il costo del lavoro oppure il prodotto che da quel lavoro esce fuori. Poiché in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente, quello che non ha funzionato è la seconda parte dell’equazione: il prodotto. Fatto 100 il costo del lavoro impiegato, nel 2011 abbiamo tirato fuori un prodotto il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania.
Red. Abbiamo comunque un primo dato concreto: “in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente”. In termini nominali, è vero (la quantità di euro in cui si esprime il salario non è aumentata); come potere d'acquisto è invece diminuito (con la stessa cifra si acquistano meno merci). Si potrebbe già qui tranquillamente concludere che è dunque perfettamente inutile continuare ad abbassare il costo del lavoro, visto che è sull'altro fronte – il prodotto – che il problema esiste. Naturalmente, non può essere questa la conclusione di Repubblica.A questo punto, se non si fa qualcosa per invertire la dinamica della produttività, l’impoverimento progressivo del paese è una strada segnata. Perché l’alternativa, ovvero la inevitabile riduzione della remunerazione del lavoro, vuol dire esattamente questo: impoverirsi.
Red. Anche lo schema retorico è chiaro: se non volete impoverirvi dovete “aumentare la produttività”. La pistola è puntata, o la borsa o la vita.Nel lungo termine peraltro non è quella la ricetta giusta. Per capirlo basta guardare la classifica della competitività del World Economic Forum. Il paese più competitivo è la Svizzera, dove il costo del lavoro è del 50% superiore a quello italiano, tra i primi dieci (l’Italia è quarantaduesima) sei paesi hanno il costo del lavoro più alto e uno, il Regno Unito, comparabile. La chiave quindi non è ridurre il costo del lavoro, se non temporaneamente, ma aumentare il prodotto in quantità o in valore.
Red. Altri dati sconsigliano questa strada, “deflazionistica” sul lungo periodo. Se abbassi troppo i salari, diminuiranno di conseguenza i consumi. Ma questo non avviene in modo “matematico” (cali i salari del 20% e calano i consumi in proporzione). Esistono infatti nella vita reale delle “soglie” oltre le quali le dinamiche procedono più velocemente. Esempio: se il mio salario scende sotto la soglia della sopravvivenza, non comprerò più nulla se non l'indispensabile (a prezzo discount o peggio) per cercare comunque di sopravvivere. Naturalmente farò a meno di iphone, ipad, vacanze a Torvaianica o alle Maldive, automobile, motorino e persino autobus, ecc. Le ricadute sull'economia saranno dunque un avvitamento depressivo esponenziale che rischia di diventare irrecuperabile. Stabilito che il problema è “aumentare il prodotto in quantità o in valore”, la soluzione è già scritta. Ma è sbagliata. Come vedremo.
Come? E’ questo il punto. Per affrontare il quale è meglio capire prima quali sono le ragioni per le quali la produttività in Italia non cresce. Ce ne sono di due ordini, il primo è quello che accade dentro l’impresa e il secondo (non in ordine di importanza) è quello che c’è fuori, ovvero il famigerato contesto.
Cominciamo dal primo. Dentro l’impresa ci sono la proprietà, la gestione, gli investimenti, l’organizzazione del lavoro. La proprietà è nell’85% dei casi familiare, poco meno della Germania e poco più della Francia e della Spagna, in linea quindi con il resto dell’Europa, la differenza è nella gestione: in Francia e Germania meno del 30% delle imprese familiari hanno manager di famiglia, in Italia oltre il 66%, il che spesso vuol dire che non si è scelta la opzione migliore ma si è privilegiato quello si aveva in casa con il rischio di una gestione non ottimale delle risorse.Red. Le imprese italiane promuovono a “manager” i loro figli, cugini, nipoti. Sono la fotografia di una cultura del “risparmio” che oltre un certo livello diventa suicidio. Paradossalmente, però, la scelta di mettere in posizione di responsabilità uno qualsiasi purché parente, invece che un “estraneo” che ci sa fare, indica che nell'autopercezione stessa dell'imprenditore-tipo italiano per “fare il capitalista” non serve poi una scienza particolare. Son buoni tutti o quasi, come a fare il facchino.
Il secondo punto caldo sono gli investimenti, che fino al 2007 non sono stati troppo inferiori alla media degli altri paesi comparabili, ma che non è chiaro dove siano andati: quelli in macchinari sono crollati, come dimostrano il fatto che tra il 2000 e il 2010 la quota degli ammortamenti sul fatturato è scesa dal 6,5 al 3,8% e che nello stesso arco di tempo la vita media dei macchinari è balzata da 10 a oltre 16 anni. E sono stati bassissimi, sotto la media europea e la media Ocse, quelli in asset intangibili, ovvero brevetti, ricerca e sviluppo, formazione.
Red. Dove sono finiti gli investimenti? Non per rinnovare i macchinari, non per migliorare la tecnologia. Dunque, non per aumentare la produttività. In termini marxiani, non è stata aumentata quella parte del capitale fisso che consente di incrementare l'estrazione di “plusvalore relativo”. Ovvero che mette il singolo operaio in condizione di produrre una maggiore quantità di pezzi nella stessa unità di tempo e di fatica. A noi sembra che gli investimenti delle imprese, negli ultimi venti anni, siano stati “diversificati” verso la finanza e il mercato immobiliare, che hanno garantito a lungo profitti percentualmente più alti e senza alcuna attesa dei “tempi di rotazione” della merce fisica (produzione-immissione sul mercato-vendita-ritorno). Quindi fuori dalla dinamica propria dell'industria. Ma di questo, chi è responsabile?«La crescita della produttività del lavoro modesta - è scritto in L’innovazione come chiave per rendere l’Italia più competitiva, un documento pubblicato dall’Aspen lo scorso marzo - è dipesa essenzialmente da un livello molto basso in investimenti in capitale e capitale umano, accompagnati da investimenti minimi in “ intangible assets”. Tutto ciò ha determinato una crescita negativa della produttività totale dei fattori». Sulla stessa linea è l’Occasional paper della Banca d’Italia di aprile 2012 dal titolo Il gap innovativo del sistema produttivo italiano.
Infine, dentro l’azienda, c’è l’organizzazione del lavoro, che dove non sono arrivati accordi sindacali innovativi (che in molte aziende e settori ci sono stati) è rimasta troppo rigida dentro la fabbrica e dentro l’impresa. E c’è un altro elemento importante: come ormai dimostrato da molte analisi, il largo ricorso al lavoro precario diminuisce la produttività ed ha anche l’effetto collaterale che il lavoro superflessibile in uscita e a basso costo disincentiva gli investimenti.
Red. Qui cadono molti asini, compresi i professori al governo. L'innovazione tecnologica - compito dell'impresa, al massimo "promuovibile" dall'intervento statale - non c'è stata per scelta miopre delle aziende stesse. Gli “accordi aziendali innovativi” invece ci sono stati. E sono andati tutti nella direzione chiesta dalle aziende: più straordinari, più precarietà, più “flessibilità in uscita”. Fino ad ottenere la sostanziale cancellazione dell'art. 18. Ma proprio questi “successi innovativi” - dimostrano le ricerche empiriche citate anche da Panara – abbassano la produttività e disincentivano gli investimenti. Ricapitolando: le misure fin qui imposte a forza al mondo del lavoro per “aumentare la produttività” hanno realizzato il risultato diametralmente opposto: l'hanno diminuita. Non si capisce quindi perché si insista nel dire che l'organizzazione del lavoro in fabbrica sia rimasta “troppo rigida”. O invece sì.
Il che ci fornisce la fotografia di quello che accaduto in Italia fino al 2007, occupazione in salita, pochi investimenti, produttività declinante. In mezzo tra quello succede nell’impresa e quello che c’è fuori c’è la dimensione dell’impresa e il suo rapporto con il mercato. E qui, anche qui, sono dolori, i dolori di sempre.
Dei 4,4 milioni di imprese che ci sono in Italia il 94,8% hanno meno di 10 addetti, mentre quelle grandi (con oltre 250 addetti) sono solo 3.502. Niente di male in assoluto, se non fosse che il valore aggiunto per addetto delle microimprese, pari a circa 25 mila euro l’anno, è pari a metà di quello delle medie imprese e due volte e mezzo più basso di quelle grandi (60 mila euro). Il che vuol dire che avere una quota così rilevante di piccolissime imprese abbassa la produttività media e, in un mondo globalizzato e senza più svalutazioni, è come una zavorra sulla crescita della competitività.
Si potrebbe dire che la struttura dell’economia italiana era così anche prima, quando la produttività cresceva. Ma prima non c’era l’euro, quindi erano possibili le svalutazioni, non c’era la globalizzazione, e quindi la concorrenza era minore anche sul mercato domestico, e prima gli imprenditori - moltissimi dei quali sono di prima generazione - avevano molti anni di meno e un patrimonio culturale e di esperienze in linea con le tecnologie e il quadro competitivo del momento. Oggi gli anni sono di più e il rapporto con l’evoluzione tecnologica e dei mercati assai più complesso.
Red. Se ne dovrebbe trarre la scomoda conclusione del fallimento della classe imprenditoriale italiana, incapace di crescere qualitativamente, concentrarsi organizzativamente, liberarsi del “familismo amorale” che ha infine trovato in Berlusconi (e nella Lega) i suoi autentici campioni. Ma naturalmente si va in direzione opposta.
E qui arriviamo al contesto, perché la colpa non è solo né prevalentemente degli imprenditori se il tessuto produttivo italiano non s’è evoluto con i tempi. La lista dei disincentivi a crescere, a managerializzare, a investire è sterminata ed anche qui è la solita, da una tassazione che punisce l’impresa e il lavoro a una giustizia civile che non garantisce l’osservanza dei contratti, da una formazione inadeguata, soprattutto tecnica, a mercati troppo protetti, da una pubblica amministrazione costosa e inutilmente complessa a una normativa inutilmente farraginosa a infrastrutture insufficienti.
Red. La banalità del pensiero è sempre una colpa. Anche Panara si lascia andare a un elenco di luoghi comuni “copincollati” senza pensarci sopra. Strano semmai che non vi abbia aggiunto la corruzione e l'economia sommersa.
Oltre all’imprenditore però ci sono i lavoratori e chi li rappresenta, il sindacato, che come molti imprenditori, la politica e la pubblica amministrazione s’è fermato agli anni ’90, non ha colto il cambiamento, non ha cavalcato le potenzialità della nuova epoca per creare un ambiente più favorevole al lavoro spesso (non sempre) privilegiando la conservazione all’evoluzione.
Red. Il problema inizialmente mal posto produce un circolo vizioso. O ci sono state “riforme innovative” accettate dai sindacati ufficiali (che però hanno prodotto un inatteso abbassamento della produttività e degli investimenti) oppure c'è stata “troppa rigidità conservativa” da parte sindacale. Tutte e due le cose non possono stare insieme. O è l'impresa-media che è venuta meno alla sua “missione” (investire per crescere, anche in produttività), o c'è qualcuno che glie lo ha impedito. E quest'ultima cosa non è mai accaduta.Ora però siamo tutti nudi, di fronte alla prospettiva dell’impoverimento nessuno può più permettersi di stare fermo. Il governo ha fatto molto per muovere il contesto, ma per il momento sono leggi in attesa di implementazione, senza la quale restano solo buoni propositi e, soprattutto, quello che è stato possibile fare in un anno non può trasformare un paese ancora pienamente immerso in un secolo che è ormai finito già da oltre un decennio.
Red. Altro circolo vizioso. Il governo Monti e quello precedente “hanno fatto molto” nel senso sbagliato, favorendo tutte quelle misure (precarietà e flessibilità in uscita) che hanno abbassato la produttività. Anche a Panara non resta che rifugiarsi nell'ideologia dei luoghi comuni sul paese “rimasto al secolo scorso”.
Imprese e sindacati si devono invece occupare di quello che avviene dentro l’azienda, che è una componente importante della partita. Con un problema al quale bisogna trovare soluzione: il grosso delle aziende italiane, quelle dove è più acuto il problema della produttività sono le piccolissime, ma lì il sindacato e la contrattazione aziendale non arrivano. Per loro gli accordi che Confindustria e sindacato eventualmente raggiungeranno saranno lettera morta, bisognerà immaginare qualcos'altro e in fretta.
Red. Notazione giusta, ma con due possibili vie d'uscita. La piccolissima impresa non ha quasi fisiologicamente la possibilità di migliorare in tecnologia, quindi in “produttività buona”. E qui il sindacato non esiste; quindi non è neppure retoricamente evocabile come “ostacolo”. Non a caso, Panara alza bandiera bianca e invita a “immaginare” qualcosa. Per chi negli anni aveva innalzato ad esempio per tutti il “piccolo è bello” si tratta di una resa senza condizioni.Infine le conseguenze. Aumentare la produttività è necessario, pena l’impoverimento, ma non è facile né indolore. Perché, in condizioni date, aumentare la produttività vuol dire fare le stesse cose di prima ma con meno lavoratori, ovvero ulteriore disoccupazione. Questo è quello che gli economisti definiscono un aumento della produttività difensivo.
Red. Siamo al punto: quel che il governo vuole dai sindacati. Più ore di lavoro individuali per chi resta, più licenziamenti. L'”aumento della produttività difensivo” è, nel nostro linguaggio, “aumento dell'estrazione di plusvalore assoluto”. Non c'entra nulla con la “produttività”, e persino poco con la profittabilità. È sfruttamento intensivo di una forza lavoro ridotta, che non darà alcun vantaggio”competitivo”, nemmeno ai livelli più bassi della catena produttiva; perché su quel piano la competizione degli “emergenti” (e ancor più dei “non ancora emersi”) è imbattibile.
Per la crescita dell’economia e dell’occupazione è necessario qualcosa di più, non basta neanche fare più cose con le stesse persone (e trovare un mercato per il maggior prodotto). Per creare lavoro si deve produrre molto di più o cose di maggior valore impiegando molte più persone, ma questo richiede la capacità di spostarsi verso settori più avanzati, di creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati. Non ci si arriva dall’oggi al domani. E’ la strada che molte aziende esportatrici (quelle che producono il valore aggiunto più alto indipendentemente dalla dimensione) hanno già percorso, ma non sono abbastanza.
E’ il sistema Italia che deve fare questo salto. Un mese non basterà per cominciare e neanche per mettere a punto la ricetta. Ci aspettiamo almeno un segnale.
Red. Da quel che vediamo, siamo certi che questo “segnale” non arriverà. Come spiega persino Moody's, parlando del rating dei big dell'automobile (Fiat, Renault, Peugeot), siamo in piena “sovraproduzione”. O si riduce la “propria” capacità produttiva (distruggendo capitale, macchinari, infrastrutture, uomini in carne e ossa; è quello che Panara chiama pudicamente “impoverimento”), o si distrugge quella altrui (“creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati”). Chi resta all'interno di questo scenario non può immaginare altro. La possibilità della “cooperazione” non li sfiora nemmeno. È questo che rende la crisi, nelle loro mani, “irrisolvibile”.
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