Il
decreto legge 95 del 2012 prevede la riduzione della spesa pubblica di
26 miliardi in tre anni, di cui 4,5 nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel
2014. Per raggiungere questo obiettivo il governo Monti ha predisposto
una spending review, che nell’intenzione dovrebbe favorire tagli non
lineari ma selettivi, in modo da mantenere inalterato il servizio
erogato dalla Pa. La spending review prevede l’intervento su varie
direttrici: la soppressione di enti, il tetto allo stipendio dei manager
pubblici, le procedure d’acquisto per ridurre i costi di beni e
servizi, il riordino degli enti territoriali, la dismissione di immobili
dello Stato e la riduzione del personale. L’aspetto sicuramente più
grave della spending review è la riduzione del personale statale.
Il 25 settembre è stata adottata la
circolare firmata da Patroni Griffi, il ministro della Pa. La riduzione
prevista è del 20% sul costo delle dotazioni organiche del personale
dirigente e del 10% del personale non dirigente, in pratica decine di
migliaia di persone. La gestione verrà centralizzata presso il
Dipartimento della Funzione pubblica. Le singole amministrazioni
dovevano inviare le proposte di tagli entro il 28 settembre (enti
pubblici e agenzie) e il 4 ottobre (amministrazione dello Stato). Entro
il 31 dicembre 2012 verranno quantificati i tagli e comunicata agli
interessati la data di cessazione del rapporto di lavoro. Il Dpcm che
metterà in mobilità i dipendenti è previsto entro il 31 marzo 2013,
mentre entro il 31 maggio 2013 è prevista l’individuazione del personale
da collocare in part time. Il provvedimento interesserà tutto il
personale pubblico con l’eccezione del comparto sicurezza, il personale
operativo operante nei presso gli uffici giudiziari e il personale della
magistratura. I tagli si scaricheranno quindi sul personale delle Forze
Armate, che passerà dai 190mila ai 170mila, come previsto da tempo dal
Ministero della Difesa, allo scopo di drenare maggiori risorse verso
l’acquisto di sistemi d’arma tecnologicamente avanzati e costosi. Il
maggiore impatto in termini di tagli, però, si avrà soprattutto su enti
di ricerca, scuola, università, e sanità, che rappresentano la quota
maggiore dei dipendenti pubblici e dei servizi principali erogati dallo
Stato alla collettività. Alla scuola verranno sottratti 360 milioni e
verranno tagliati 15mila posti di lavoro. Il taglio ai trasferimenti
statali a enti e Università sarà, rispetto al 2010, del 5% nel 2012 e
del 10% nel 2013. All ’Università i tagli ai trasferimenti statali
produrranno un aumento delle tasse universitarie per i fuoricorso, che
ammontano al 40% degli iscritti. Per quanto riguarda la sanità si
prevede uno riduzione dello standard di posti letto, che produrrà un
taglio di 7mila posti letto entro novembre, e per i prossimi tre anni
tagli per 17 miliardi con un aumento dei ticket per 3 miliardi e
l’innalzamento della fiscalità locale. Il grosso dei tagli non si
realizzerà sugli stipendi degli alti manager pubblici, per i quali il
tetto è previsto a ben 300mila euro, né con misure come la riduzione
delle auto blu, molto di moda nell ’ultimo periodo, ma che rispetto al
totale delle spese rappresenta noccioline. Il vero risparmio si
realizzerà con i tagli al welfare state, che non permetteranno di
mantenere il servizio inalterato. A perderci con la spending review sarà
da una parte l’occupazione, che, sia con la messa in mobilità che con
il blocco del turn over nel pubblico, aggraverà una situazione che nel
privato è già disastrosa. Dall’altra, sarà ridotta l’universalità del
servizio pubblico, in settori come la scuola e l’Università e la
sanità, lo Stato. A guadagnare dalla spending review sarà soprattutto
l’impresa privata. Questo avverrà in diversi modi.
In primo luogo, l’introduzione per la prima volta delle procedure di mobilità nel pubblico impiego italiano daranno un ulteriore colpo al mercato del lavoro. Infatti, il pubblico impiego era rimasto l’unico settore in cui le misure di liberalizzazione del mercato del lavoro avevano avuto un impatto ancora debole, malgrado i contratti precari vi siano molto diffusi.
Il concetto che anche il posto pubblico a tempo indeterminato è a rischio rappresenta non certo un incentivo alla maggiore efficienza della Pa ma un ulteriore indebolimento della forza negoziale del lavoro. Del resto, l’introduzione di nuovi sistemi di valutazione della produttività dei dipendenti pubblici, uno degli obiettivi dichiarati della spending review, è stata rapidamente messa da parte per la mancanza di disponibilità di risorse da parte del governo. In secondo luogo, l’indebolimento ulteriore della sanità e della scuola pubblica favoriscono la crescita della presenza del privato in questi settori mentre la riallocazione della spesa militare dal personale agli strumenti favorirà l’industria militare. In terzo luogo, i tagli nella Pa renderanno disponibili risorse per quello che Confindustria chiede da tempo, cioè la riduzione delle tasse alle imprese. Recentemente Squinzi, presidente della Confindustria, ha reiterato la richiesta dell’aumento della detassazione e della decontribuzione dei premi aziendali allo scopo di favorire il collegamento dei salari alla produttività. A questo tipo di misure si aggiungono, come richiesto recentemente dalla Fiat, anche gli incentivi all’export. Ma l’obiettivo principale è la riduzione, meglio ancora l’abolizione, dell’Irap, un obiettivo storico di Confindustria. Visto che l’Irap non è propriamente una tassa, ma contiene la parte del salario indiretta che va a pagare l’assistenza sanitaria e altre spese previdenziali, i tagli alla sanità rappresentano la base per tagliarla o ridurla, cosa che del resto è in parte già avvenuta. Lo stesso Giavazzi, cui il governo aveva affidato parte della ricerca sulla spending review, parla nel suo rapporto della possibilità di riduzione della pressione fiscale sulle imprese solo con una drastica riduzione della spesa pubblica. In realtà, i tagli previsti da Giavazzi sono, a giudizio dei tecnici del Tesoro, al di sotto di quello che sarebbe necessario, cioè 6-6,5 miliardi, per evitare un ulteriore aumento del 2% dell ’Iva. La "fase due" della spending review prevista dal governo indica un ulteriore aumento dei risparmi attesi da 3-3,5 miliardi a più di 4 miliardi.
Dunque, mentre le imposte indirette, quelle che gravano di più su chi è più povero come l’Iva e le accise sui carburanti, sono aumentate e rischiano di aumentare ancora, le imposte sulle imprese vengono tagliate e gli incentivi aumentati. Infine, la dismissione degli immobili pubblici rappresenta un ulteriore aspetto negativo della spending review per due ragioni. In primo luogo, perché storicamente gli incassi da simili alienazioni sono risultati ben al di sotto delle aspettative. Vendere per fare cassa nell’immediato è sbagliato: in un momento di difficoltà non si possono spuntare prezzi adeguati e lo Stato si priva definitivamente di un valore. In secondo luogo, perché generalmente l’alienazione di immobili statali favorisce le attività speculative dei grandi gruppi immobiliari, mentre lo Stato potrebbe cambiare la destinazione d’uso di molti di essi, ad esempio le ex caserme, per farne un uso pubblico.
In primo luogo, l’introduzione per la prima volta delle procedure di mobilità nel pubblico impiego italiano daranno un ulteriore colpo al mercato del lavoro. Infatti, il pubblico impiego era rimasto l’unico settore in cui le misure di liberalizzazione del mercato del lavoro avevano avuto un impatto ancora debole, malgrado i contratti precari vi siano molto diffusi.
Il concetto che anche il posto pubblico a tempo indeterminato è a rischio rappresenta non certo un incentivo alla maggiore efficienza della Pa ma un ulteriore indebolimento della forza negoziale del lavoro. Del resto, l’introduzione di nuovi sistemi di valutazione della produttività dei dipendenti pubblici, uno degli obiettivi dichiarati della spending review, è stata rapidamente messa da parte per la mancanza di disponibilità di risorse da parte del governo. In secondo luogo, l’indebolimento ulteriore della sanità e della scuola pubblica favoriscono la crescita della presenza del privato in questi settori mentre la riallocazione della spesa militare dal personale agli strumenti favorirà l’industria militare. In terzo luogo, i tagli nella Pa renderanno disponibili risorse per quello che Confindustria chiede da tempo, cioè la riduzione delle tasse alle imprese. Recentemente Squinzi, presidente della Confindustria, ha reiterato la richiesta dell’aumento della detassazione e della decontribuzione dei premi aziendali allo scopo di favorire il collegamento dei salari alla produttività. A questo tipo di misure si aggiungono, come richiesto recentemente dalla Fiat, anche gli incentivi all’export. Ma l’obiettivo principale è la riduzione, meglio ancora l’abolizione, dell’Irap, un obiettivo storico di Confindustria. Visto che l’Irap non è propriamente una tassa, ma contiene la parte del salario indiretta che va a pagare l’assistenza sanitaria e altre spese previdenziali, i tagli alla sanità rappresentano la base per tagliarla o ridurla, cosa che del resto è in parte già avvenuta. Lo stesso Giavazzi, cui il governo aveva affidato parte della ricerca sulla spending review, parla nel suo rapporto della possibilità di riduzione della pressione fiscale sulle imprese solo con una drastica riduzione della spesa pubblica. In realtà, i tagli previsti da Giavazzi sono, a giudizio dei tecnici del Tesoro, al di sotto di quello che sarebbe necessario, cioè 6-6,5 miliardi, per evitare un ulteriore aumento del 2% dell ’Iva. La "fase due" della spending review prevista dal governo indica un ulteriore aumento dei risparmi attesi da 3-3,5 miliardi a più di 4 miliardi.
Dunque, mentre le imposte indirette, quelle che gravano di più su chi è più povero come l’Iva e le accise sui carburanti, sono aumentate e rischiano di aumentare ancora, le imposte sulle imprese vengono tagliate e gli incentivi aumentati. Infine, la dismissione degli immobili pubblici rappresenta un ulteriore aspetto negativo della spending review per due ragioni. In primo luogo, perché storicamente gli incassi da simili alienazioni sono risultati ben al di sotto delle aspettative. Vendere per fare cassa nell’immediato è sbagliato: in un momento di difficoltà non si possono spuntare prezzi adeguati e lo Stato si priva definitivamente di un valore. In secondo luogo, perché generalmente l’alienazione di immobili statali favorisce le attività speculative dei grandi gruppi immobiliari, mentre lo Stato potrebbe cambiare la destinazione d’uso di molti di essi, ad esempio le ex caserme, per farne un uso pubblico.
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