Nessuna sorpresa. Al tavolo con i sindacati il
governo ha esposto la sua filosofia di "politica industriale": fate voi,
noi al massimo vi possiamo indicare le cose che dovreste fare.
Forse è il caso di prendere atto che gli "invasori" messi lì dalla troika attraverso Napolitano stanno effettivamente cambiando la struttura del paese. Intanto distruggendo le funzioni "sociali" - in senso lato - dello Stato. La rivendicazione di aver aggravato la recessione con le scelte fatte in dieci mesi illumina il "progetto di società" che dall'alto dei cieli europei "deve" essere imposto per il futuro.
L'idea di fondo, presa dai manuali più eterei di macroeconomia liberista, recita semplicemente: l'economia è affare delle imprese, che devono avere le idee, i capitali, la possibilità di imporre il tipo di contratto che loro conviene. I lavoratori debbono "competere" tra di loro per chi obbedisce di più e lavora fiatando meno. Il governo controlla dall'alto, indica le disfunzioni, favorisce le impresa che offrono soluzioni innovative, cancella le leggi che danno un briciolo di forza collettiva al lavoro, manda la polizia quando il conflitto supera una certa sogli molto bassa. E basta.
Dimenticatevi dell'Iri, delle partecipazioni statali, della programmazione economica, dei "piani per il paese". Tutta roba che, secondo il pensiero degli economisti "ortodossi" alla Van Hayek, ha "impigrito" sia i lavoratori che le imprese, rendendo queste ultime troppo dipendenti dalla spesa pubblica. Sia sotto forma di appalti che di incentivi, di favoreggiamento dell'evasione fiscale che entrambi gli occhi chiusi sul lavoro nero.
Il regno dell'economia, quello in cui dovrebbe in teoria ripartire "la crescita", per questo governo è una savana in cui "ogni mattina, non importa che tut sia gazzella o leone, devi correre".
Forse è il caso di prendere atto che gli "invasori" messi lì dalla troika attraverso Napolitano stanno effettivamente cambiando la struttura del paese. Intanto distruggendo le funzioni "sociali" - in senso lato - dello Stato. La rivendicazione di aver aggravato la recessione con le scelte fatte in dieci mesi illumina il "progetto di società" che dall'alto dei cieli europei "deve" essere imposto per il futuro.
L'idea di fondo, presa dai manuali più eterei di macroeconomia liberista, recita semplicemente: l'economia è affare delle imprese, che devono avere le idee, i capitali, la possibilità di imporre il tipo di contratto che loro conviene. I lavoratori debbono "competere" tra di loro per chi obbedisce di più e lavora fiatando meno. Il governo controlla dall'alto, indica le disfunzioni, favorisce le impresa che offrono soluzioni innovative, cancella le leggi che danno un briciolo di forza collettiva al lavoro, manda la polizia quando il conflitto supera una certa sogli molto bassa. E basta.
Dimenticatevi dell'Iri, delle partecipazioni statali, della programmazione economica, dei "piani per il paese". Tutta roba che, secondo il pensiero degli economisti "ortodossi" alla Van Hayek, ha "impigrito" sia i lavoratori che le imprese, rendendo queste ultime troppo dipendenti dalla spesa pubblica. Sia sotto forma di appalti che di incentivi, di favoreggiamento dell'evasione fiscale che entrambi gli occhi chiusi sul lavoro nero.
Il regno dell'economia, quello in cui dovrebbe in teoria ripartire "la crescita", per questo governo è una savana in cui "ogni mattina, non importa che tut sia gazzella o leone, devi correre".
La crescita? Affari vostriFrancesco Piccioni, Il Manifesto
La crescita è affare vostro. Crediamo sia la prima volta nella storia - non solo italiana - che un governo in carica si rivolge così alle parti sociali (sindacati e imprese, in primo luogo). «Il ruolo del governo è quello di cogliere il problema e farlo cogliere alle parti sociali e all'opinione pubblica. Facilitare le due parti a confrontarsi su questo tema e seguire le modalità». Poteva anche dire «scordatevi che da noi venga una proposta di politica industriale». Ma forse sarebbe sembrato poco elegante.
L'incontro con i sindacati, dunque, sembra essersi svolto in un clima decisamente «innovativo». Finito il tempo in cui i tavoli di concertazione vedevano l'esecutivo aprire una borsa immaginaria da cui trarre il valsente per accontentare tutti i commensali. In cassa non c'è una lira, ripetono in coro da molti mesi, e «intendiamo mettere le poche risorse che abbiamo come un'azione di supporto a quello che porterete come sindacato dal tavolo degli imprenditori». Parola di Corrado Passera, ministro di uno sviluppo economico demandato al libero gioco degli attori sul mercato.
Il «problema» che il governo ha messo davanti ai segretari generali confederali (Susanna Camusso per la Cgil, Raffaele Bonanni per la Cisl e, in assenza di Luigi Angeletti, Antonio Foccillo per la Uil) si chiama «produttività». Naturalmente accompagnato dalla «riduzione del costo del lavoro». Nel consueto impasto di retorica tra il gesuitico e il manageriale, il governo «si è chiesto se si sono fatti tutti gli sforzi per mettere in pratica l'accordo del 28 giugno 2011; ci chiediamo se non sia il caso di procedere ad uno sforzo di modernizzazione dei rapporti» tra le parti sociali «per cercare di colare questo spread di produttività». Ha portato infatti la certezza che Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo «hanno aumentato la produttività e diminuito il costo del lavoro», l'Italia (ancora) no.
Non è difficile capire cosa intenda il governo - e Confindustria - per aumento della produttività: «le ore lavorate», naturalmente a parità di salario. O quasi. «Senza aumenti della produttività gli aumenti salariali saranno impossibili». Nessun accenno al fatto che la produttività, normalmente, dipende dall'«innovazione di processo», ossia dagli investimenti in macchinari più moderni. Altrimenti, si accelera semplicemente la prestazione, come in Tempi moderni.
Tutto questo lavorare di più - è sfuggito a Passera - serve soprattutto a «convincere i mercati che l'Italia sta facendo sul serio»; che sta creando insomma le condizioni migliori per favorire l'arrivo di grandi imprenditori. Anche se - da Alcoa a Fiat, da Vinyls a Ibm - avviene esattamente l'opposto.
Ma cosa significa «ci sono margini per mettere più soldi in tasca alla gente»? I pochi dettagli concreti erano già arrivati in mattinata dal ministro Elsa Fornero. La quale aveva spiegato come ci fosse ancora qualche incertezza sullo strumento da usare, tra «detassazione del salario di produttività» (ovvero degli straordinari; spiccioli) e riduzione del cuneo fiscale. «Studieremo entrambi i provvedimenti, si tratta di trovare le risorse, ma nessuno si aspetti - ci mancherebbe, ndr - che saranno su vasta scala». La sua idea, è noto, consiste nel premiare «le buone relazioni di lavoro»; o, come usava dire in modo più brutale il suo predecessore Maurizio Sacconi, la «complicità» subordinata tra sindacato e impresa. Non si usa più la parola «cottimo», ma a occhio non dovremmo essere troppo lontani.
Le reazioni dei due segretari sindacali, dopo due ore di riunione, sono state come sempre immediatamente diverse. Bonanni ha preferito incassare il ritorno a un tavolo di palazzo Chigi come «una smentita per tutti i gufi anticoncertazione». Tanto, con la sua nota preferenza per la contrattazione prevalentemente aziendale, «coltiverò la possibilità di raggiungere un'intesa con le aziende», ha aggiunto senza troppi giri di parole.
Molto perplessa, invece, il segretario della Cgil, che era arrivata all'incontro con in tasca una delega del Direttivo nazionale a «programmare azioni di lotta, sino allo sciopero generale». Non c'è assolutamente alcun impegno» da parte del governo, che «continua a immaginarsi una incentivazione semplicemente al maggior lavoro», mentre infuriano «cassa integrazione e licenziamenti e riduzione della produzione». Ha gettato sul tavolo anche la modesta proposta di detassare le tredicesime, ma non si ha notizia di risposte. «Il governo continua a dire che le risorse non ci sono e questo dimostra la debolezza di una politica che propone la crescita senza mettere a disposizione provvedimenti e risorse».
Il problema in effetti è stato posto da Monti in altri termini: «le proposte e le risorse (in termini di «disponibilità») le dovete mettere voi. Questo governo, ripetiamo, ritiene che la «politica industriale» non sia affar suo. Ma «del mercato». In pratica, affari nostri.
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